30 ottobre 2017

Report - la banca dati del DNA, il grano nella pasta e le università

Sono molti gli argomenti della puntata odierna di Report: si comincerà con l'anteprima di Alessandra Borella che sarà questa volta dedicata alla moda dei tatuaggi.
Tatuaggi che spesso sono quasi delle opere d'arte che ci incidiamo sul nostro corpo: ma siamo consapevoli dei materiali e degli inchiostri che mettiamo sotto pelle?

Anteprima FAR WEST TATTOO Alessandra Borella (l'anteprima su Raiplay)

La scheda del servizio:
Un tatuaggio piccolo o grande ce l’hanno ormai oltre 60 milioni di persone in Europa. Sempre più giovani ne vogliono uno e vanno a farselo fare - spesso nel negozio dove è andato l’amico - senza chiedersi se il tatuatore che sta per incidere la loro pelle è preparato o no. Una normativa comune europea per la formazione e sicurezza non c’è: paese che vai, legge che trovi. In Italia il far west arriva fino a livello delle singole Regioni: in alcune si deve studiare 600 ore, in altre si è autorizzati a sforacchiare la pelle dei pazienti senza neanche uno straccio di corso di formazione. Ci sono solo delle linee guida ministeriali che risalgono al 1998 e non sono mai diventate legge. Eppure proprio noi italiani siamo i più "marchiati" d'Europa e il giro d'affari supera i 200 milioni di euro l'anno. Quanto a fondo conosciamo i rischi del "tattoo"? Poco, a giudicare da un'indagine dell'Istituto Superiore di Sanità. E quanto a fondo conosciamo le sostanze che ci infiliamo sottopelle? Per niente. E questo nonostante le analisi parlino chiaro: a volte sono tossici e non c'è un controllo sufficiente, perché gli inchiostri per tatuaggio non devono rispettare la normativa stringente sulle sostanze chimiche, ma solo una più blanda risoluzione europea del 2008 che, evidentemente, non basta.


La banca dati del DNA.
Il DNA rivela tutto di noi: chi siamo, le nostre malattie, chi sono i nostri antenati e anche quale sarà il nostro futuro. Gli studi sulla genetica stanno rivoluzionando scienza, medicina ed economia.
Il servizio di Giorgio Mottola racconterà come le più grandi aziende di internet (Amazon, Google, Microsoft, Facebook) abbiano iniziato a fare affari col nostro DNA: chi fa affari col nostro dna e perché? Come potrebbe cambiare la nostra vita?

Google, il più grande motore di ricerca di internet, che conosce dunque tutti i nostri gusti, quello che ci piace, sta allestendo la più grande banca genetica del mondo. Significa che ci conoscerà anche dal di dentro, per poter entrare nel mondo della ricerca scientifica e nel mercato della salute da una posizione dominante.
Che futuro dobbiamo aspettarci? La fine del sistema sanitario nazionale (e pubblico)?

La scheda del servizio: IL PATRIMONIO di Giorgio Mottola

Siamo già in piena corsa all’“oro genetico”: il nostro dna. È in atto una rivoluzione nella medicina e nella scienza che avrà presto un enorme impatto sulla nostra vita quotidiana. L’obiettivo è di sconfiggere malattie che consideravamo incurabili e salvare milioni di vite. Ma proprio per questo il dna è uscito dai laboratori ed entrato nelle stanze della finanza, diventando preziosissimo, un patrimonio conteso dai principali gruppi multinazionali che si sono lanciati a capofitto nel business legato alla genetica. I campioni di dna vengono ceduti e passano di mano sui mercati internazionali, generando profitti milionari. Nascono piccole aziende che si inventano attività intorno al marketing genetico: dai cosmetici dna-compatibili, ai club per cuori solitari in cerca del gemello di dna. In questa corsa c’è chi è avanti a tutti: Google. Il colosso di Mountain View ha messo in piedi una delle banche genetiche più grandi al mondo, che gli ha consentito di sbarcare nel settore della salute. Gli altri giganti del web non sono da meno: Amazon, Microsoft e Facebook da anni stanno investendo in progetti legati alla genetica. L’area più promettente è quella farmaceutica perché sta nascendo una nuova generazione di farmaci genetici. L’idea è che si passerà da un unico farmaco designato per una specifica patologia, a infinite versioni di quel farmaco, personalizzate per il singolo paziente. Ma non è che così facendo salterà la cassa del Sistema sanitario nazionale? Se i farmaci non sono più di massa ma personalizzati, di quanto aumenterà il loro costo?

