12 settembre 2017

Il tiro a segno come al luna park – da La notte della rabbia Riccardi

Ne “La notte della rabbia” il colonnello dell'arma Roberto Riccardi ci porta indietro nel tempo, nel 1974, negli anni di piombo: mescolando fiction e pezzi di storia, il racconto parte dal rapimento di un consulente del governo, aspirante ministro, da parte di un commando delle SAP, a Roma.
A mettersi sulle tracce dei terroristi c'è il comandante del nucleo antieversione del carabinieri, il colonnello Leone Ascoli.
Ma alla sfida tra Stato e anti-stato, tra legalità ed eversione, si affiancherà una seconda sfida, perché in quell'Italia si stava combattendo anche una seconda guerra, tra spie, servizi e agenti doppiogiochisti.
E così Leone si trova di fronte un suo antico nemico, l'ex tenente delle SS, aguzzino nel campo di Auschwitz in cui Leone fu rinchiuso, in quanto ebreo, in quanto uomo non degno di vivere.
Lì, nel campo, Leone e Helmut Brandauer si sono già incontrati, quando un suo compagno di prigionia, Bepi, gli aveva salvato la vita.
Era l'estate del 1944 e dentro il campo di sterminio la vita, la dignità della persona, era regolata dai capricci delle SS, che come delle divinità decidevano della vita o della morte delle persone che avevano davanti (come ci ha raccontato Levi in “Se questo è un uomo”).


Auschwitz, estate 1944
Sulla Judenrampe lui e Bepi si guardarono a lungo. Un debole sole scaldava appena le ossa, regalando una parvenza fugace di benessere. [..]
Sinistro non era il treno, ma il concentrato di ferocia che lo attendeva sulla banchina: le SS, i kapò e perfino loro, i derelitti dalle tute a strisce, compagni di sventura divisi solo dalla data di arrivo al campo, emblema di ordine fame e paura. Bepi si avvicinò perché i sorveglianti non sentissero. - A te chi tocca oggi?
- I bambini. A te?
- Lo stesso.
Parlavano a voce bassa con le labbra socchiuse, comunicare era vietato e sulle punizioni non potevi sbagliarti. Per le mancanze ordinarie il bastone, la frusta o i morsi dei cani. Per quelle più gravi la forca. Il ragazzo ebreo si piegò come per raccogliere un oggetto, un altro dei loro trucchi per parlare senza essere uditi.
- Hai visto chi comanda? - domandò.
Il Bepi non fece in tempo a rispondere e Leone a rialzarsi, un colpo terribile lo raggiunse alla testa. Cadde, il sangue gli colava sul volto. [..]
Quel giorno era stato assegnato ai bambini. Il compito più ingrato, caricarli sui carretti che li avrebbero condotti alle camere a gas. Nessuno di loro si sarebbe salvato, all'economia del lager non portava profitto.
Da tanto dolore non riusciva mai a rialzarsi. Meglio così, per un po' avrebbe scansato la fatica.
Il Bepi si era avviato con gli altri, chino per terra ne distinse le gambe all'interno del flusso. Lo vide avvicinarsi a una donna che teneva in braccio un neonato e battagliare con lei per farsi consegnare la creatura. Inventava scuse per convincerla e nel frattempo si guardava intorno, le SS non dovevano vedere.
Insisteva così nel tentativo di sottrarla alla morte. Secondo le regole del campo una giovane sola poteva salvarsi, mentre una mamma a cui toglievano il figlio era considerata persa e quindi inutile. Se i medici l'avessero vista col bambino lei sarebbe finita al gas.
Non era mai facile e non lo fu quella volta, la madre non voleva cedere. Il Bepi allora si avventò, perse di forza il neonato e si dileguò protetto dalla massa. La donna, trattenuta da altri, non potè seguirlo. Il partigiano filava a passo svelto verso un carretto, ma qualcuno ne deviò il percorso.
Il dolore dominuiva e la vista tornò ad assisterlo, così Leone alzò gli occhi in tempo per scorgere una SS che spingeva il Bepi verso un gruppo di commilitoni. Due di loro li conosceva: sempre in prima fila nel torturare i progionieri, sempre pronti ad ubriacarsi la sera, una volta finito il loro sporco lavoro.
L'ufficiale che guidava le operazioni sorrise mel guardare il piccolo, portato in braccio dal prigioniero. Avanzò, i suoi occhi mandavano i lampi. Bepi intuì il pericolo e provò a tornare sul suo percorso abituale. Il carretto era a poca distanza, gli bastava qualche passo per raggiungerlo e adagiarvi il bambino.
Il tenente si piantò a gambe larghe davanti al giovane impedendogli di proseguire. Si spiegò a gesti, mimò un ordine e perfino Leone, lontano com'era, realizzò cosa volesse. Il neonato non dovea essere posato sul carretto ma lanciato per aria. Dio mio, pensò, a cosa serve quel gioco?
Bepi tentò l'unica difesa possibile, finse di non aver capito. L'ufficiale estrasse la pistola e gliela puntò alla tempia. Leone non seppe mai a quale impulso risposero le sue gambe, senza deciderlo si trovò in piedi.
Camminava verso le SS con le braccia lungo i fianchi e i pugni serrati. Il tedesco gli dava le spalle. Bepi era immobile, con l'arma a contatto con la pelle e un'espressione gelida sul viso. Fissò il compagno per un istante che parve eterno, intuendo i suoi disegni. Quel pazzo di un ebreo voleva affrontare il tenente, lo avrebbero ucciso e non sarebbe servito, per il piccolo non c'erano speranze.
Senza guardare scagliò il bambino più in alto che poteva. Fu un lancio incredibile, che il gruppo SS seguì con ammirato stupore. La Luger che avrebbe ucciso Leone si puntò verso il cielo. Uno sparo, un centro perfetto. Egli chiuse gli occhi perché la scena potesse svanire, avrebbe preferito che a dissolversi fosse l'intero universo.
Il resto della storia glielo raccontarono in seguito: il Bepi costretto a posare il cadaverino insanguinato sul carretto, fra gli altri bambini che piangevano chiamando le madri; i tedeschi che radunavano fascette di marchi da consegnare a chi aveva sparato; l'aguzzino soddisfatto che impugnava la sua pistola fumante.
Era un tiro a segno, come al luna park, con un bersaglio umano che contava pochi giorni di vita. [..]
Leone rimase a occhi chiusi, incapace di urlare o di muoversi. Poco dopo gli arrivò una bastonata sulla schiena. Misurata, per provocare dolore senza farlo cadere. Si sentì spingere verso la banchina, lo costringevano a riprendere il lavoro.
Fece in tempo a vedere chi lo aveva colpito. Era l'artefice dell'orrore di prima, l'uomo che la notte sognavano di uccidere e la mattina pregavano di non incontrare.
Il suo nome era Helmut Brandauer.
La notte della rabbia – Roberto Riccardi, Einaudi editore

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