05 gennaio 2015

A colpi di lupara sognando l’America - la recensione di Valerio Cattano del saggio di Alfio Caruso

Valerio Cattano recensisce oggi sul Fatto quotidiano il libro di Alfio Caruso "Quando la Sicilia fece la guerra all'Italia": una storia di indipendentismo, di mafia, di massoni, politici e latifondisti che soffiarono sul fuoco della rivolta contro lo stato centrale, per difendere i loro provilegi ed ostacolare il progresso dei siciliani.
A colpi di lupara sognando l’America
TRA LA DC E LO ZIO SAM
   IL GIORNALISTA E STORICO ALFIO CARUSO RIPERCORRE IN UN LIBRO LE TAPPE DI UN CONFLITTO NON DICHIARATO, MA CHE FU UGUALMENTE SANGUINOSO
di Valerio Cattano
   In ogni cittadina siciliana c’è una piazza o un giardino pubblico (spesso chiamato in dialetto “La villa”) dove gli anziani riscaldano le ossa al sole. I loro argomenti sono quasi sempre il tempo, le malattie, il cibo buono che non si può più mangiare alla loro età, e poi i mali dell’Isola: tanto ricca, tanto amata, così povera e disgraziata. Un dibattito che si smorza in modo inesorabile quando il più vecchio, con un sospiro, alza gli occhi al cielo e rassegnato dice: “Però, su astura c’erano l’americani…”. Ovvero: questa terra oggi non sarebbe ridotta così, se fossimo diventati figli dello Zio Sam; perché a metà degli anni Quaranta, non furono pochi a credere che la Sicilia sarebbe diventata a stelle e strisce, e invece che fare il bagno nel Mediterraneo, da Palermo a Catania si sarebbero tuffati nella Coca Cola. Alfio Caruso, giornalista di lungo corso e appassionato di tematiche storiche, ha pubblicato “Quando la Sicilia fece guerra all’Italia”, ripercorrendo le tappe di un conflitto non dichiarato, ma ugualmente sanguinoso che fu combattuto dallo sbarco degli angloamericani, nel 1943, sino alla morte di Salvatore Giuliano, nel 1950.
   SE IL BANDITO ebbe fama e notorietà mondiale, vi furono due figure, che non ebbero la stessa ribalta ma furono altrettanto protagoniste di questa storia di intrighi e spionaggio , di assassini e voltagabbana, di mafiosi e politici che giocavano con più mazzi di carte; si tratta di due professori, Andrea Finocchiaro Aprile, e Antonio Canepa.
   Il libro di Caruso inizia proprio con la partenza di Finocchiaro Aprile, nel 1942, in treno da Roma, direzione Sicilia, per sfuggire al controllo dell’Ovra, la polizia che si occupava di stanare gli antifascisti. Finocchiaro Aprile è uno di loro? Non proprio. In realtà il docente – con rapporti intensi fra i massoni inglesi - aspirava alla direzione generale del Banco di Sicilia, ma Mussolini gli aveva preferito – che onta, a quei tempi – un funzionario di origine ebrea, Giuseppe Dell’Oro. Finocchiaro Aprile allora si “arruola” nell’esercito degli attendisti, quelli che aspettano che il regime cada. “Dimentico di quindici anni di salamelecchi a Mussolini – scrive Caruso – ha cercato di attirare l’attenzione dei nemici dell’Italia… in testa gli frullava già il progetto di staccare la Sicilia dal resto del paese e riteneva che per riuscirvi fossero indispensabili due condizioni: la sconfitta militare del fascismo, l’appoggio di Inghilterra e Stati Uniti”. Non appena sbarca dal convoglio, Finocchiaro Aprile viene accolto a braccia aperte da Lucio tasca, latifondista di primo piano, anche lui massone e Calogero Vizzini, “uomo di rispetto” introdotto nei circoli massonici proprio da Tasca: i due nominano Finocchiaro Aprile presidente dei circoli “Sicilia e libertà”, manco a dirlo, rifugio di latifondisti e massoni. Il docente si mette all’opera, tiene riunioni e conferenze. A tutti profetizza la sconfitta di Mussolini e Hitler, e quando l’uditorio resta perplesso, gioca la carta a sorpresa: annuncia lo sbarco della Sicilia da parte degli angloamericani; come faceva a saperlo un anno prima dell’evento, resta un mistero. Alla fine del ’42 Finocchiaro Aprile diventa anche presidente del Cis, Comitato per l’indipendenza siciliana.
