09 febbraio 2014

Protocollo fantasma di Walter Molino

Dossier, silenzi e segreti di Stato Strategia della tensione al tempo delle larghe intese

Forse le cose sono andate proprio come ce le hanno raccontate: Riina è stato catturato grazie al lavoro investigativo del Ros, senza nessuna soffiata da parte dell'ala moderata della mafia. Provenzano è sfuggito alla cattura per tutti questi anni ma non per la protezione dello Stato ma al limite per l'imperizia (come ha stabilito la sentenza di primo grado che ha assolto il generale Mori) dei carabinieri che erano sulle sue tracce.
Il papello non è mai esistito, se non nella fantasia di qualche “tragediatore” e se poi lo stato ha attuato quasi tutti i punti richiesti (chiusura dei super carceri, legge sui pentiti, alleggerimento del 41 bis ..) è stato solo un caso. Un caso, che le bombe abbiano smesso di scoppiare, proprio quando nuovi assetti politici sono subentrati ai “vecchi” partiti della prima repubblica.
E il grumo massoneria-mafia-destra eversiva ha trovato nuovi referenti.

Il protocollo fantasma è il titolo del documento che una mano ben dentro il palazzo di giustizia di Palermo ha spedito al giudice Di Matteo, mettendolo in guardia dai suoi veri nemici, quelli che a qualunque costo, hanno ostacolato le indagini sulla trattativa stato mafia e sui mandanti a volto coperto delle stragi del 1992 1993.
Un periodo di vera destabilizzazione per il nostro paese in cui la politica era in uno dei suoi punti più bassi, per la crisi economica del paese e per la sua delegittimazione per le inchieste sulla corruzione.
E quando la politica è debole ed incapace di dare risposte al paese che la mafia si inserisce nelle sue pieghe. Che trova legittimazione e forza.
Un po' come adesso, in epoca di larghe intese dove la credibilità dei partiti e delle istituzioni è minima.


«Vi stanno sorvegliando, e tutte le informazioni sono inviate a una centrale di Roma. Non fidarti di nessuno, nemmeno dei tuoi colleghi»: questo scrive l'anonimo autore del dossier: i magistrati di Palermo che hanno indagato sulla trattativa hanno imparato a loro spese quale è il costo di voler far luce su questa brutta pagina della nostra storia.
Il loro non voler guardare in faccia a nessuno, nemmeno alla convenienza politica, alla stabilità del paese che impone grandi alleanze e rigore (sui poveri cristi).

Di Matteo e i suoi colleghi sono stati attaccati dalla sinistra, dal centro e dalla destra. Il presidente della Repubblica ha sollevato un conflitto di attribuzione in merito alle intercettazioni delle telefonate dove Mancino chiedeva aiuto al Quirinale per il timore di quello che gli avrebbero chiesto a Palermo.
Nei giorni in cui Napolitano prestava giuramento la seconda volta, quei nastri venivano bruciati. Non sapremo mai cosa c'era di così irriguardoso.
Le telefonate tra Napolitano e D'Ambrosio però, rilette a posteriori, raccontano comunque dei timori dell'ex ministro, per il confronto con Martelli sulle informazioni a loro disposizione relativamente alla trattativa, a quello che il Ros di Mori e De Donno stava facendo con Ciancimino.


D'Ambrosio aveva capito tante cose su cosa era successo tra il 1992 e la fine del 1993: che c'era una parte della trattativa che riguardava l'alleggerimento del 41 bis (cosa che poi il ministro Conso ha fatto in “perfetta solitudine”) e un'altra parte che invece voleva creare le condizioni per rendere più semplice l'accesso ai detenuti del 41 bis da parte di esponenti dei servizi (e non solo).
D’AMBROSIO L’altra era contestualmente per il colloquio investigativo e consentire un più agevole accesso nelle carceri agli amici di Ciccio Di Maggio, non so se… cioè c’erano due manovre a tenaglia, questa è la mia idea.
Questo spiegherebbe il il cambio nel DAP da Niccolò Amato ad Adalberto Capriotti (un magistrato che non aveva le competenze) con vice Franco Di Maggio (grazie ad un decreto del presidente della repubblica Scalfaro).
I parenti dei detenuti scrivono a Scalfaro (ed anche ad altri): tra le richieste, oltre al miglioramento delle condizioni carcerarie, c’è esplicitamente quella di «togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato».
Mancino ripete che lui non ne sapeva nulla: non sapeva della trattativa (mentre Martelli sostiene di averlo informato) e delle decisioni sul carcere duro; qualcuno aveva però capito che l'alleggerimento del 41 bis sarebbe stato valutato in modo preciso dalla mafia. Un volersi calare le braghe.
È chiaro che l’eventuale revoca, anche solo parziale, dei decreti che dispongono l’applicazione dell’articolo 41 bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe. (Nota Dia al ministro dell’Interno, 10 agosto 1993, classificazione: RISERVATO)
Eppure De Gennaro, allora a capo della Dia non ricorda. E sono tanti i protagonisti di quegli anni che non ricordano o che ricordano solo dopo molti anni. Martelli, Ferraro, Ayala, Violante.

