31 marzo 2016

La regressione

Lasciamo perdere per un momento Egitto e Libia. 
In Brasile per evitare il processo (sull'inchiesta per la Petrolbras) all'ex presidente Lula, la presidentessa Rousseff lo nomina consigliere, suscitando tutte le polemiche del caso.
In America il candidato Trump se ne esce ogni giorno con una stupidaggine nuova: l'ultima sulle donne che abortiscono, che andrebbero punite. Oramai non è più uno spettacolo indecente, è indecente e basta.
In Siria, dopo la riconquista di Palmira strappata all'Isis, Putin si è congratulato con Assad. A prescindere dalla necessità dell'intervento russo, quante migliaia di morti civili è costata ad oggi questa guerra?
Dopo l'attentato al Bataclan, Hollande (socialista) voleva riformare la costituzione, per dare una risposta emotiva alle esigenze di sicurezza dei cittadini: si trattava revocare la nazionalità ai francesi con doppio passaporto condannati per terrorismo.
La patata bollente verrà lasciata ai successori (di destra presumibilmente).
Quattro giorni fa sono scesi in piazza a Bruxelles estremisti di destra, nonostante il divieto: non possiamo lasciare che ad occupare gli spazi pubblici contro l'estremismo islamico siano altri estremisti.

Sono storie prese dal mondo, che raccontano della regressione civile ed etica.
Di paesi che vorrebbero magari esportare modelli culturali, democrazie, valori.

Per la presentazione del suo ultimo libro "Non luogo a procedere", a Pavia, lo scrittore Claudio Magris ha parlato del terrorismo e dei problemi che stiamo vivendo oggi:
Un libro di episodi traumatici che possono apparire lontani. L’Europa in questi ultimi anni ci aveva abituato a sentirci sicuri dalla guerra e dall’orrore, ma il terrorismo islamico sta cambiando le cose.«È innegabile che stiamo vivendo la Quarta Guerra Mondiale, se consideriamo come Terza la Guerra Fredda. L’enorme problema è che non abbiamo ancora riconosciuto questo nostro stato: siamo in guerra, ma la parola guerra non viene pronunciata da nessuno. Eppure siamo tutti contro tutti, non capiamo chi ci è amico e chi nemico: l’Arabia Saudita, ad esempio, è un’alleata ma finanzia i campi di addestramento dell’Isis. È come se stessimo vivendo in un idilliaco periodo di pace, però allo stesso tempo, ci cascano addosso bombe, muore gente e saltano in aria edifici».Forse stiamo cadendo nel vuoto anche noi, come l’uomo della copertina del suo libro?«Forse. Siamo in una situazione disastrosa, inaspettata e nella quale nessuno sa cosa fare. La realtà è che siamo tutti ciechi conservatori e viviamo come se le cose non dovessero mai cambiare. Terribile è anche il fatto che con gli eccezionali strumenti di informazione che possediamo nonsappiamo quasi nulla dell’Afghanistan, chi sta vincendo o chi controlla cosa. Gli errori politici dell’Occidente sono stati enormi e, perciò, non possiamo pretendere che se ci buttiamo nel vuoto o nell’incognito, con un cielo quasi in tempesta, non cadremo facendoci del male».

Notizie dal nordafrica

In Libia abbiamo due o forse tre governi, in lotta tra loro e che (chiaramente) nemmeno si riconoscono l'uno con l'altro.
Ieri un presunto governo di unità nazionale di Fayez al Sarraj si sarebbe insediato, non si capisce con quanto potere e per quanto tempo.
Aspettiamo che un governo si instauri e che chieda un intervento militare all'Onu, per arrivare qui in Libia ad una situazione analoga a quella iraqena o afgana, dove Karzai era definito il sindaco di Kabul (per quanto presidiava il territorio).
La differenza è che la Libia è qui vicina e un altro intervento militare aiuterrebe la propaganda dell'Isis, nel reclutare altri giovani contro i crociati invasori occidentali.

Poche centinaia di km più in là, in Egitto, alla storia tragica della morte del ricercatore Giulio Regeni, si aggiunge un altro capitolo: la lettera anonima giunta in ambasciata dove si racconta che Regeni trafficasse in opere d'arte.
La farsa fa ancora più male del dolore per i familiari, immagino, che hanno visto lo scempio fatto al corpo del ragazzo.
Sono 45 giorni che aspettiamo dalle autorità egiziane, una verità o quanto meno una vera collaborazione che aiuti ad individuarla.
Sarebbero nostri alleati nella lotta al terrorismo, oltre che partner commerciali.

Gli stessi che la coalizione chiamata dal futuro (possibile?) governo libico.
Vedremo cosa succederà il 5 aprile, quando gli investigatori egiziani arriveranno a Roma: ci sarà una risposta forte dal governo?

30 marzo 2016

Far le cose all'Italiana

Facciamo la banca dati del DNA all'italiana e ce ne vantiamo pure, anche se in ritardo di anni rispetto ad altri paesi europei.
Faremo, forse, il freedom of information act all'italiana, ma con dentro il comma 22 (dal blog di Gilioli):
"All’articolo 6, comma 5, il testo recita così: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta»."

Faremo pagare il canone Rai in bolletta, altra riforma all'italiana, ma non sappiamo ancora bene come gestire qualche piccolo dettaglio tecnico.
Il 29 aprile celebreremo l'internet day (si avvicinano le amministrative e qualcosa bisogna celebrare), ma per la bada larga dovremo ancora aspettare a lungo.

A proposito del referendum del 17 aprile (prossimo futuro)

Parliamo del referendum che si terràil 17 aprile dove si chiederà agli italiani di esprimersi sul seguente quesito: se vogliono abrogare la norma che consente alle società petrolifere che hanno la concessione per l'estrazione degli idrocarburi in giacimenti entro le 12 miglia, di poter lavorare senza limiti di tempo, fino all'esaurimento del giacimento.

E' l'unico quesito ammesso, dei sei proposti dal comitato (che aveva dentro diversi consigli regionali, tra cui l'Abruzzo, poi sfilatosi), in tema di trivellazioni in alto mare: nascevano dalle norme presenti nello Sblocca Italia, governo Letta, che toglievano potere alle regioni in materia energetica, concedevano proroghe alle concessioni entro le 12 miglia, davano alle trivelle carattere di strategicità.
Il governo, nella presente legge di stabilità, ha accolto le richieste dei comitato: tutto questo per dire che almeno ad una cosa questo referendum è servito, a fare pressione su Renzi.
Dunque un referendum utile. All'ulteriore critica relativa ai costi, si può rispondere che sarebbe bastato unire referendum ed elezioni amministrative per risparmiare.

Non esiste molta informazione sulle reti pubbliche a proposito del referendum e in generale sulle trivellazioni: a parte qualche raro spot, mi viene in mente un servizio di Presa diretta di qualche mese fa, dove si raccontava quello che succede in Basilicata.
Questo referendum (e i promotori del Si) non si pone come obiettivo l'abolizione delle trivelle: è un primo passo però per chiedere al governo di rivedere la sua politica energetica.
Passare cioè dagli idrocarburi alle energie pulite, meno inquinanti: fotovoltaico, geotermico, eolico.

I promotori del No, si nascondono (ma questo è un mio giudizio) dietro l'astensionismo da una parte, e dietro lo spauracchio dei posti di lavoro persi dall'altra.
Sull'astensionismo la faccio breve: avessero almeno il coraggio di dire apertamente di no, farebbero miglior figura. Andate al mare lo diceva Craxi, come dire lasciate perdere questi temi, lasciateli ai politici di professione, voi popolino che non capite abbastanza...

