19 febbraio 2013

Il patto del giudice, di Mimmo Gangemi

Leggendo i libri di Gangemi (da "Il giudice meschino" a "La signora di Ellis Island" per arrivare a questo "Il patto del giudice") si riesce a capire che aria si respira, come si vive e cosa si pensa in terra di Calabria, molto meglio che non leggendo dei saggi di storia e criminalità.
Come ragionano i capibastone, quale è la percezione tra le persone della ndrangheta, il rapporto con la politica e con la magistratura (per cui ad. esempio, non si uccidono i magistrati, ma gli si può fare paura).

Oggi della ndrangheta se ne parla finalmente sui giornali, dopo che le inchieste delle procure del sud e del nord, ma nessuna inchiesta è capace di raccontarla dal di dentro.
Come fa questo romanzo, ambientato in una città della piana di Gioia Tauro, che parte dalla rivolta degli africani a Rosarno, contro le dure condizioni di lavoro, contro il capolarato, dopo gli spari contro alcuni braccianti da parte di ragazzi del paese.

Dopo la rivolta dei neri, è il turno della vendetta della popolazione di cui ne pagano il prezzo tre africani colpiti a morte dalle spranghe. Erano tre "caporali" che si arricchivano alle spalle dei braccianti:  gente che aveva vissuto per "anni assieme ai bianchi, a combinarci affari – e, da caporale, a fornire i lavoranti, trattenendo per sé cinque euro dei venticinque di paga".

Vengono uccisi brutalmente e nascosti sotto terra.

E' questo il primo caso di cui si deve occupare Alberto Lenzi, magistrato che è donnaiolo e ritenuto anche un pò indisciplinato (soprattutto agli occhi del capo): l'altro, ben più importante, parte da una lettera anonima che avvisa la procura di un carico di droga in arrivo al porto.
Lenzi deve tenere d'occhio il container con la droga, una partita di 200 kg, per arrivare ai pesci grossi dietro questo commercio.
Ma qualcosa va storto: qualcuno nel porto riesce a rubare la droga prendendosi beffa della guardia dei carabinieri e anche del magistrato.

Chi è la talpa dei trafficanti?

Può essere solo "qualcuno che sapeva s’era approfittato della notte, e di qualche complicità, e aveva sottratto il carico. Ma non un qualcuno qualunque, un qualcuno con palle tali da non crearsi preoccupazione dei Pinnuto".
Poco giorni dopo, Vittorio Spanti, un funzionario della dogana, viene trovato ucciso dentro una casupola in un terreno "a disposizione" della cosa dei Cortara, ma di proprietà del "cavaliere Filippo Cianci Faraone più di trent’anni prima si era guadagnato il soprannome Minchia, perché con la minchia ragionava".

Il funzionario è stato prima torturato per bene:

«Gli hanno mozzato le dita uno a uno, per farlo parlare. Dopo, gliele hanno infilate in bocca. Lo capisci cosa significa, sì?» «Spiegano che è morto perché s’era coinvolto in un furto e perché aveva rivelato segreti. Usanze antiche. Ogni tanto le mettono in atto per dare a intendere che sono quelli di un tempo, onorata società che pondera e non ’ndrangheta. S’illudono che così mantengono il rispetto che avevano i loro vecchi.»
Forse è l'indizio di una nuova guerra tra cosche, perché Spanti potrebbe essere stato ucciso perché ritenuto colpevole di aver rivelato della droga (di proprietà della famiglia dei Pinnuto) alla cosca avversaria dei Cortara: quella morte «È un messaggio ai Cortara, li informano che sanno che sono stati loro. Glielo hanno servito là apposta.»

Controllare il porto, di Gioria Tauro, significa controllare il traffico di droga, di rifiuti (anche radioattivi), di armi.
Le indagini di Lenzi, che in questo momento sta vivendo un momento difficile per come sta andando avanti il rapporto con Marina, il maresciallo dei carabinieri con cui ha una relazione, non approdano a nulla.
Fino all'incontro col veccio boss don Mico Rota (conosciuto nella precedente indagine "Il giudice meschino"): col suo modo di fare, che mischia storie vere con racconti inventati, racconti del passato usati come metafore per intepretare fatti dell'oggi, riesce a mettere Lenzi su una buona pista.