Tanti misteri avvolgono i fatti accaduti in quei mesi e le decisioni prese dentro le istituzioni: Conso decise veramente da solo la fine del 41 bis per i trecento mafiosi detenuti?
Il boss Nino Gioè, uno degli attentatori di Capaci, si suicidò oppure fu suicidato quando stava forse per iniziare a parlare?
Sempre D'Ambrosio
D’AMBROSIO Allora questa storia del suicidio di Gioè… Secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso, non è mica chiara questa cosa.

La falsa pista di Scarantino, costruita dal dirigente della squadra Falcone Arnaldo La Barbera (e forse anche agente dei servizi) serviva solo a dare un capro espiatorio in pasto all'opinione pubblica dopo le stragi di Falcone e Borsellino, oppure era un depistaggio come quelli già visti dopo piazza Fontana e Bologna?

È sempre Mancino che si lamenta al telefono di non voler passare per unico colpevole:
Insomma: o tuteliamo lo Stato oppure, se qualcuno ha fatto qualcosa, poteva anche dire: ma io debbo avere tutte le garanzie, anche per quanto riguarda la rilevanza statuale delle cose che sto facendo.
Chi è questo qualcuno che ha fatto quello che ha fatto?
Perché politici, esponenti dei servizi e perfino mafiosi, tutti temono l'apertura del processo sulla trattativa, dopo venti anni?
Quali sono gli «indicibili accordi» nel periodo 1989-1993 di cui parla D'Ambrosio?
Perché sono stati uccisi (e forse nemmeno dalla mafia) gli agenti Agostino e Piazza?

Nonostante gli sforzi dell'alto colle, che ha cercato di avocare o bloccare tutto passando prima per Grasso e poi per il procuratore generale della Cassazione, il processo è rimasto a Palermo.
Al processo non sarà presente Bernardo Provenzano. È stato ritenuto incapace di intendere, le ultime immagini mostrano un vecchio, incontinente, che non riconosce nemmeno i parenti.
Non è più Binnu 'u tratturi: peccato, perché al processo potrebbe raccontare tante cose.
Chi ha protetto la sua latitanza e chi si sta occupando ora della sua detenzione, per esempio togliendo le telecamere dalla sua cella, caso unico per un detenuto al 41 bis.

Quando si iniziò a ventilare l'ipotesi che poteva parlare, le sue condizioni mediche sono peggiorate. Un caso. O forse è frutto del “protocollo farfalla” un accordo vincolato dal segreto di Stato tra il Dap e l’ex Sisde per l'accesso alle carceri senza passare per la magistratura: “chi ne conosce i contenuti? Sicuramente coloro che l’hanno stipulato. Per primo l’ex direttore del Dap Giovanni Tinebra”. Ovvero il magistrato della falsa pista Scarantino e dell'archiviazione di alfa e beta, come mandanti a volto coperto per le stragi di Capaci e via D'Amelio. E il Sisde era il servizio guidato da Mario Mori.