Sui posti di lavoro: tra posti di lavoro diretti e indiretti, si parla di circa 30 mila persone. Ma siccome le concessioni non scadono tutte assieme, si potrà pesare ad una loro ricollocazione in altri settori, magari proprio quelli delle energie “alternative” che in questi anni, grazie al passo indietro degli ultimi governi, hanno portato ad una diminuzione di investimenti e ad una perdita di posti di lavoro.
Enel ha inaugurato ieri una centrale verde, geotermica e solare, negli Stati Uniti: in Italia siamo ancora alle centrali a carbone.

Le trivelle fanno bene o fanno male? Sulle trivellazioni in Italia, basterebbe rivedersi il servizio dei giornalisti di Presa diretta. Le trivelle in Basilicata, l'inquinamento delle acque, le trivelle in Sicilia, al largo delle coste.
E quei “comitatini” che non avrebbero preoccupato il presidente del consiglio.

Per le trivelle in alto mare esiste una ricerca dell'Ispra, che conferma i timori degli ambientalisti: altro che cozze più buone, vicino ai bacini:
“Dal lavoro di sintesi e analisi di questi dati svolto da Greenpeace emerge un quadro perlomeno preoccupante.I sedimenti nei pressi delle piattaforme sono spesso molto contaminati. A seconda degli anni considerati, il 76% (2012), il 73,5% (2013) e il 79% (2014) delle piattaforme presenta sedimenti con contaminazione oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. Questi parametri sono oltre i limiti per almeno due sostanze nel 67% degli impianti nei campioni analizzati nel 2012, nel 71% nel 2013 e nel 67% nel 2014. Non sempre le piattaforme che presentano dati oltre le soglie confermano i livelli di contaminazione negli anni successivi, ma lapercentuale di piattaforme con problemi di contaminazione ambientale è sempre costantemente elevata”.

Ma conviene veramente estrarre gas e petrolio dai fondali marini? Virginia della Sala sul Fatto Quotidiano del 29 marzo 2016:
“.. a quanto ammontano le riserve presenti nel sottosuolo? Secondo dati ministeriali,quelli del rapporto annuale 2014 della Direzione generale per le risorse minerarie ed energetiche, le riserve di gas naturale ancora recuperabili su tutto il territorio ( considerando tutto il dato certo, metà di quello delle riserve probabili e per un quinto quelle possibili) sono pari a 88,5 Mtep - milioni di tonnellate equivalenti di pe-trolio. Se si considera che nel 2014, per il gas, i consumi sono stati di 50,7 Mtep, il calcolo è semplice: restano risorse per circa un anno e mezzo. La quantità di petrolio che rimane da estrarre è, invece, di 142 Mtep e coprirebbe circa due anni e mezzo di consumi nazionali (il con-sumo interno lordo è pari a circa 57). Sempre i dati ministeriali mostrano come nel 2014 il gas prodotto sia stato pari a circa 5,8 Mtep di gas natura-le. Ne abbiamo importato45,6 Mtep. Per il petrolio, la situazione è molto simile: 5,7Mtep prodotti, 71,7 importati”.

Un'ultima considerazione: in Italia abbiamo un sistema di concessioni tra i più favorevoli ai petrolieri, tra concessioni, franchigie e sgravi
“Si parte dal sistema delle franchigie: i dati dell’Ufficio nazionale minerario per gli idrocarburi e le georisorse (Unmig), cioè l’organo che opera presso il ministero dello Sviluppo economico, mostrano che nel 2015, su 133 concessioni di coltivazione a terra attive in Italia, solo 22 superano la so-glia minima di produzione,al di sotto della quale non si pagano le cosiddette royalty. Parliamo del 14 per cento. In mare, invece, pagano solo 18 su 69 concessioni a coltivare: il 21 per cento, insomma. In questo sistema molto tollerante, gli unici obbligati a sborsare quattrini alla fine sono i grandi player. Tra le aziende che in Italia pagano queste royalty, ne risultano soltanto otto su un totale di 53. Si tratta di Eni, Shell, Edison, Gas Plus Italiana, Eni Mediterranea Idrocarburi, Società Adriatica Idrocarburi, Società Ionica Gas, Società Padana Energia: ben quattro di queste fanno capo sostanzialmente allo stesso Eni”.


Per questo conviene, per le aziende, sfruttare fino alla fine gli impianti, per far pesare il meno possibile i costi di dismissione.
Forse questo spiega il perché si preferisce puntare alla non informazione, all'astensionismo piuttosto che al no.

Sul Fatto quotidiano trovate altri approfondimenti sul referendum relativamente ai rischi ambientali, occupazione, turismo : sono messe a confronto le ragioni del ‘sì’ e quelle del ‘no’ chiedendo conto a Enrico Gagliano, tra i fondatori del coordinamento nazionale NoTriv e primo promotore del referendum, e a Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione italiana nucleare.

Sempre sul FQ un articolo dove si parla dell'Eolico, una delle energie rinnovabili su cui puntare: si racconta però di come questo settore sia diventato terra di conquista per la nuova mafia.

Il tutto grazie ai benefici a pioggia (con pochi controlli sui destinatari dei fondi) e allo spostamento delle competenze alle regioni (togliendo di mezzo i comuni).

29 marzo 2016

Quei morti ci riguardano, tutte

La gente continua a morire per mano dei terroristi dell'Isis non solo in Europa, a Parigi o a Bruxelles (ma anche ad Ankara, a Beirut, in Nigeria).
Le bombe esplodono in Iraq in uno stadio nella provincia di Babil , uccidendo islamici e non islamici, in Pakistan a Lahore in un parco dove i cristiani festeggiavano la Pasqua.
Bombe che creano terrore, che marcano il territorio, danno il segnale di statevene a casa.
Tanto più l'esercito di terra è in crisi, grazie all'azione congiunta di russi e americano, tanto più l'esercito invisibile dentro le nostre città, le periferie, è in grado di colpire quando vuole.
L'ultima notizia riguarda un aereo della compagnia egiziana Egyptair dirottato (forse) su Cipro.
Abbiamo sottovalutato la forza di queste cellule, forse troppo presi dalla foga nel puntare il dito contro i profughi, gente che scappa da guerre e carestie, che abbiamo chiamato presunti, togliendo loro qualunque alibi.
Muoiono cristiani in terra europea e siamo pronti a dire siamo Charlie, siamo Parigi, siamo Bruxelles, almeno per qualche giorno.
Non siamo però Iraq, Ankara .. altre morti, altre religioni, non ci riguardano.

Eppure questo terrore ci riguarda, perché almeno tre persone legate agli attentati scorsi sono passate per l'Italia: a Treviso era passato Al Bakraoui, l'attentatore alla metropolitana di Bruxelles; in Germania è stato arrestato Mohammed Lahlaoui, in contatto coi terroristi di Bruxelles e col gruppo di Salah, per anni aveva vissuto a Vestone (Bs); infine l'arresto vicino Salerno di Djamal Ouali, accusato di aver fornito documenti ai terroristi.
Persone che giravano con documenti europei o dei loro paesi d'origine: che il nostro paese sia visto come una terra di passaggio, per arrivare agli obiettivi degli attacchi senza destare troppi sospetti?
Ha ancora senso prendersela con quelli che cercano la salvezza coi barchini (e rischiano nei loro viaggi la vita)?

