29 giugno 2014

Albergo Italia, di Carlo Lucarelli

Incipit:
Ualla, in tigrigna, vuol dire «monella».Come le ragazzine di strada che corrono nude, scalze e sudicie tra la polvere o in mezzo al fango della stagione delle piogge, gridando dietro agli asini che portano l’acqua e alle t’liàncon l’ombrellino, finché qualche anziano non esce con il bastone per farle smettere, kit! kit! bakà!via, via, basta.Vuol dire anche un’altra cosa, vuol dire «ragazza facile», però non nel senso di prostituta: nel senso di una che gioca, che civetta, che ci sta, ma non tanto per soldi o per mestiere.Attribuito a un maschio è piú frequente, come avvertimento alle ragazze: occhio a quel ferengi, dice che ti sposa, che ti tratta come una regina, che ti porta in Italia, poi invece ti prende e ti molla per passare a un’altra – ualla! – e vale anche per gli abissini –ualla! – donnaiolo, e per quasi tutti, bianchi o neri, comunque uomini, non è neppure un’offesa, anzi.Ma non vuol dire prostituta. In tigrigna si dice galemotà , e a Massaua, dove si parla molto l’arabo, anche sharmutta , puttana.Lei, invece, è Ualla, e se va con gli uomini è soprattutto per giocare, anche se poi se li tiene i soldi o i regali che le fanno.

Lucarelli ritorna nell'Africa coloniale, con un giallo storico che inizia laddove finiva “L'ottava vibrazione”: siamo in Eritra, nell'anno 1899. Nonostante la cocente sconfitta di Adua per mano dell'esercito di Menelik, l'Italia ha mantenuto la sua presenza in terra africana. E i coloni che sono rimasti sperano in nuovi investimenti della madrepatria.
Stiamo nel bel mezzo del passaggio dall'amministrazione militare a quella civile, col nuovo governatore che ha deciso di spostare la sede del governo ad Asmara.
Proprio qui, in un giorno dove il caldo cielo africano sfocia in una grandinata, mentre si inaugura l'albergo Italia, il più lussuoso albergo nella nuova capitale, viene scoperto il cadavere di un uomo. Farandola Antonio, 46 anni, residente a Torino, di professione tipografo.


Se l'ambientazione del giallo è inconsueta, lo è ancor più la coppia di investigatori chiamata ad indagare sul caso: il capitano dei reali carabinieri Colaprico (un omaggio al giornalista Piero, anche lui di Putignano) e il suo assistente, Ogbà. Uno zaptiè, come venivano chiamato gli indigeni locali arruolati nell'arma.
L'ombra del capitano, il ferengi bianco, con cui condivide un rapporto di umana fiducia, è un investigatore silenzioso, attento ai dettagli, capace di vedere, ascoltare, comprendere. Lo Scherlock Holmes abissino.
È lui infatti che comprende come il suicidio di questo Mirandola sia solo una messinscena, per nascondere un delitto.
Che viene risolto anche velocemente, grazie ai pagherò trovati nella sua stanza che incastrano un ufficiale italiano che con lui aveva perso molti soldi.
Ma questo caso è molto più complicato di quanto sembri: perché si scopre che la persona incolpta non poteva essere lui, responsabile di quella morte.
Perché altri fatti accadono e sembrano tutti collegati o collegarsi ad uno strano furto avvenuto nel deposito militare di Archico. Quando una banda di ladri va a rubare delle casse di vecchi fucili, ma anche una cassaforte che, in quel deposito, non doveva starci.
Cosa c'era dentro di così importante? Perché il furiere, che doveva essere trasferito, è rimasto al suo posto?
L'altro fatto riguarda la banda di predoni, quella del furto nel deposito militare, che viene trucidata in una amba, con la testa del capo posata proprio su quella cassaforte. Vuota.
"Merethàb dietro a Sàlle Mariàm, Ogbà dietro a Stevano, c'era solo da aspettare e infatti Colaprico aspettava, i piedi sulla scrivania e il sigaro tra i denti, tirandosi un baffo. Non che avesse altro da fare, ma si sentiva svuotato e così privo di forze che anche accendere il toscano gli era sembrata una fatica.Pensava.Pensava al caso, un omicidio irrisolto, in colonia, avrebbe già dovuto telefonare al governatore che non era tutto a posto come gli aveva detto e che il colpevole dovevano ancora trovarlo.Pensava.Pensava a quella donna. Margherita. E si chiedeva perché gli facesse quell'effetto, così forte".

Colaprico, assieme a Ogbà, iniziano così, un po' per caso, un po' per il loro intuito un'indagine che parte da un omicidio mascherato e che li porterà dentro un caso nazionale. Uno di quelli dove si è disposti ad uccidere, anche, perché c'è in gioco la ragione di stato. Forti interessi che puntano in altro. Troppo in alto, per il carabiniere Colaprico:
Aveva aggiunto: la tua carriera muore qui in colonia, lo sai questo? E lui: silenzio.Allora: sei un carabiniere, no? No? E lui: sì.Allora hai giurato fedeltà al re, no? No? E lui: sì.Allora: io sono stato mandato qui per proteggere il re.E lui: mi stai dicendo che c'era dentro anche il nome del re su quelle carte?Allora: silenzio.[..]
Solo lo suardo di un momento, poi: ho giurato fedeltà al re ma anche alla legge. E magari sarai pure libero prima di arrivare in Italia, ma qui, dove ci sono io, te ne stai in catene.
Stiamo parlando dello scandalo della Banca Romana, il primo grande scandalo di una nazione che era appena nata ma che già allora nasceva col marchio della corruzione e dell'arricchimento dei potenti. Una nazione dove gli italiani di ieri somigliavano molto a quelli di oggi: i t'liàn, i «so tutto io», cullu ba'llè.
Faccendieri spregiudicati e misteriori (“tencolegnà”), donne fatali e monelle pericolose, imbroglioni in divisa. La maffia e il primo cadavere eccellente, il marchese Emanuele Notarbartolo, presidente del banco di Sicilia, ucciso per mano della “maffia” sul treno per Palermo. Il primo omicidio politico mafioso, in un caso collegato allo scandalo della banca Romana. E che era finito senza nessuna condanna dei mandanti politici dell'omicidio.

Ma era anche l'Italia del capitano Colaprico, ostinato e testardo nel voler semplicemente fare il suo dovere (come tutti i protagonisti in divisa di Lucarelli, pensiamo al commissario De Luca) e, in fondo, anche quella del suo assistente di colore. Che ragiona come il ben pià celebre collega, quello Sherlock Holmes che gli ha pure rubato la battuta:
Una volta eliminato l'impossibile, diceva questo Sherlock Holmes al suo amico dottor Watson, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.Ezià mateà, questa è mia, aveva mormorato. Lo diceva sempre, lui, quello che sembra impossibile, quando non c'è altra spiegazione, deve essere vero.
Con tutto il rispetto, glielo avrebbe fatto presente al signor capitano. Perché siccome lui non credeva alle coincidenze, i casi erano due: o il signor capitano gli aveva fatto uno scherzo, o glielo aveva raccontato lui a questo Conan Doyle che aveva scritto il libro.
Berghèz.Ovvio.

La scheda del libro sul sito di Einaudi e il link dove scaricare il primo capitolo.
Il link per ordinare il libro su Ibs e Amazon.

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