Ma anche la sua cattura di Provenzano si presta a parecchie dietrologie.
Ne ha parlato Servizio pubblico (e l'ex magistrato Antonio Ingroia nel suo libro Io so) in una puntata dell'anno scorso: è la storia dello strano commercialista, con contatti nella finanza, che nel 2004 si è presentato davanti i magistrati della direzione nazionale Antimafia per trattare la resa di Binnu Provenzano. Parla prima con prima Pier Luigi Vigna nel 2003 e poi con Piero Grasso nel 2005.
Ma parla anche con Alberto Cisterna, il magistrato che è finito sotto inchiesta per le rivelazioni di Nino Lo Giudice, il nano, secondo cui sarebbe stato in contatto col fratello, un boss della ndrangheta.
Una storia di veleni, con magistrati contro altri magistrati, col sospetto che qualcuno abbia voluto “mascariare” Cisterna per far saltare la sua nomina alla procura di Reggio Calabria.
Binnu pretendeva che la sua cattura fosse tenuta nascosta per qualche tempo:
«Provenzano si consegna ma la notizia della cattura deve rimanere segreta per un po’ di tempo, almeno per un mese.»
«Perché?»
«Perché vuole parlare.»
Sorprendono le date, in questa storia: le date del viaggio di Binnu a Marsiglia per un primo controllo sul suo tumore alla prostata nel 2003. Dell'operazione sempre a Marsiglia, con una carta d'identità col nome di un prestanome. Infine la cattura, in località Montagna dei Cavalli, nell'aprile 2006, il giorno delle elezioni. Cattura coordinata dal procuratore Pignatone, che è quello che formulerà le accuse nei confronti di Cisterna e che diventerà poi procuratore a Reggio.
In questa storia c'è spazio anche per il mistero della strana morte dell'urologo di Messina, Attilio Manca, nel 2004: tra i pochi chirurghi in grado di operare il tumore alla prostata con la tecnica della laparoscopia. Fu trovato morto, per overdose, nella sua stanza.
Suicidio, secondo la procura. E anche secondo Grasso che sulla vicenda ha avuto pochi dubbi.

Chirurghi, pentiti, messaggi incrociati (quelli di Vigna sulla cattura di Provenzano e quelli dell'avvocato di Provenzano); magistrati in lotta tra di loro.
E magistrati che finiscono indagati: Cisterna prima e Donadio poi per la sua ossessione di incastrare a tutti i costi “faccia da mostro”. Il poliziotto dal volto sfigurato che sarebbe legato a diversi omicidi non tutti ascrivibili alla mafia.
Donadio seguiva anche la pista dei servizi, dietro le stragi di Falcone e Borsellino: ancora gli stessi ingredienti di cui si è parlato prima, mafia, massoneria, destra eversiva e servizi segreti.
Personaggi come l'avvocato Cattafi. Il pentito Maurizio Avola diceva “che l’avvocato Rosario Cattafi era l’anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti”, con ottime entrature nella politica, amici nella finanza, rapporti privilegiati nella magistratura, ottime relazioni nella massoneria, militanza nella destra eversiva e collaborazione con i servizi segreti”.


Dopo la fuga di notizie dentro la DNA, e le parole di Lo Giudice (oggi irreperibile), Donadio ha perso la delega sulle stragi e la pista dei servizi è messa da parte.
Chi ha interesse ha rimestare nel torbido, ad inquinare le indagini, a far uscire le notizie per danneggiare gli inquirenti?

Falsi pentiti, doppiogiochisti, personaggi da romanzo che vivono nella zona grigia tra stato mafia e massoneria. Sono questi i protagonisti di “Protocollo fantasma”, un libro che mette assieme documenti ufficiali, con le ricostruzioni dell'autore. Con anche pezzi di fiction.
Come gli “Zozzoni” che si ritrovano a parlare a Roma per combinare le “zozzerie” per danneggiare i magistrati di Palermo che si ostinano a portare avanti le indagini sulla trattativa.
I personaggi vengono indicati come il Talebano, la Pazza, Robespierre, il Contadino, il Vecchio e il Nonno. Fate voi il gioco, fin troppo facile, di risalire alla vera identità.
Nel dossier arrivato a Di Matteo, il Protocollo fantasma, l'estensore lo mette sull'avviso:

«Vi stanno sorvegliando, e tutte le informazioni sono inviate a una centrale di Roma. Non fidarti di nessuno, nemmeno dei tuoi colleghi»
Dice un testimone all'autore che venivano chiamati così, protocollo fantasma, i fascicoli non protocollati del Sisde diretto da Mario Mori, che venivano usati per depistare e delegittimare. 

Nel 1989, ai tempi del corvo, erano le lettere contro Falcone: oggi al centro del mirino ci sono altri magistrati che ancora si oppongono alla “pacificazione”, in nome di un falso senso dello stato.

Perché, come ha spiegato una delle lettere anonime finite a Di Matteo, per frenare questa ingovernabilità, questo paese non può finire governato da froci e comici.
E infatti è mal governato dalle larghe intese, di un partito che ha perso le elezioni da vincente assieme ad un altro partito, di proprietà di un leader condannato per frode fiscale.
I magistrati di Palermo hanno dimostrato un principio: “lo Stato si può processare. È solo il primo passo per fare tutti i conti con la nostra storia”.
Capiremo presto se anche il resto dello stato vuole fare veramente luce sulle origini della seconda repubblica. Nata con le bombe, il sangue delle vittime e col compromesso della trattativa.


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