I fondamentalisti radicali hanno dimostrato una cosa: non amano le riforme, le aperture, sono conservatori nella loro ignoranza, sanno nascondersi bene.
A Lahore hanno fatto capire come non accettino le nuove norme sulla blasfemia, sulla protezione delle donne, sostenendo che queste farebbero perdere “l'identità islamica”.
Questi fondamentalisti si mimetizzano nei ghetti e nelle periferie: continueranno a farlo finché queste rimarranno zone “altre”, fuori dallo stato. Finché ci sarà un noi e un loro, finché considereremo le morti in modo diverso le une dalle altre.
E tutto questo avviene in Europa, come un Pakistan, nostro presunto alleato nella lotta al terrore, come l'Egitto di Al Sisi.

Capite che tutto questo è un controsenso: per combattere i fondamentalisti dobbiamo appoggiarci a Putin e Assad, al generale golpista Al Sisi.
Queste morti ci riguardano perché raccontano del di-sgretolamento dei nostri valori di europei, verso una direzione molto oscura.

28 marzo 2016

Lo Stato parallelo di Andrea Greco e Giuseppe Oddo


La prima inchiesta sull’Eni tra politica, servizi segreti, scandali finanziari e nuove guerre, da Mattei a Renzi.

Un'inchiesta che si doveva proprio fare, questa sull'Eni, un colosso industriale controllato dallo Stato ma anche uno Stato nello Stato:“con 110 miliardi di euro di ricavi nel 2014, e nonostante la perdita del 2015 causata dal crollo del prezzo del petrolio a 30 euro al barile, il gruppo occupa la venticinquesima posizione nella classifica di Fortune sulle prime cinquecento aziende mondiali per fatturato..”.
Un'azienda che alimenta le casse pubbliche grazie ai ricchi dividendi, specie ai tempi dell'amministrazione scaroniana (ora un po' meno), un'azienda che garantisce l'approvvigionamento delle risorse energetiche (gas e petrolio) per il riscaldamento domestico, l'elettricità, per la produzione industriale.
Un'azienda che occupa 84000 dipendenti (circa un terzo in Italia), che è presente in 80 paesi nel mondo, che fa esplorazioni in fondo al mare (come al largo delle coste egiziane dove Eni si è appena aggiudicata un promettente giacimento di gas) o poggia i tubi dei gasdotti (come quello che ci collega con la Libia).
Un'azienda strategica, per la sua stessa, duplice, funzione: lo aveva capito già Enrico Mattei, il fondatore, come la forza industriale (e politica) di una nazione dipenda dalla sua indipendenza energetica.
L'amministratore delegato dell'Eni è dunque qualcosa di più di un manager che si deve preoccupare di portare l'energia alle aziende e alle famiglie al minor costo possibile e garantendo il giusto profitto all'azionista (come altre aziende dello Stato, anche Eni è stata parzialmente messa sul mercato dopo Tangentopoli).
L'AD di Eni è più di un ministro degli Esteri, in quanto ha anche fare direttamente con i paesi produttori, intreccia rapporti d'affari, crea rapporti anche politici, apre dei ponti verso nuovi mondi: fu Mattei che andò per primo in Russia, in piena guerra fredda, suscitando le ire dell'alleato americano (e della stessa DC). Fu sempre Mattei che appoggiò i movimenti indipendentisti algerini, in cambio dei pozzi, suscitando altri malumori da parte dei francesi …

Eni è dunque una potenza politico-industriale e anche uno snodo centrale di molte vicende della nostra storia, dal boom, agli anni della P2 (e poi delle P3 e P4), a Tangentopoli, alla ristrutturazione di Mincato, fino ad oggi. Quando, dopo gli anni di Scaroni, dell'asse politico con Putin e Gheddafi (che generò molte tensioni con l'amministrazione americana, come raccontano i cablogrammi usciti con Wikileaks), la nuova gestione di Descalzi sta portando l'azienda verso una sua “terza repubblica petrolifera”.
Parlare di Eni significa parlare di politica estera, geopolitica, strategie energetiche e industriali: ma anche dei tanti lati oscuri emersi nel corso degli anni.
Le tangenti ai partiti della prima repubblica, la pagina buia della morte di Enrico Mattei, precipitato a Bascapè nell'ottobre del 1962, la figura opaca di Eugenio Cefis e i collegamenti con Gelli.
E, ancora oggi, le troppe inchieste di corruzione (alcune ancora da vagliare processualmente) nel mondo: in Algeria, in Nigeria, in Russia, in Kazakhistan.

Per questo è importante questo libro, dedicato al giornalista di Repubblica Peppe d'Avanzo, che ha spronato gli autori a scrivere questa inchiesta dicendo “voi questo libro lo dovete fare”.
Un'inchiesta che spiega da dove nasce l'espressione “Stato parallelo”: azienda Stato che si sostituisce o sovrappone alle funzioni di uno stato. Non è stato semplicemente un lapsus quello di Matteo Renzi, quando ad Otto e mezzo disse: "L'Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti".

Tentare di riassumere qui tutti gli aspetti toccati dal libro sull'Eni sarebbe cosa impossibile, tanto è dettagliato e ampio nel riportare dati e cifre della multinazionale, quasi da appesantirne la lettura
Nei capitoli del libro i due autori toccano diversi aspetti, finora inediti della storia dell'Eni, che ci permettono di comprenderne meglio la sua natura di “Stato parallelo”.

A cominciare dagli affari con la Russia, col tentativo da parte della Gazprom di entrare direttamente nel mercato della distribuzione in Italia, attraverso una terza società di Bruno Mentasti (e la Centrez), all'epoca produttore di acqua minerale e amico di Berlusconi. Un accordo passato sopra la testa dell'allora AD Mincato, che limitava le possibilità di rivendere il gas in eccesso poiché Gazprom si sarebbe presentata alla frontiera di Tarvisio e non in Austria. Alla fine l'affare saltò grazie alle rilevazioni dell'Antitrust, sebbene poi Scaroni abbia stipulato accordi a lungo termine con Gazprom, poco vantaggiosi in anni di calo della domanda che oggi Descalzi ha rinegoziato.
C'è la storia, raccontata dagli autori, degli affari nel gas di Berlusconi in Georgia, della spoliazione dei pezzi della Yukos (società petrolifera di un nemico di Putin) comprata dall'Eni e che si presume un favore al monopolista russo Gazprom.
Si racconta anche la storia del campo petrolifero di Chinarevskoye, della Zhaikmunay, già raccontata dal servizio di ReportRitardi con Enidove un dirigente Eni, sotto anonimato, raccontava al giornalista:

«Per favorire i russi, il governo Berlusconi ha svenduto gli idrocarburi in loco, e ha appoggiato il gasdotto
South Stream, così è Gazprom a imporre il prezzo del gas e l’Eni, che appoggiando il gasdotto alternativo Nabucco avrebbe potuto ridurre i prezzi, si è tagliata le palle».

Secondo questa persona : 
«all’ad Paolo Scaroni glielo ha detto Berlusconi, che ha i suoi rapporti con Putin. È una questione geopolitica e di interessi personali: l’Italia ci perde, ma qualche italiano ci guadagna. Esiste una società kazaka chiamata Zhaikmunai controllata dai paradisi fiscali, che ha un piccolo campo di esplorazione in Kazakistan e tira su dei ricavi nell’ordine di un milione di dollari al giorno con margini del 50%. Io chiesi a Eni chi erano i proprietari e mi dissero: occupati del tuo lavoro e non rompere i coglioni. Parlai con dei dirigenti della petrolifera di stato kazaka: mi dissero che in Zhaikmunai si nascondono interessi di politici kazaki e italiani».

Chi?
«Uomini importanti del centrodestra, i soliti. I nomi me li hanno fatti, poi in Eni mi hanno chiaramente detto di stare attento al fuoco amico, quindi io sto zitto».

