04 gennaio 2012

Lo statista, di Nando Dalla Chiesa

Francesco Cossiga: promemoria su un presidente eversivo.
Unanimamente, eversivamente, impunemente, virilmente, magnanimamente, segretamente, maramaldamente, deferentemente, malandrinamente, marzialmente, pedagogicamente, docilmente, sinteticamente.

Con questi termini il professor Nando Dalla Chiesa, nonché ex parlamentare ed editorialista per Il Fatto quotidiano e Europa, descrive l'ex presidente “emerito” della Repubblica, Francesco Cossiga.
Questo saggio, che per se non costituisce affatto una biografia , nasce dall'editoriale scritto, quasi di getto, il 18 agosto 2010. “Sarò onesto, Cossiga non mi mancherà” scriveva Nando Dalla Chiesa, una delle poche voci fuori dal coro, quel “democratico pubblico plaudente” che ha descritto Cossiga come “uomo delle istituzioni” (Finocchiaro), “uno che ha rappresentato i principi della Costituzione” (Fini), uno “che ha sempre agito per il senso dello Stato” (Franceschini) …
Ma tutto questo è vero?
In questo saggio si smonta tutto questo bel castello immaginifico costruito attorno alla figura del “picconatore” : niente affatto uomo dello stato, niente affatto uomo rispettoso della Costituzione e dei suoi principi, niente affatto uomo ispirato al bene comune e pronto a mettere lo Stato davanti ai problemi personali e del suo partito.

Dalla Chiesa comincia proprio da quel soprannome “picconatore”, che per anni è stato inteso in senso positivo: ovvero con le sue picconare Cossiga intendeva in realtà svecchiare o abbattere quella parte dello Stato per rinnovarle dal suo interno.
Non fu così: le sue esternazioni iniziarono con la rivelazione dell'esistenza di Gladio nell'ottobre 1990, da parte dell'allora presidente del Consiglio Andreotti.
Anziché spiegare o chiedere scusa, per questa organizzazione fuori dai principi della Costituzione e legata anche ad episodi della strategia della tensione (come la strage di Peteano), Cossiga scelse la strada dell'attacco.
Contro la magistratura, anzi contro quella parte della magistratura che si era permessa di andare al sud e fare la lotta alla mafia (guai a parlare di lotta alle mafie, lui che aveva fatto la lotta al terrorismo).
Cossiga tuonò contro il CSM (nel 1985,minacciò di usare i carabinieri contro la presa di posizione del CSM sull'uscita di Craxi, che accusava la magistratura milanese per l'omicidio di Walter Tobagi), contro i giudici ragazzini, contro il giudice Casson che proprio su Peteano stava indagando. Un comportamento non proprio da presidente del CSM, da capo delle forze armate, da presidente della Repubblica garante dei pesi e contrappesi delle nostre istituzioni.
Lui che si fregiava del grado di capitano di fregata, non avendo fatto il militare. Grado conseguito grazie ad un decreto del 1932.

Sono ricordati diversi episodi del passato di Cossiga, e che non depongono favorevolmente sulla tesi di uomo di stato, o statista: il rapimento e morte di Aldo Moro da parte delle BR, il caso Donat Cattin (quando Cossiga fu sospettato di aver rivelato a un compagno di partito, il senatore Carlo Donat Cattin, che suo figlio Marco era indagato e prossimo all'arresto, essendo coinvolto in episodi di terrorismo, suggerendone l'espatrio). Il caso Gladio, appunto, dove i gladiatori vennero definiti partigiani.

I silenzi sullo scandalo P2 (nelle liste uscite dalla perquisizione di Villa Wanda, figuravano molti generali e uomini delle istituzioni).
Le morti di Giorgiana Masi (colpita alle spalle durante una manifestazione in cui si scoprì vi erano degli agenti infiltrati nei manifestanti, armati) e Francesco Lorusso.