Per esempio parlandogli della parabola dei due carichi:
«Parabola significa che al porto ci hanno aiutato a trovare il carico piccolo per distrarci da quello grosso, nascosto in un container diverso. Questo intendevate? Dopo, altri ci hanno fatto fessi sottraendo il carico piccolo. Fessi due volte, quindi. Eh, Rota?» tirò le somme Lenzi, senza sganciare don Mico, per non perdersi le reazioni.
Le parole di don Mico Rota gli permettono di ritrovare i cadaveri dei tre neri, uccisi mesi prima dopo la rivolta: su questi cadaveri poi, la scientifica ritrova del DNA che inchioda uno dei Cortara, il capo di una delle dei due famiglie in guerra.

Che interessi ci sono dietro queste rivelazioni del boss? Perché anzichè pentirsi, usa queste parole che dicono e non dicono e che accusano altre famiglie?
Cosa si aspetta in cambio il vecchio capobastone, finito ai domiciliari nonostante diverse condanne sulle spalle?
Lo si arriva a scoprire solo alla fine. Quando Lenzi, sia per le rivelazioni del boss, sia grazie al suo fiuto, riesce a sbrogliare la matassa, sia per il furto della droga che per le morti dei tre immigrati.
E non importa se, a pagare per questi omicidi non saranno i veri responsabili, ma comunque dei criminali che in cella male non stanno: Lenzi dovrà accontentarsi di una giustizia "ingiusta".

La vera verità, il giudice Lenzi la può solo confidare all'amico Lucio, il proprietario del fondo finito in mano alla ndrangheta:

«Non la senti pure tu un’aria più pulita?» riprese Alberto.
«È finita in carcere gente che doveva nascere e morire in carcere. I morti non è che meritassero medaglie al valore... I sette africani non vale la pena cercarli, a parte che non saprei da che parte cominciare, ho solo due nomi e chissà dove sono scappati. E conviene più zi’ Cicco in carcere che loro. Qui, fine della storia. Giustizia è fatta.»
[..]
«Hai presente quella signora con la spada nella mano destra e una bilancia nella sinistra, tenuta alta e con i due piatti in perfetta orizzontale? Quella un po’ ignuda? Quella che fa le cose giuste? Be’, per una volta ho deciso di indossare i suoi abiti. E mi pare che mi stanno a pennello.» «È anche bendata, quella signora.» «No, bendata è la Fortuna, non la Giustizia.»

Finale amaro, che forse vuole dirci che con la sola giustizia "cieca", non si riuscirà mai a sconfiggere la ndrangheta?

Come ho scritto all'inizio, questo romanzo va oltre la facciata, quando parla della criminalità organizzata.
L'autore spiega infatti, come una certa antimafia di facciata (che non faccia nomi dei colpevoli e della famiglie) sia di comodo anche alla ndrangheta:

"Mimì capiva che in politica era sacrosanto, pure una buona tattica, prendersela con la ’ndrangheta – tutti se la prendevano con la ’ndrangheta, anche gli ’ndranghetisti camuffati da integerrimi, anche chi era a paga degli ’ndranghetisti. Nulla da obiettare, ci mancava. Però con la ’ndrangheta in generale, seguendo una linea di principio, senza sbilanciarsi nei dettagli. Nomi, no. Invece, Fasolo poco c’era mancato che piazzasse sul tavolo le loro carte d’identità. Fesso. Quale bisogno c’era? Dov’era la notizia? Cani e porci sapevano ch’era la famiglia Rota a dirigere la matassa in città."
E anche la scoperta, non vera, della struttura verticistica della ndrangheta:
«Hanno deciso per la tesi della piramide e del capocrimine? E non se la rimangiano più. Conviene a giudici, politici, uomini d’affari, giornalisti. Aumentano in carriera, in moneta, in nominata. E non gliene fotte che alla gente di qui, che vede e che sa, scappa da ridere,
Una struttura criminale che nel romanzo ha il volto (e la puzza) di pecorai con le tasche piene di soldi, ma sempre pecorai:
"Mimì non si scompose. Mai gli era piaciuto quell’uomo. Era un sanguinario, rimasto pecoraio nella testa. I soldi non gli avevano scalfito la scorza. E faceva impressione, da schivarlo con gli occhi, basso e tracagnotto, il naso a ingombrargli la faccia, sguardo malevolo, la barba di tre giorni, ispida e bianca, la pelle che alla minima smorfia si grinzava in mille rughe sottili, la coppola di velluto girata di traverso e da cui spuntavano capelli riccioluti, la camicia senza il colletto. Puzzava di capra – o le capre puzzavano di lui, ché il suo spasso preferito era portarne al pascolo una diecina, nonostante la ricchezza accumulata con il traffico di cocaina."
Il link per ordinare il libro su ibs.
La scheda del libro sul sito di Garzanti

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