Il grano della pasta italiana
L'Italia è il primo paese importatore di grano duro: la domanda a cui il servizio di Manuele Bonaccorsi cercherà di rispondere è allora “da dove viene il grano che poi finisce nella pasta” che ci mangiamo a pranzo?

La scheda del servizio: CHE SPIGA! di Manuele Bonaccorsi (qui l'anticipazione su Raiplay)

Ammettiamolo, quando è ora di pranzo non c’è niente come una bella amatriciana, una carbonara o una tagliatella al ragù. Ma da dove viene il grano con cui è fatto il nostro piatto di pasta? Siamo andati a vedere in Canada, che è il primo produttore mondiale di grano duro e il paese da cui l’Italia importa ogni anno un milione di tonnellate. Lì le spighe sono coltivate con largo uso di glifosato, il diserbante più diffuso al mondo. Il glifosato, secondo lo Iarc, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro è un probabile cancerogeno. Ciò nonostante, la Commissione Europea ha proposto di rinnovare l’autorizzazione all’uso del composto chimico in Europa, anche sulla base di uno studio dell’Efsa, l’ente europeo per la sicurezza alimentare, in gran parte identico a studi realizzati dalle aziende produttrici di glifosato.Intanto, a prescindere dalla decisione delle autorità europee, l’Italia continua a comprare il grano col glifosato. A vendercelo sono le grandi aziende di trading, colossi globali con fatturati da centinaia di miliardi, capaci di influenzare l’andamento dei prezzi speculando in borsa. Report ha fatto analizzare i 6 marchi di pasta più diffusi sul mercato italiano.

Per la rubrica "Com’è andata a finire?"
Nell'ottobre 2016 il servizio di Emanuele Bellano aveva raccontato i rischi legati agli investimenti in diamanti, che tanto sicuri non sono, come ci raccontano le brochure le pubblicità sui giornali economici.
Il giornalista ci racconterà come è andata a finire:
Sono oltre 100 mila i risparmiatori che hanno comprato diamanti allo sportello della propria banca, nel corso dei quarant’anni di attività delle società venditrici IDB - Intermarket Diamond Business e DPI -Diamond Private Investment. Un anno fa il servizio di Report "Occhio al portafoglio" denunciò che i diamanti venduti attraverso questo circuito avevano un prezzo doppio rispetto al reale valore di mercato. Dal servizio è partita un’inchiesta della magistratura, un'indagine di Consob e due procedimenti dell'Antitrust. Ad oggi il mercato delle due società che vendevano diamanti ai risparmiatori è fermo. Nessun nuovo cliente, scoperto l'inganno, è disposto a pagare un diamante il doppio del suo reale valore di mercato. Il cerino rimane così nelle mani di tutti quei risparmiatori ancora in possesso di uno di questi diamanti. Sono migliaia e rischiano non solo di avere una minusvalenza, ma di non recuperare neanche il capitale investito. In soli sette casi i clienti (sei di Intesa Sanpaolo e uno di Unicredit) si sono visti ricomprare il diamante dalla banca. Abbiamo chiesto ai due istituti con quali criteri hanno selezionato questi clienti fortunati e cosa devono aspettarsi invece le altre migliaia di risparmiatori finora lasciati al loro destino.

Il merito dentro le università
Come scegliamo le università da premiare?
Sappiamo, dai dati raccolti dal premio nobel Stiglitz (pubblicati da l'Espresso), che in Italia l'ascensore sociale si è bloccato: accedere agli studi superiori è diventato una cosa da ricchi e dunque, per una persona che ha meno possibilità, è complicato migliorare la propria posizione sociale.
Sempre meno fondi per le università pubbliche e pure distribuiti con criteri poco meritocratici.

La scheda del servizio: PER UNA FETTA DI TORTA (l'anticipazione su Raiplay) di Giulia Presutti

L'università è la casa della scienza. Ogni anno il ministero dell'Istruzione deve distribuire 7 miliardi tra gli atenei italiani. Il 20% di questi fondi è assegnato sulla base del merito, per cui si guarda alla qualità della ricerca scientifica. Funziona così: ogni docente presenta due studi e la media dei voti si traduce in una “pagella” dell'università nel suo complesso. Ma chi ci assicura che a essere premiate siano davvero le migliori? Dovrebbe essere l'Anvur, l'agenzia di valutazione che stabilisce i criteri e controlla che vengano applicati, ma capita che per giudicare il valore di un articolo scientifico si utilizzino metodi automatici, con esiti a volte paradossali. Sentiamo cosa ne dicono i “promossi” e invece chi, dall’altra parte, rischia di rimanere a bocca asciutta.

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