   Antonio Canepa, alias Mario Turri invece, antifascista, da studente, lo è davvero: organizza con un gruppo di amici azioni di disturbo, pensa in grande e pianifica l’irruzione negli uffici del Duce, sino a quando qualcuno di loro non parla troppo, e la frittata è fatta. Canepa vive qualche momento di sconforto ma riesce a rientrare in apparenza nei ranghi, pubblicamente mette da parte le bizze e diventa fervente sostenitore di Mussolini; nel contempo continua a mantenere i contatti con gli angloamericani, attraverso un misterioso “ragionere Donovan”. La Sicilia è allo stremo: il mercato nero impazza, e quel fascismo che era sempre stato visto come “un movimento del Nord” è ancora più inviso. “Aumentano la ripugnanza – riporta Caruso – nei confronti del governo i dodici poveracci ammazzati ad Alcamo dai carabinieri mentre rovistano dentro i vagoni di un convoglio bombardato, alla ricerca di cibo”. Pure le milizie vengono smantellate. “L’unica speranza di fermare l’invasione – sottolinea l’autore – è racchiusa nella ripetizione del miracolo di S’Agata, capace nel 1551 di salvare Catania dai turchi”, spingendo al largo la flotta con un forte vento di tramontana. Il miracolo non c’è, il 10 luglio 1943 gli angloamericani sbarcano a Gela, gli inglesi marciano (con difficoltà) su Catania, gli americani hanno tutte le strade aperte verso Palermo.
   DA NEW YORK i “bravi ragazzi” di Charlie Luciano, attraverso i colloqui con i boss Vito Genovese e Calogero Vizzini, hanno dato le giuste indicazioni all’Oss (Office of strategic service). “L’aiuto di Cosa Nostra – racconta Caruso – viene identificato nell’appoggio fornito da Vizzini. L’alto comando americano gli ha addirittura inviato un caccia sopra la casa di Villalba. E’ stato lanciato un plico per avvisarlo che, in mancanza di taxi, sarebbe stato prelevato da un carro armato con l’insegna di Luciano (una grande L nera).” Il 27 luglio ’43 don Calò viene nominato sindaco di Villalba da un ufficiale del Civil Affairs, organizzazione al cui domando c’è il colonnello Charles Poletti. La prima cosa che fanno gli uomini di Vizzini è ammazzare in piazza il maresciallo dei carabinieri Pietro Purpi, che aveva cercato di far rispettare la legge. Un copione che si ripeterà in molti paesi dell’isola.