Gli anni di Tangentopoli e l'epoca di risanamento portata avanti da Bernabè.
Dice Flavio Fiorini, ex direttore finanziario, agli autori:
“Il metodo era di una trasparenza impressionante. I segretari mandavano a Cefis una nota con le richieste di pagamento delle varie correnti, Cefis le vistava il sabato e io il lunedì le portavo ad Arcaini, che girava i soldi ai partiti ..”.

Come tutte le altre aziende dello Stato, anche Eni aveva un presidente espressione dei partiti e un flusso di cassa di ritorno che costituiva finanziamento illecito. Era facile per Eni, avendo dei flussi di cassa verso l'estero, fare del nero che passava poi per finanzieri compiacenti come Pacini Battaglia.
Le tangenti ai partiti arrivavano attraverso la Karfinko di Pacini Battaglia, coi suoi 500 miliardi di fondi neri scoperti dai magistrati di Mani pulite che indagavano sulla maxi tangente Enimont.
La crisi della prima repubblica e gli scandali emersi con Tangentopoli costrinsero Amato ad un cambio di rotta, con la nomina di Bernabè come amministratore, che scelse un CDA fuori dai giochi politici. Sono gli anni del risanamento (la “seconda repubblica petrolifera”), della privatizzazione.
I due autori raccontano che, quando Franco Bernabé diventa AD nel 1993 per bonificarla, allestisce all’interno dell’azienda una “unità di crisi” per “affrontare i problemi” che emergevano con le inchieste giudiziarie, per cercare di prevenire le inchieste giudiziarie e aprendosi così alla collaborazione coi magistrati.

Gli anni dei fondi neri, della P2, Cefis, Gelli.
Mattei stesso si vantava di usare i partiti come i taxi, ovvero li pagava per raggiungere i fini dell'azienda, che non erano l'arricchimento personale, come avvenne poi alla sua morte.
Con la sua morte si capovolse la situazione coi i partiti e i vertici aziendali che usarono l'azienda per i loro fini di potere: il salvataggio di Calvi da parte di Cefis, il sospetto che usò i soldi dell'Eni per la scalata di Montedison,
E poi, il vero ruolo della P2, di cui si sospetta che fosse Cefis il puparo, ben prima di Gelli, le accuse rivoltegli per il tentativo di golpe.
C'è un filo che lega la P2, con le successive P2 e P4: nel corso del libro i due giornalisti citano spesso il nome di Bisignani, uno nella lista di Gelli, persona dalle molte conoscenze nei posti che contano e che spesso viene consultato dai politici quando c'è una nomina da fare.
Questo punto viene sottolineato su Repubblica anche da Alberto Statera: 
“soccorrere gli amici nei guai con la giustizia, controllare l'assegnazione di appalti pubblici, orientare le nomine al vertice di istituzioni e aziende di Stato, condizionare quel che resta della politica, attraverso un network tuttora potente che vede muoversi, accanto ad alti ufficiali e dirigenti collocati in ruoli-chiave, una cupola nella quale con il "figlioccio" Bisignani, compaiono tra gli altri Gianni Letta, l'ex banchiere Cesare Geronzi, Guido Bertolaso e, da ultimo in un ruolo crescente, Denis Verdini”.

Gli anni di Scaroni
Sono gli anni dove cambia l'asse politico dell'azienda, che si sposta dall'AD direttamente nelle mani dell'allora presidente del Consiglio Berlusconi e dove l'Eni deve assecondare i suoi interessi economici e politici. Gli anni dove si stipulano i contratti take or pay, poco lungimiranti e costosi, delle generose cedole staccate all'azionista Stato, del titolo in borsa in calo mentre gli emolumenti dell'AD crescono (nel corso degli anni gli autori stimano in 45ml di euro il totale dei compensi di Scaroni).
L'ossessione per la sicurezza interna, quando la security arrivò ad avere un budget da 20 ml di euro l'anno
Sempre Alberto Statera su Repubblica:
“La sicurezza stessa divenne un affare milionario attraverso la Italgo, di cui era maggiore azionista Francesco Micheli, che aveva lavorato per Cefis alla Montedison, e amministratore delegato Anselmo Galbusera, intimo di Bisignani, che attraverso il faccendiere pregiudicato intercettava commesse nel settore pubblico. Dell'Italgo rimane, come simbolo della grandeur di Scaroni, la "sala di crisi" dell'Eni costata 5,4 milioni di euro e degna del Pentagono. Spiccioli rispetto ai 200 milioni l'anno assegnati al budget delle Relazioni esterne per la fabbrica del consenso o ai 45milioni di compensi ufficiali incassati da Scaroni negli anni trascorsi all'Eni, che sono andati a rimpinguare "The Paolo Scaroni Trust" e il tesoretto piazzato alle Isole Vergini”.

Anche sul versante della comunicazione e delle sponsorizzazioni si caratterizzò la gestione di Scaroni: il budget per questo settore arrivò a 200 ml l'anno, investiti in pubblicità, eventi, spot sulla Rai, anche negli anni della crisi economica (la spesa in pubblicità passò nel 2011 da 52 a 70 milioni).

La terza repubblica petrolifera
Nel 2014 il presidente del Consiglio Renzi nomina, di fatto, il nuovo AD Descalzi, fino a poco prima dirigente nel ramo esplorazione petrolifera: una rottamazione della vecchia gestione o un tentativo da parte di Renzi di mettere una sua persona anche in questa azienda?
Probabilmente entrambe le cose: in questi ultimi due anni Descalzi ha iniziato un'opera di dimagrimento per le spese non ritenute necessarie, come la security e la comunicazione.
Ha cercato di vendere assett che zavorrano i costi come Saipem (un'altra multinazionale che si occupa di lavori di ingegneria non solo per Eni), sta cercando di dismettere il settore della chimica della Versalis, con tutti i rischi per le ricadute occupazionali.

Eni sta tornando ad investire nell'esplorazione e nella ricerca in nuovi paesi dove sia conveniente investire: importante sottolineare come l'asse geopolitico si sia spostato dal nord a sud, verso l'Africa (Egitto e Libia), cercando un'autonomia dalle forniture russe (cui ancora non possiamo fare a meno): Descalzi ha infatti rivisto i contratti take or pay (definiti in un'intervista un cappio al collo), sconfessando di fatto la precedente gestione .

Ci sono le tante, troppe inchieste sulla corruzione: dalla Nigeria, alla presunta tangente pagata per il giacimento OPL 245 (raccontata da un'inchiesta di Report), l'inchiesta sulla Saipem e su una commissione ad una società fittizia, da cui Scaroni è stato prosciolto (perché non sapeva, ma allora perché si è dato da fare per trovare un altro posto al manager poi allontanato?), la storia della Petrolbras in Brasile ….
C'è tutto il filone russo che l'ex manager Mario Reali ha raccontato agli autori: la dismissione della ex Yukos, che si è aggiudicata Eni, il finto audit sulle tangenti in Kazakhistan, il giacimento di Kashagan e le tangenti in Azerbajan ai ras locali (che certo non devono far piacere agli stakeholders).

Ci aspetta un futuro che è difficile da decifrare, imprevedibile: chi si sarebbe mai aspettato, anni fa, il crollo del valore del barile di petrolio? Che lo shale gas avrebbe preso piede, aprendo nuove possibilità?
La precarietà geopolitica nel mondo, specie nelle zone di approvvigionamento delle risorse da parte dell'Eni (la Libia, l'Iraq, la Nigeria e l'Egitto ). Eni deve guardarsi anche dall'aggressività degli stati petroliferi emergenti, dai rischi di sporcarsi le mani nuovamente con dittatori (in Egitto, per esempio).
Il paese ha bisogno di un'Eni forte e competitiva e viceversa, anche Eni ha bisogno alle spalle di una politica che sappia proteggere questa importante risorsa.
Sperando solo che Renzi e Descalzi non compiano gli stessi errori dei loro precedessori nel passato.

