26 settembre 2010

L'intermittenza di Andrea Camilleri

Una cosa emerge subito, leggendo questo libro: tutti i protagonisti si muovono come se mancasse loro qualcosa.
Potere (raggiungere una posizione di maggiore potere), avidità, controllo sugli avversari che vengono considerati come ostacoli da sbaragliare se si frappongono alla strada che porta al potere. Le donne considerate come prede per i bassi istinti sessuali, da usare per sfogare le tensioni, o da usare come pedine per le guerre personali .

Leggendo il racconto non si può non ricollegare la trama con la cronaca dei giornali: aziende in crisi o che usano la crisi per delocalizzare e chiudere. Accordi sottobanco per acquisire, o meglio conquistare, imprese concorrenti: ricatti, mazzette, presunti complotti per screditare o indebolire la controparte.

Solo che questa volta, questo mondo di cui Camilleri da un quadro poco edificante, si ha la fortuna di viverlo dall'interno: dalla parte dei manager rampanti, che passati i quarant'anni a fare le scarpe a qualcuno, abituati a vivere in stato di perenne pressione, si ritrovano spremuti e vecchi come una persona di ottanta anni.
Come avviene a Mauro De Blasi, direttore generale di una impresa in crisi, la Manuelli, ma in procinto di acquisire una impresa più grande, la Birolli, ma con i conti in stato peggiore.
Mauro è un manager abile e spietato nel prendere le decisioni, furbo nell'anticipare le mosse degli avversari. Freddo e preciso calcolatore: negli ultimi giorni, però, un disturbo fastidioso sembra appannarne la forza. È come se il suo cervello avesse dei brevi momenti di stop, improvvisi black-out, delle intermittenze, che oltre alla sua salute, rischiano di minare la sua immagine ..
Mauro ha una moglie bella e stupida che lo tradisce con il suo vice, il direttore del personale, che l'ha conquistata con delle poesie che le legge nei momenti d'amore. Ma che non ha problemi a lasciare per strada padri di famiglia per il piano di ristrutturazione.
La sua segretaria, Anna, è una fedele impiegata, ma è invecchiata troppo presto dentro l'azienda, senza riuscire a crearsi una sua vita personale .
Licia Birolli è la nipote del presidente dell'omonima industria: oberata dai debiti è costretta a vendere alle condizioni imposte da Mauro. Ma Licia è una donna altrettanto abile, oltre che essere una bella donna, subito puntata da Mauro.
Completano il quadretto anche vecchi industriali che non sono più in grado di comprendere e pilotare le imprese nel mondo di oggi e giovani figli di papà inetti e viziati.

Odio, desiderio, vendetta, potere. Nessun sentimento positivo anima queste persone.
Nessuno scrupolo nel gettare migliaia di lavoratori in Cassa integrazione, nel mentire di fronte ai dipendenti e ai sindacati. Discorsi roboanti dinanzi ad una platea di indutriali e ministri, dove si cita l'etica, il merito, ma dietro una realtà dove vince il più feroce, il più furbo, il più cattivo.
Alcuni episodi, come un presunto attentato di fronte ad un'azienda occupata, faranno riflettere il lettore su come si nuove veramente la realtà dietro le frasi fatte, gli slogane e le platee dei meeting.

Ma ne vale la pena?
Questa la domanda che rimane, quando si chiude il libro. E questo è il dubbio che Camilleri ci lascia, dopo l'ultima pagina.

Le prime pagine:

Fu allora che ebbe lacerante certezza della prossimità della sua morte.
Si stava spalmando il sapone da barba e prima sobbalzò, poi si bloccò, le punte delle dita incremate sulla guancia destra. Allo specchio, appariva nella stessa posa della foto pubblicata sulla copertina dell’ultimo numero di Comunicazione e impresa, dedicata ai manager più importanti del Paese, che conteneva anche una sua lunga intervista.
Un attimo prima era intento a riandare col pensiero alla cena della sera avanti, tra l’altro il vecchio Birolli era accompagnato da una nipote ventenne che lèvati, quando, all’improvviso, erano comparse quelle parole. O meglio, le aveva lette. Ma dove? Sullo specchio?
Sì, ma non propriamente sullo specchio, bensì al posto dello specchio. Perché, per una durata non più lunga di un battito di ciglia, la luce doveva essere andata via. E, nel buio, l’invisibile riquadro dello specchio si era trasformato in una sorta di minuscolo schermo cinematografico, sul quale, nitida, in bianco, era apparsa la frase. Come la didascalia conclusiva di un film muto, scritta in corsivo.
Però non l’aveva letta. Qualcuno l’aveva pronunciata ad alta voce.
Via, non era al cinema. Era dentro la sua stanza da bagno.
Quindi non poteva essere stato che lui. Aveva parlato da solo.
Era la prima volta che gli capitava. O forse gli era successo altre volte, ma non se ne era mai accorto.
Segno dell’età? A soli quarantadue anni? Non scherziamo.
Però non poteva permettersi il lusso di dire cose al di fuori di ogni controllo. Figurati se gli capitava durante una riunione del consiglio d’amministrazione o mentre era impegnato in una trattativa delicata!
Si ripromise di parlarne con Guidotti, alla prima occasione.
Cominciò a radersi, ma si sentiva leggermente a disagio.
Fu allora che ebbe lacerante certezza della prossimità della sua morte.
L’infastidiva soprattutto l’estraneità di quella frase. Troppo elegante, troppo ben composta. Lui non parlava e non scriveva così. Era una frase da scrittore. E lui non aveva mai ceduto alla fantasia della scrittura, neppure da ragazzo, quando i primi amori ti fanno mettere parole sulla carta. Veramente gli doveva essere stata come proiettata dall’esterno, non era possibile che l’avesse concepita dentro di sé, da sé.
E comunque: chi ne era il soggetto?
O l’oggetto?
A chi apparteneva insomma quella morte?
Non certo a lui.
A meno che non si fosse messo a parlare di se stesso in terza persona. Come faceva il vecchio Manuelli. «Manuelli non sapeva nemmeno cosa fosse una fabbrica quando ci entrò a sedici anni come apprendista saldatore». Parlava di sé come se leggesse la sua biografia. E tutti gli ridevano alle spalle.

Uscì nudo dal bagno e andò nello spogliatoio. Si rimise l’orologio al polso, lo controllò. Era in anticipo, mancava un’ora all’arrivo della macchina. Stava per aprire il cassetto della biancheria, ma cambiò pensiero. Si mosse, entrò nella camera da letto.
Marisa dormiva, al suo solito non avrebbe aperto gli occhi prima delle dieci. Lei amava il caldo, quindi tenevano acceso al massimo il riscaldamento anche durante la notte. Ma ora forse il calore era diventato eccessivo, se Marisa se ne stava bocconi nuda, di traverso, il lenzuolo appallottolato accanto, le cosce leggermente divaricate, una delle sue lunghe gambe, la sinistra, penzolante fuori dal bordo del letto.
Venne assalito da uno spasimo di desiderio tanto improvviso quanto violento. La sera avanti non l’avevano fatto, anche se lui ne aveva avuto voglia: il dopocena si era protratto sino alle due e Marisa, appena a letto, aveva mormorato d’essere troppo stanca. Ma capitava raramente.
Da cinque anni che erano sposati, solo eccezionalmente Marisa gli si era rifiutata, anzi spesso era stata lei a prendere l’iniziativa. La guardò: aveva un corpo superbo da ventenne, che sfoggiava con la matura coscienza di sé che ha una trentenne.
Svegliarla?
La conosceva bene, non avrebbe ottenuto nulla, se non un seccato e definitivo:
«Vattene, lasciami dormire».
Lei si chiudeva nel suo sonno come un pulcino dentro l’uovo, guai a rompere il guscio prima del dovuto.
Ma più stava a guardarla, più il desiderio diventava forte e impellente. Se non se ne liberava, se lo sarebbe portato appresso anche sul lavoro, e di certo lo avrebbe annebbiato, rendendolo meno vigile e pronto.
E quella era invece una mattinata nella quale sapeva di non potersi lasciare andare nemmeno per un secondo.

Il link per ordinare il libro su ibs.
La scheda del libro sul sito di
Vigata.
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