Ma non sono solo queste brutte pagine della nostra storia a tracciare un profilo politico dell'ex presidente Cossiga tutt'altro che da statista: ci sono stati anche gli attacchi volgari e diffamatori contro persone morte (che non potevano nemmeno difendersi). Aldo Moro, che Cossiga definì il padre di Gladio (“io non ne sapevo niente”). Falcone, di cui Cossiga disse che aveva rifiutato la candidatura a procuratore capo a Palermo per non scavalcarlo (Falcone, morto, non poteva ribattere).
L'aver sdoganato uno stile volgare nelle interviste coi giornalisti “amici” (ben prima della seconda repubblica), con cui mettere a tacere l'interlocutore: come nell'intervista su Sky, in cui insultò il presidente dell'ANM Palamara:

"Questo magistrato la faccia intelligente non ce l'ha sicuramente...".
In studio cala il gelo, Palamara è spiazzato e la Latella richiama bonariamente il Presidente. Lui rincara la dose e finge di non conoscerlo: "Come si chiama lei? Palamara come il tonno?".
La scenetta prosegue e Cossiga persevera nel paragone ittico: "Ha la faccia da tonno, io non ci parlo".
La querelle continua per qualche minuto e poi il magistrato sbotta:
"Lei è offensivo". Per Cossiga è una medaglia al valore: "Certo che lo sono, mi quereli, su mi quereli!".


E poi gli attacchi al giudice Caselli (colpevole di aver proceduto sul caso Donat Cattin), ai parenti di Moro, all'ex ministro Rognoni....

Avere ogni volta riscritto le pagine della nostra storia secondo il suo comodo: la strage alla stazione di Bologna? Colpa dei “compagni palestinesi” che potevano girare per l'Italia grazie al lodo Moro (colpa di Moro dunque, mentre lui era solo presidente del Consiglio).
La strage di Ustica? Un missile francese.
E ogni volta, nessun giornalista che si sia sentito in obbligo di chiedere a questo uomo di stato come mai queste cose non le avesse fin'ora dette alla magistratura? Solo veleno, istillato grazie a quella zona franca che ogni volta gli veniva concessa dai buoni giornalisti, ammaliati dalle sue presunte rivelazioni sui misteri d'Italia.
Esternazioni che nascondevano quel veleno usato per attaccare i suoi nemici (Moro, il PCI, Caselli,..): leggetevi ad esempio questa intervista sul corriere, a firma di Aldo Cazzullo.

A trent'anni dalla morte di Moro, il consulente che le inviò il Dipartimento di Stato, Steve Pieczenick, ha detto: «Con Cossiga e Andreotti decidemmo di lasciarlo morire». Quell'uomo mente? Ricorda male? Ci fu un fraintendimento tra voi? O a un certo punto eravate rassegnati a non salvare Moro?
«Quando, con il Pci di Berlinguer, ho optato per la linea della fermezza, ero certo e consapevole che, salvo un miracolo, avevamo condannato Moro a morte. Altri si sono scoperti trattativisti in seguito; la famiglia Moro, poi, se l'è presa solo con me, mai con i comunisti. Il punto è che, a differenza di molti cattolici sociali, convinti che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile, io ero e resto convinto che lo Stato sia un valore. Per Moro non era così: la dignità dello Stato, come ha scritto, non valeva l'interesse del suo nipotino Luca».
In un colpo solo si scarica tutto sul PCI, su Moro (colpevole di aver messo il nipotino davanti la ragion di Stato) …
Un giornalista vero avrebbe chiesto, almeno, come mai questa ragione di stato, questa linea della fermezza non fu adottata nel rapimento Cirillo, quando fu perfino permesso l'intervento della Camorra in cambio di appalti in Campania.

Cossiga, la conclusione dell'autore del saggio, non fu affatto statista liberale, spirito libero, uomo di stato.
Dalla Chiesa lo definisce collante tra prima e seconda repubblica:
dalla quarta di copertina

“Alla fine lo hanno salutato come un grande statista. Eppure più scavavo nella memoria, più selezionavo i fatti, più mi rendevo conto che Cossiga era stato il vero trait d’union tra la prima Repubblica e la seconda, il custode dei misteri della prima e l’anticipatore delle insolenze della seconda. Ormai fuori dalla prima e mai abbastanza dentro la seconda, aveva finito per rappresentarle tutte e due: lo spirito dei tempi del Divo e lo spirito dei tempi del Caimano”

Il blog di Nando Dalla Chiesa
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