I capitoli del libro
Le origini dello Stato parallelo
Tutti gli affari con la Russia
La seconda repubblica petrolifera
Cinquant'anni di fondi neri
Gli intrighi della P2 e i maneggi della P4
Gli anni d'oro della crescita
Il Cane torna al guinzaglio
Servizi segreti e fabbrica del consenso
Il fallimento dei controlli e la corruzione endemica
La Terza Repubblica petrolifera

Alcuni post sul libro:
La scheda del libro su Chiarelettere, il blog di uno degli autori Giuseppe Oddo.

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon.

Il consigliere dei libici coinvolto in Mani Pulite – Lo stato parallelo


Un altro estratto (preso dal sito de l'Espresso) del libro appena uscito di Andrea Greco e Giuseppe Oddo, “Lo Stato Parallelo” (Chiarelettere).
...Gheddafi avrebbe potuto agitare come una clava contro il nostro governo [argomenti compromettenti]. Questioni che magari non coinvolgevano direttamente Berlusconi, ma che avrebbero potuto metterlo in difficoltà per la sua vicinanza al colonnello, anche perché la Libia, dopo la firma del trattato di amicizia, aveva investito in primarie società italiane: dall’UniCredit all’Eni, unico caso di azienda petrolifera occidentale partecipata da un Paese produttore; dalla Finmeccanica, all’ex gruppo bancario Capitalia, alla Juventus. 
Una fonte che [...] vanta rapporti storici con il sistema di potere libico ci racconta degli incontri che Saif al Islam Gheddafi organizzava quasi una volta al mese in un hotel di Salisburgo. Ospiti fissi di queste riunioni erano: l’allora primo ministro Shukri Ghanem (ex numero uno della società petrolifera di Stato libica), che nell’aprile del 2012 fu ritrovato a Vienna, dove era fuggito in esilio, morto nel Danubio; il vicepresidente della Libyan Investment Authority Mustafa Zarti, considerato il cassiere della famiglia Gheddafi, rifugiatosi anch’egli nella capitale austriaca prima del definitivo collasso del regime; e l’ex primo ministro, nonché ex segretario del Congresso generale del popolo, al Baghdadi Alì al Mahmoudi.
A questo comitato d’affari, che si riuniva per discutere dell’amministrazione del patrimonio della famiglia Gheddafi, sembra si aggregassero l’ex ambasciatore libico a Roma Abdul Hafed Gaddur e un ex agente di cambio romano che era stato arrestato durante Mani pulite ed era bene introdotto negli ambienti berlusconiani. Come mai i libici ricorressero alla consulenza di un personaggio del sottobosco finanziario capitolino, pur avendo rapporti con l’alta finanza internazionale per la gestione della liquidità generata dalla vendita di idrocarburi, è un mistero. [...].
 
Le figure più rilevanti del comitato, dove erano pattuite le retrocessioni di denaro a Gheddafi sui più grandi affari della Libia, erano Ghanem e Zarti. Il primo aveva studiato negli Stati Uniti e sapeva tutto dei rapporti personali e finanziari tra Gheddafi e i leader internazionali; Zarti che vive a Vienna dall’adolescenza (è figlio di un diplomatico dell’Opec) ed è stato compagno di studi di Saif al Islam, era inserito nei più importanti circoli finanziari austriaci. Entrambi gestivano fondi riconducibili alla famiglia Gheddafi, il cui patrimonio complessivo la nostra fonte stima tra i 100 e i 150 miliardi di dollari: fondi dapprima congelati dalle autorità austriache e poi rimessi a disposizione degli intestatari dei conti.
Probabilmente Ghanem era anche al corrente del contributo di 50 milioni di dollari che Gheddafi aveva fatto avere a Nicolas Sarkozy per la campagna presidenziale del 2007. Resa pubblica al momento opportuno, la notizia avrebbe potuto distruggere politicamente il presidente della Repubblica francese. «Sarko» sapeva che sulla sua testa pendeva una spada di Damocle e temette il peggio quando da alleato di Gheddafi divenne suo principale nemico. [...] .
 
Il francese Robert Dulas, consigliere di vari capi di Stato africani, francomassone per sua ammissione, strettamente collegato ai separatisti tuareg del Mali, ha scritto - nella sua contro inchiesta sull’uccisione dell’amico Pierre Marziali - che il 14 aprile 2011 Sarkozy ricevette «discretamente una delegazione di insorti libici accompagnata [all’Eliseo] dal filosofo Bernard-Henri Lévy», e che della delegazione avrebbe fatto parte «un certo Mustafa el Sagezli, il numero due della Brigata dei martiri del 17 febbraio», [...] il quale avrebbe chiesto al presidente francese kalashnikov, lanciamissili, mezzi blindati, autocarri, materiale di trasmissione.
Ex militare del reggimento paracadutisti della marina francese, Marziali aveva fondato una società militare privata, la Secopex (Société d’appui stratégique & opérationnel), che prestava servizi di consulenza e di addestramento militare (attività considerate lecite dalla legge francese) e che aveva individuato in Libia opportunità di crescita. Dulas era il suo braccio destro. Marziali era malvisto e mal tollerato nell’ambiente militare da cui proveniva, che gli rinfacciava di reclutare ex colleghi per formare milizie mercenarie (attività, questa, vietata dalla legge francese) e di lavorare per dittatori africani sanguinari nel nome del dio denaro. Dopo la sua morte, il ministero degli Esteri francese dichiarò che la sua presenza in Libia non era nota al Quai d’Orsay, anche se è presumibile che i servizi francesi fossero informati dei movimenti della Secopex. Dal libro di Dulas emerge un fatto clamoroso. Quando si parlava ancora in termini positivi della primavera araba, e si riteneva che la rivolta anti-Gheddafi fosse l’effetto di una reazione popolare contro il regime, Marziali e Dulas avevano consegnato un cd a un commissario dell’Eliseo contenente le immagini delle torture praticate dagli insorti di Bengasi: un modo per mettere in guardia i vertici della sicurezza francese e l’Occidente sulla presenza dell’islamismo più radicale dietro l’esercito dei ribelli. Nel cd c’era la prova della partecipazione alla massa dei rivoltosi di una «nebulosa terroristica» composta da Hezbollah, Hamas, al Qaeda nel Maghreb islamico e rinforzata da uomini provenienti dall’estero. Uno degli elementi di spicco di questa nebulosa era Faouzi Abou Kataf (noto anche come Fawzi Bukatif), numero uno della Brigata dei martiri del 17 febbraio, capo di quel Mustafa el Sagezli condotto al cospetto del presidente francese da Bernard-Henri Lévy. [...]
 