   PALERMO È LIBERATA, e il colonnello Poletti – che a New York aveva ottenuto il posto di vice governatore grazie all’appoggio dei boss Luciano e Costello - riceve la richiesta di Finocchiaro Aprile. La Sicilia ai siciliani, basta con l’Italia. Pure agli inglesi non dispiacciono gli uomini d’onore perché sul territorio i problemi sono ancora molti e loro li sanno risolvere; in Gran Bretagna i sudditi di Sua Maestà leggono sul Daily Mirror che in Sicilia c’è un comitato per l’indipendenza. “Si parla – scrive ancora Caruso - della possibile creazione di un Commonwealth nel Mediterraneo unendo Sicilia e Corfù a Malta”. Ma è politica, mentre la popolazione continua a morire di fame. Su muri di Palermo appaiono le scritte “Poletti, meno promesse, più spaghetti”: ma gli americani che non lesinano in rifornimenti, sono legati a doppio filo ai bravi ragazzi che li hanno aiutati a conquistare la Trinacria, e Poletti appoggia le nomine dei boss in posizioni chiave dell’amministrazione pubblica. Le masse indipendentiste fantasticate da Finocchiaro Aprile in realtà non ci sono, Don Sturzo prova a smorzare la deriva della Sicilia autonoma con un articolo su “Italia libera”, ma quel che scandisce la vita degli isolani, da Palermo a Catania, è la ricerca di un pezzo di pane: è la borsa nera. Pure un ragazzo di Montelepre ci prova, ma incappa in un posto di blocco: “Sono le 17.17 del 2 settembre 1943 – ricorda Caruso – così muore un carabiniere e spunta un bandito”. Il suo nome è Salvatore Giuliano.
   E il movimento indipendentista? A Villa Tasca si radunano tutti: Finocchiaro Aprile, l’avvocato Nino Varvaro vicino alle posizioni comuniste, l’ex deputato popolare Luigi La Rosa, l’avvocato Attilio Castrogiovanni in rappresentanza dei catanesi. Per gli indipendentisti di Caltanissetta c’è Calogero Vizzini: Don Calò si siede e appoggia la pistola sul tavolo. Una presenza che ai catanesi non piace, ne usciranno con un contentino, la loro sigla, il Mis (Movimento per l’indipendenza della Sicillia), in realtà, la spaccatura è irreversibile. Nella Sicilia occidentale a livello ideologico il gruppo manterrà una impostazione moderata e repubblicana, in Sicilia orientale prenderanno piede sia le spinte anarchiche e sinistrorse di Canepa, sia quella monarchica e reazionaria del duca di Carcaci, Guglielmo Paternò Castello. Canepa nel 1944 crea l’Evis (Esercito volontario indipendenza sicilia), formazione armata che durerà appena un paio di anni. In Sicilia occidentale il “colonnello” è Giuliano che imperversa con la sua banda, al suo fianco un ufficiale repubblichino.
   MISTERI, INTRIGHI, massacri e contatti fra politica e servizi segreti, che neppure la più fervida immaginazione di un maestro delle spy story come Le Carrè avrebbe potuto anticipare. Giusto per avere una idea, basta ricordare una dichiarazione dell’ex ministro dell’Interno Scelba: “Giuliano era la pistola puntata dagli Stati Uniti alla tempia dell’Italia. Ogni volta che Truman dissentiva da un provvedimento di De Gasperi, Giuliano ammazzava tre carabinieri”. Nell’aprile 1948 la Democrazia Cristiana stravince le elezioni, e la Sicilia ha dato il suo apporto. Addio sogni di gloria, addio alla 49esima stella nella bandiera americana. Che fine hanno fatto Finocchiaro Aprile e Canepa? Il primo proseguirà la sua carriera trasversale, come deputato all’Assemblea regionale siciliana, poi come giudice dell’Alta Corte per la regione Sicilia. Canepa muore qualche anno prima in un “misterioso” conflitto a fuoco alle porte di Randazzo, il 17 giugno del 1945. Di lui
   Leonardo Sciascia in una intervista a Giampiero Mughini su Mondoperaio del 1978, disse: “Di Canepa mi aveva interessato la sua dimensione di sconfitto, che aveva in comune con altri miei personaggi. Studiandone più a fondo la vita e la presenza, il personaggio mi deluse. Mi parve carico di ambizioni e di mitomanie. Era giunto al punto di scrivere una sua autobiografia esaltatoria e di gabellarla come scritta da un francese”
   Proprio in quel libretto però, c’è una frase, riferita alla Sicilia e ai siciliani, che pare scritta oggi: “Noi ci serbiamo a un avvenire che non viene mai”.

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