Marziali sarebbe stato dunque assassinato, secondo Dulas, non in modo accidentale, durante un tentativo di arresto, ma perché prossimo a scoprire i presunti inconfessabili legami tra i capi della Brigata dei martiri del 17 febbraio, i servizi francesi e l’Eliseo, con cui la Brigata era in contatto attraverso un proprio emissario (el Sagezli).
Perché Sarkozy si sarebbe compromesso fino a questo punto con uno dei capi della rivoluzione? Perché la Francia, che aveva in corso un programma di cooperazione bilaterale con la Libia nel campo delle tecnologie, del nucleare civile, della difesa e della formazione, ambiva ad acquisire attraverso la Total la fetta più grossa delle attività di esplorazione e produzione.
Le manovre di avvicinamento della Total alla Libia erano cominciate qualche anno prima. Già nel 2009, nel fallito tentativo di aggiudicarsi un contratto di gas dalla Libia, la compagnia transalpina aveva versato un acconto di 9,8 milioni di dollari al faccendiere francolibanese Ziad Takieddine con il benestare dell’allora segretario generale dell’Eliseo, Claude Guéant, futuro ministro dell’Interno di Sarkozy. E sarà proprio Takieddine a dichiarare ai giudici francesi che l’ex capo di gabinetto di Gheddafi, Bashir Saleh, sarebbe andato «a più riprese a incontrare Guéant al ministero dell’Interno», tra il dicembre del 2006 e il gennaio del 2007, per fornirgli «le indicazioni bancarie necessarie al versamento» dei 50 milioni per la campagna di Sarkozy.


Lo Stato parallelo – Chiarelettere, di Andrea Oddo e Giuseppe Greco.

26 marzo 2016

Come ti imbriglio il cane – Lo stato parallelo (Andrea Greco, Giuseppe Oddo)

I giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo dedicano un intero capitolo del libro “Lo stato parallelo” (l'inchiesta sull'Eni tra politica, servizi, scandali e guerre geopolitiche), è dedicato alla gestione dell'ex amministratore delegato Scaroni.
Che nel 2005 prese il posto di Mincato, silurato anche per aver bloccato l'affare Mentasti con cui Gazprom voleva entrare nella distribuzione del gas in Italia.
Con Scaroni - scrivono i giornalisti - il cane a sei zampe venne imbrigliato dal governo, anzi da Berlusconi, che dettò la linea energetica del paese, di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze:
La prima novità di rilievo avvenne sull'asse Roma-Mosca, dove le relazioni amicali dei i capi dei due governi avevano prodotto un'intesa strategica di tipo geopolitico. Da mesi la novità si preparava, e il vertice Nato di Pratica di Mare del 2002, con Putin ospite d'eccezione dell'Alleanza Atlantica, mostrò al mondo fino a che punto potessero spingersi l'abilità e la determinazione di Berlusconi nel veicolare la politica estera con il dosaggio di personalismi, parole, gesti di favore e lazzi.Mario Reali, mente e cuore dell'Eni in Russia, ricorda così quel periodo: «Con intensità crescente negli anni 2004-2005, lavorando con Mosca, notai un nuovo atteggiamento. I russi ci lasciavano parlare, poi dicevano: “Tu e Mincato è inutile che chiacchieriate tanto, perché Berlusconi parla con Putin”. Così l'azienda perse in Russia quell'autorevolezza che aveva rafforzato negli anni anche in virtù della sua veste di acquirente unico del gas in Italia».
Berlusconi e Tremonti, poi, agendo sulle competenze del governo, misero l'Eni al guinzaglio governativo. Il primo esautorò il governo e il ministero competente, nel campo della politica energetica, il secondo costrinse il gruppo a un crescente drenaggio di utili per rimpinguare le casse pubbliche. Questa le versione di un alto funzionario di via XX Settembre: «Fino al 2005 nessuno faceva politica energetica a Palazzo Chigi. L'Eni, una tecnostruttura unica tra le aziende italiane, era gestita da Mincato come fosse una sua pertinenza. Il cambio di marcia arrivò dalla politica estera e lo imprese Berlusconi, i cui rapporti diretti con Putin scavalcarono sia la società sia la politica energetica. Tutto avveniva nelle dacie e nelle ville in Sardegna, un lavoro di bassa cucina».I risultati del nuovo corso berlusconiano furono l'accresciuta dipendenza dalle forniture del gas russo, la sordina all'esplorazione e alla produzione, vale a dire agli investimenti, e il conseguente storno di crescenti flussi di cassa, e talvolta anche di debito, per la remunerazione dei soci. Il più famelico dei quali era proprio il Tesoro. Le società pubbliche come l'Eni furono trasformate in uno sportello dell'azionista-Stato. La sicurezza dei conti pubblici divenne prioritaria rispetto a quella degli approvvigionamenti e della diversificazione delle fonti.
Scaroni capì al volo l'antifona. Nell'ottobre del 2005, appena qualche mese dopo il suo insediamento, concesse un maxi-dividendo allo Stato. Da allora la gratificazione del socio pubblico sarà una costante, sarà sempre in cima ai suoi pensieri, senza peraltro alcun beneficio per le quotazioni del titolo in Borsa.«Siamo di gran lunga i principali contributori al Tesoro di dividendi» dirà Scaroni in una delle sue ultime audizioni al Senato. Nei suoi nove anni di gestione, l'Eni aveva versato allo Stato 29,7 miliardi di euro, di cui 12 di cedole e 15 di imposte. Soltanto nel 2009, dopo l'archiviazione di un utile più che dimezzato rispetto agli anni precedenti (per il «peggioramento dello scenario petrolifero, il calo del margine di raffinazione e il minore contributo delle partecipazioni»), il dividendo era stato ridotto da 1,30 a 1 euro per azione: una misura necessaria per non compromettere l'equilibrio tra cassa, debito e rating.


Lo Stato parallelo – Chiarelettere, di Andrea Oddo e Giuseppe Greco.
Dal blog di uno degli autori, Giuseppe Oddo: "Berlusconi, era nostro interesse acquistare più gas dalla Russia".

Una settimana di lotta (verbale) al terrore

In una settimana abbiamo assistito all'arresto del terrorista riluttante, agli attentati a Bruxelles.
Abbiamo scoperto quanto il cuore dell'Europa sia fragile e scoperto.
Che due terroristi erano già attenzionati dalle forze dell'ordine.
Che anche dopo gli attacchi a Parigi si era detto più intelligence, più scambio di informazioni.

Abbiamo anche vissuto la storia della collaborazione di Salah, ci siamo divisi sulle lacrime della Mogherini (che è stata difesa da Storace).
Nei giorni in cui ci si divide tra innocentisti e colpevolisti sull'Islam (non possono convivere coi nostri valori, ), il responsabile politico del genocidio di Srebrenica (in cui furono trucidati migliaia di musulmani) Karadzic è stato condannato a 40 anni di carcere.

Nel frattempo, mentre altri arresti si susseguono con la scoperta di altri possibili attentati qui in Europa, in Iraq e in Siria l'Isis perde terreno, grazie alla controffensive terrestri dei curdi, dell'esercito siriano, i bombardamenti russi.
Alla fine di questa settimana dove ci siamo ritrovati tutti più deboli e impauriti, l'Egitto ci ha propinato l'ennesima bugia sulla morte di Giulio Regeni. Due mesi fa veniva prelevato nel suo appartamento, per essere torturato. E fatto ritrovare morto.
Mi chiedo se oggi, ai tempi della real politik dove a pesare sono gli accordi commerciali, dove un dittatore come Al Sisi serve come argine psicologico contro l'estremismo islamico, ce la possiamo veramente permettere la verità e la giustizia su questo nostro connazionale.
La Fallaci aveva ragione, dicono in tanti.
Aveva previsto la grande giornalista le Molenbeek d'Europa, le banlieu in Francia, lo stato vergognoso delle nostre prigioni, le moschee improvvisate, poco aperte e poco trasparenti dove si fa anche proselitismo?

Se non ci fossero state queste notizie dal mondo e dall'Europa, che ci seguiranno per altre settimane, avremmo potuto parlare della storia dell'ACEA e delle dichiarazioni della candidata sindaco Raggi.
Dell'anatocismo delle banche ripristinato (su base annuale e non mensile) dal governo.
Dal nuovo polo bancario nato dalla fusione tra Banco Popolare e BPM. Coi conseguenti rischi di perdere altri posti di lavoro (perché pagano sempre gli ultimi).
Degli arresti in Calabria di politici del Partito democratico.
Del referendum del 17 aprile, con cui i promotori del Si intendono mettere un limite alle concessioni per l'estrazione dai giacimenti in mare (ad oggi si può estrarre fino all'esaurimento del giacimento), con le inutili polemiche sui posti di lavoro (se vince il si si torna alle vecchia legge), dimenticandosi che oggi stiamo perdendo lavoro e competenze grazie all'ondivaga politica sugli incentivi alle rinnovabili.

Avremmo anche dovuto parlare del nuovo mega polo che si sta creando per l'accordo tra Vivendì eMediaset, dopo che i francesi si sono presi Telecom. Dopo il giornale della nazione, il gruppo editoriale della nazione, anche questo nuovo mega polo, per la distribuzione dei contenuti in rete.
Ecco cosa preoccupa Berlusconi ..

24 marzo 2016

Lo stato parallelo – La P2, Cefis e Gelli

Cefis ed Andreotti

Eugenio Cefis
Nel libro “Lo stato parallelo”  dei giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo, un intero capitolo è dedicato agli intrecci tra l'Eni, la P2, Cefis per arrivare poi alle P3 e P4 moderne.
Al centro c'è la figura di Eugenio Cefis, indicato in una nota del Sismi come il vero fondatore della loggia P2, che avrebbe poi passato la mano a Gelli dopo che un tentativo di golpe (forse solo minacciato) non era andato in porto.
Eugenio Cefis divenne presidente dell'Eni (dopo la morte di Mattei e la successione di Marcello Boldrini), per passare poi alla Montedison, il gigante della chimica nato dalla fusione di Montecatini ed Edison (al centro poi della maxi tangente Enimont..), grazie ai soldi dell'Eni stessa e all'appoggio economico del banchiere Cuccia e di Amintore Fanfani.
Al pari della P2, Cefis si poneva nei confronti delle istituzioni come un centro decisionale alternativo in grado di surrogarle «a causa del progressivo indebolimento dei meccanismi democratici e parlamentari e della degenerazione dei partiti nonché della loro capacità di rappresentare ed esprimere le grandi scelte politiche».Come ci ha detto Giorgio Galli in una conversazione avvenuta a casa sua nell'estate del 2014, il «fatto che Cefis ufficialmente non facesse parte della P2 può essere veramente l'indizio che possa esserne stato l'ispiratore». Entrambi i sistemi di potere – quello cefisiano e quello gelliano – puntavano a un riassetto istituzionale attraverso lo svuotamento del parlamento e lo spostamento delle funzioni decisionali nell'esecutivo o al di fuori delle istituzioni.Il piano di rinascita democratico della P2 appariva speculare al'idea di Stato che il presidente della Montedison aveva esposto in una conferenza ai cadetti dell'Accademia militare di Modena di cui esgli stesso era stato allievo tra il 1939 e il 1941. In quel discorso, considerato come un manifesto ideologico, Cefis anticipava temi che sarebbero stati di grande attualità nei decenni successivi: la trasformazione delle istituzioni sotto la spinta dei cambiamenti economici e tecnologici; la perdita della sovranità degli Stati nazionali per l'avanzata delle imprese multinazionali; lo spostamento dei poteri dal governo e dal parlamento alle grandi imprese, con gli organi centrali dello Stato sempre più confinati nel ruolo di mediatori.Quel discorso, insieme alla biografia critica Questo è Cefis di Giorgio Steimetz, pseudonimo di Corrado Ragozzino, era sotto la lente di Pier Paolo Pasolini nella fase in cui lo scrittore si documentava per la stesura del romanzo Petrolio e per inquadrarne il personaggio di Carlo Troya, alias Eugenio Cefis.Annota Riccardo Antoniani, ricercatore di Letteratura contemporanea dell'Université Paris-sorbonne: «Pasolini aveva intuito il rischio imminente di tale svolta presidenzialistico-tecnocratica [..]. Nei pochi mesi che lo separavano dalla notte dell'Idroscalo [..] il poeta indagò con la dovizia filologica che gli era propria le parole del manager, progressivamente investendolo di un ruolo che [..] diveniva sempre più centrale nelle pagine del suo romanzo».

Lostato parallelo – capitolo Gli intrighi della P2 e i maneggi della P4, Cefis e Gelli

Nel capitolo gli autori citano un discorso di Cefis, all'accademia di Modena “La mia patria si chiama multinazionale” del 1972, in cui invocava una svolta istituzionale in senso presidenziale del paese: alcuni stralci li trovate qui:
pag 8: “Anche nelle decisioni di investimento le imprese hanno attribuito un’importanza secondaria ai confini nazionali, scegliendo per i nuovi impianti la località che poteva apparire più proficua, indipendentemente dal fatto che questa si trovasse nell’uno o nell’altro stato”.
pag. 12: ” … al limite può accadere talvolta che qualche governo proceda alla nazionalizzazione di singole unità produttive appartenenti alla multinazionale. Ma è difficile che un tale governo riesca a reggere alla pressione politica che le multinazionali possono esercitare”.
pag. 13: ” … è molto difficile che un paese ancora povero e arretrato possa permettersi di adottare iniziative politiche che scoraggino gli investimenti esteri. Le royalties che vengono versate al paese ospitante, la valuta derivata dalle esportazioni, i salari con cui la manodopera locale è retribuita, sono fatti economici di tale rilevanza da porre in secondo piano i problemi dell’autonomia e del prestigio politico”.

pag. 15: “… ci si evolve sempre più verso l’identificazione della politica con la politica economica”.

pag. 15: “se i controlli statali creano vincoli eccessivi agli investimenti e alle operazioni in un Paese, la società multinazionale può comunque agire potenziando le sue attività in altre aree geografiche e disinvestendo dal Paese in cui si sente troppo contrastata”.

pag. 16: “All’affiliata di una società multinazionale è abbastanza facile dimostrare al fisco di essere sempre in perdita e, al tempo stesso, creare un buon affare per la casa madre …”.

pag. 16: “Gli stati nazionali nei loro rapporti con le imprese multinazionali sembrano spesso come i giocatori di una squadra di calcio costretti da un assurdo regolamento a giocare soltanto nella propria area di rigore lasciando ai loro avversari la libertà di muoversi a piacimento per tutto il campo”.
pag. 16: “anche dal punto di vista militare l’unica risposta possibile è quella di un allargamento della dimensione del potere politico a livello almeno continentale”.

pag. 16: “la difesa del proprio Paese si identifica sempre meno con la difesa del territorio ed e probabile che arriveremo anche ad una modifica del concetto stesso di Patria … il concetto di Patria è un concetto che si è trasformato nel tempo tanto che, anche all’epoca del Risorgimento, ben pochi erano i cittadini che sapevano di essere italiani e non si consideravano semplici abitanti del Regno delle due Sicilie o del Granducato di Toscana”.

pag 16: “… non si può chiedere alle imprese multinazionali di fermarsi ad aspettare che gli Stati elaborino una risposta …”
pag. 17: “i maggiori centri decisionali non saranno più tanto nel Governo o nel Parlamento, quanto nelle direzioni delle grandi imprese e nei sindacati, anch’essi avviati ad un coordinamento internazionale”.

pag. 18: “Il sentimento di appartenenza del cittadino allo Stato e destinato ad affievolirsi e, paradossalmente, potrebbe essere sostituito da un senso di identificazione con l’impresa multinazionale con cui si lavora”.
pag. 18: ” … è chiaro che se l’Italia è un mercato troppo ristretto per una grande impresa, l’Europa è invece il maggior mercato del mondo. Se esistesse un interlocutore a livello europeo in grado di esercitare un controllo politico sulle multinazionali, con poteri ben al di là della Comunità Economica Europea, le iniziative delle multinazionali potrebbero più facilmente contribuire a risolvere gli squilibri economici anziché aggravarli. Questa ipotesi però si potrà realizzare quando i singoli stati nazionali rinunceranno, almeno in parte, alla loro sovranità … mi sembra … utopistica la soluzione di chi vuol instaurare un’autorità internazionale, magari nell’ambito dell’ONU, per il controllo sulle imprese internazionali”.


Insomma, sembra a leggere queste espressioni, che il destino dell'Europa e dell'Italia fosse già stato scritto più di 40 anni fa.

90 anni di Dario Fo

Ho avuto la fortuna di crescere in un periodo in cui in RAI, la tv pubblica, ancora si potevano trasmettere gli spettacoli teatrali di Dario Fo, "Mistero buffo": il Bonifacio VIII che Dante aveva mandato all'inferno prima del tempo.
Il signorotto medioevale che poteva sanare lo stupro della contadinotta pagando 100 augustari.
L'avvocato inglese che difendeva lo stupratore dicendo che era la donna che se l'era andata a cercare.
In un inglese inventato ma credibile.
Come inventato era anche il grammelot, con cui lo Zanni parlava della sua fame atavica.

La satira che aveva il coraggio, negli anni '70, a prendere in giro santi, Madonne e Cristi, alle prese col miracolo dell'acqua e del vino alle nozze di Cana. Il Cristo che incrociava papa Bonifacio mentre va in processione cantando coi suoi frati, mentre il nazareno va in un'altra direzione, verso il Golgota ..

Ecco, era ed è questo il teatro di Dario Fo e di Franca Rame, che lo aveva portato al nobel.
Per tutto questo, buon compleanno maestro!

23 marzo 2016

Titoli da destra

Partiamo dai due titoli dei giornali di destra (la destra italiana) sui fatti di ieri a Bruxelles:




Terroristi bastardi.
Cacciamo l'Islam.

Ci mancherebbe anche che uno debba giustificare o difendere i terroristi: ma questi titoli, che innalzano solo la tensione e colpiscono indiscriminatamente tutto il mondo islamico, fanno solo il gioco dell'Isis (o di Al Qaeda).
Perché dire che non esiste un'islam moderato (titolo de Il giornale) cozza con gli affari (le armi, il petrolio) che noi facciamo proprio coi paese arabi.
Cacciamo anche gli sceicchi che comprano pezzi di Milano?

Terroristi bastardi: bastasse scrivere un pezzo come questo per batterli, avremmo debellato da un pezzo Isis e compagnia cantando.
Le stesse persone che titolano e parlano così, sono le stesse che parlano di guerra, armiamoci e partiamo.
Che non vogliono sentir parlare di effetti collaterali, quelli dei bombardamenti indiscriminati.
Ma come si è offeso Luttwak ieri per le battute di Crozza....

E come si sarebbe offeso ancora se qualcuno avesse ricordato che in Italia si muore per l'uranio impoverito (i soldati italiani), per l'inquinamento dell'aria e delle falde per colpa delle discariche non a norma, delle aziende che inquinano ..

E potremmo anche aggiungere qualche postilla sulle parole di ieri del presidente: c'è stato un tempo in cui un ministro aveva detto che con la mafia bisognava convivere.
Dubito che oggi qualcuno possa dire lo stesso di Isis o dell'estremismo.
Eppure con la mafia (e la ndrangheta) conviviamo. 

Forse non sono altrettanto bastardi.

15 anni di terrorismo e di guerra







Nel 2001, in quell'11 settembre, il giorno in cui il mondo conobbe al Qaeda e Bin Laden, mentre guardavo le immagini dell'attacco alle Torri gemelle, non mi rendevo conto che stavo vivendo un momento importante della storia.
Quelle due torri in fiamme colpite in modo così preciso erano qualcosa che andava oltre al reale conosciuto, sembravano effetti speciali di un film, un qualcosa che fino ad allora era difficile da concepire, di allora riusciva a concepire.

Rivedere oggi i filmati dell'11 settembre, come ha fatto ieri Blob nella sua carrellata dal 2001 al 2016, mi fa tornare in mente una cosa importante: anche 15 anni fa si dicevano le stesse cose.
Siamo in guerra, la Fallaci l'aveva detto, basta con l'Islam.
15 anni di guerre hanno reso il mondo più sicuro?
In Iraq, in Afghanistan, in Libia la democrazia non è stata esportata, Al Qaeda ha lasciato il posto ad Isis e Bin Laden al califfo.
Al Qaeda era nata anche grazie agli aiuti dell'intelligence USA nella guerra all'impero sovietico.
Isis, così si legge, dagli aiuti della stessa intelligence per contrastare Assad, amico dei russi.
Forse, se smettessimo di alimentare questi gruppi di estremisti, comportandoci da piccoli demiurghi, il mondo sarebbe più sicuro....

Anche dopo l'attacco al Bataclan, nel novembre scorso, le prime parole di molti politici erano sullo stesso tono: Islam ha dichiarato guerra all'Europa, dobbiamo difendere i nostri valori.
Ma parte i miliardi promessi e concessi al dittatore Erdogan (che i valori europei non li rispetta di certo), di concreto c'è stato molto poco.
Nessuna vera intelligence europea, nessuno scambio di dati tra i paesi europei sugli spostamenti dai paesi “sensibili”, sui dati dei passeggeri dei voli.
In Francia, dopo tanti annunci, si è registrato solo un inasprimento delle libertà personali.

Il punto è che, oltre alla poca volontà di unire l'Europa, dal punto di vista politico, militare, c'è un altro punto da chiarire: anche avendo in mano tutti i dati, la loro analisi richiede tempo per essere, serve personale, serve saper filtrare questa enorme mole.
Ieri mattina la polizia e i servizi belgi si sono fatti trovare impreparati: pochi controlli all'aeroporto, alla metropolitana (vicino ai palazzi della UE). Poi questa notte i blitz e le perquisizioni nei covi. Quando era troppo tardi: come per la storia di Salah, latitante a casa sua, c'è qualcosa che non torna nel comportamento della polizia belga.

L'Europa che deve far rispettare i propri valori, si dice. Abbiamo sconfitto il nazismo, il brigatismo e la mafia – ha raccontato il presidente del Consiglio ieri – sconfiggeremo anche il terrorismo.

Ma il terrorismo non è un esercito, come i nazisti, non è un'organizzazione strutturata gerarchicamente come la mafia.
E' più simile alla ndrangheta, con cellule unite anche da legami familiari: un modo per contrastarla è infiltrarla, andare a combatterla dall'interno.
Dunque, oltre che alla condivisione delle informazioni tra i servizi, per arrivare ad una FBI europea, serve anche una legge sui pentiti dell'isis (lo spiegava ieri Maria Maggiore e Luigi Caracciolo ad Otto e mezzo).

Sempre la giornalista Maria Maggiore raccontava che, nel sito della più grande moschea di Bruxelles, compare la scritta “le donne non devono guardare gli uomini”. Non riusciamo a far rispettare i nostri valori nemmeno a pochi metri dalla sede dell'Unione europea.

E poi parliamo di guerra al terrorismo?