31 luglio 2018

Il senso del dolore. L'inverno del commissario Ricciardi, di Maurizio De Giovanni



Incipit  
Il bambino morto stava all’impiedi, fermo sull’incrocio tra Santa Teresa e il Museo. Guardava i due ragazzi che, seduti a terra, facevano il giro d’Italia con le biglie. Li guardava e ripeteva: “Scendo? Posso scendere? ”L'uomo senza cappello sapeva della presenza del bambino morto ancora prima di vederlo: sapeva che il lato sinistro, il primo che i suoi occhi avrebbero incontrato, era intatto; mentre a destra, il cranio era stato cancellato dall'impatto, la spalla era rientrata nella cassa toracica sfondandola, il bacino era ruotato attorno alla colonna vertebrale spezzata. E sapeva anche che al terzo piano del palazzo d'angolo che gettava in quel prima mattino di mercoledì una fascia d'ombra fredda sulla strada, un balconcino era serrato; sulla bassa ringhiera restava appeso un drappo nero.

L'uomo senza cappello è il commissario Luigi Alfredo Ricciardi

..commissario di pubblica sicurezza presso la squadra Mobile della Regia Questura di Napoli. Aveva trentun anni, quanti erano gli anni del secolo. Nove dell'era fascista”.

Preso dallo sconforto per la prossima fine della serie del commissario Ricciardi, ho voluto rileggermi “Il senso del dolore”, il primo romanzo dove compare l'enigmatico commissario di polizia, dove tutto è cominciato, con le prime quattro stagioni di Ricciardi. In questa, ci troviamo in una coda fredda dell'inverno, in pieno marzo, dove il vento ancora freddo spazza le vie della città.
Una città dove, per decreto del presidente del Consiglio, Benito Mussolini, non avvengono crimini e nemmeno vengono raccontati fatti di cronaca sui giornali.
A meno che non si tratti di fatti che non è proprio possibile tenere sotto traccia: come l'omicidio del tenore Arnaldo Vezzi, il tenore preferito del Duce, un'artista eccelso come voce e come capacità di entrare nei panni dei personaggi delle opere, quanto egoista e narciso nella vita reale.

Del caso se ne occupa proprio quel commissario Ricciardi, un poliziotto con cui nessuno vuole lavorare, per quel carattere chiuso, mai una risata, mai visto in occasioni mondane.
L'uomo che vede i morti, le persone uccise in modo tragico, nei loro ultimi istanti di vita: il Fatto, così si chiama questo dono. Che in realtà è una dannazione.

"Luigi Alfredo si abituò a pensare alla cosa che gli era successa proprio con quel nome: il Fatto. Da quando gli era capitato il Fatto, come aveva capito del Fatto. Il Fatto che aveva orientato l'esistenza. [..] E lui aveva compreso che non avrebbe mai più potuto parlarne con nessuno, che con questo marchio sull'anima ce l'aveva solo lui: una condanna una dannazione. Negli anni che seguirono, lui andò definendo i confini del Fatto. Vedeva i morti. Non tutti e non a lungo: solo quelli morti violentemente, e per un periodo di tempo che rifletteva l'estrema emozione, l'energia improvvisa dell'ultima emozione. Li vedeva come una fotografia [..] anzi come una pellicola, di quelle che aveva visto qualche volta al cinematografo, che però replicava sempre la stessa scena. L'immagine del morto con i segni delle ferite e l'espressione dell'ultimo atto prima della fine."

Costretto a convivere col suo dolore interno che non può raccontare a nessuno e che lo porta a respingere ogni contatto intimo, specie con le donne.
Costretto a sentire i lamenti, le imprecazioni, i sentimenti e il dolore delle persone, finché questo ultimo barlume di vita non si consuma.
Per le strade, agli angoli delle piazze.
O nel camerino del famoso tenore Arnaldo Vezzi, che al San Carlo doveva intepretare Canio, protagonista de I Pagliacci di Leoncavallo.

io sangue voglio, all'ira mi abbandono, in odio tutto l'amor mio finì ..”

Queste le ultime parole dell'immagine del tenore, un pagliaccio che ride, ma con una lacrima che scorre dall'occhio. Ucciso con una scheggia di vetro conficcata nel collo, il suo sangue per tutto il camerino, eccetto che sul cappotto e sulla sciarpa.
Prima stranezza.
E poi quella finestra aperta, seconda stranezza.

Chi è entrato in quel camerino per uccidere Vezzi? Ci sono alcune cose che non tornano.
Il tenore aveva saputo farsi odiare da tutte le maestranze, dai maestri e dai musicisti del San Carlo. Perfino il suo agente e il suo segretario non avevano con lui un buon rapporto.
Il delitto Vezzi, per le amicizie del morto, è un caso che interessa da vicino sia i vertici della Questura (il suo superiore, l'arrivista Garzo) che la politica a Roma.
Si pretende un'indagine veloce, ma dove cercare il movente?

"Che belli, ironizzò tra se Ricciardi, con un mezzo sorriso. Il piccolo re senza forze, il grande comandante senza debolezze. I due uomini che avevano deciso di cancellare il crimine per decreto. Ricordava sempre le parole del questore, un azzimato diplomatico che improntava la propria vita al compiacimento assoluto dei potenti.: non esistono suicidi, non esistono omicidi, non esistono rapine e ferimenti, a meno che non sia inevitabile o necessario. Nulla per la gente, soprattutto per la stampa: la città fascista è pulita e sana, non conosce brutture. L'immagine del regime è granitica, il cittadino non deve avere nulla da temere; noi siamo i custodi della sicurezza.Ma Ricciardi aveva capito, ben prima di studiarlo sui libri, che il delitto è la faccia oscura del sentimento: la stessa energia che muove l'umanità la devia, fa infezione e suppura esplodendo poi nell'efferatezza e nella violenza. Il Fatto gli aveva insegnato che la fame e l'amore sono all'origine di ogni infamia, in tutte le forme che possono assumere: orgoglio, potere, invidia, gelosia. Sempre e comunque la fame e l'amore. Li trovavi in ogni delitto, una volta semplificato all'estremo, eliminati gli orpelli dell'apparenza: la fame e il dolore, o entrambi, e il dolore che generano"

La fame e l'amore.
E, arrivato alla soluzione del caso, Ricciardi scoprirà la presenza di entrambi nelle ragioni del delitto.
E perché quel pagliaccio ride, cantando un'aria famosa (ma di Cavalleria rusticana), con una lacrima che scende dal trucco pesante..

In questo romanzo scopriamo tutto il mondo ricciardiano. Le donne, per esempio: la dolce Enrica che osserva dalla finestra della sua camera, mentre ricama la sera e che, seguendo i suoi movimenti, gli darà un intuizione importante per risolvere il caso.
La vedova del tenore, Livia, una donna bellissima e sfortunata, per il rapporto col marito andato in frantumi anni prima. E che proprio negli occhi di Ricciardi, quegli occhi verdi così pieni di dolore, troverà nuovamente la forza per vivere e per innamorarsi ancora.
E poi Maione, il fidato brigadiere, forse l'unica persona oltre al dottor Modo che può considerare come un amico.
Bambinella, il femminiello che è anche la voce dei quartieri popolari e che per questo è un confidente di Maione.

Infine c'è Napoli, che viene raccontata andando oltre l'immagine da cartolina anche nella descrizione dei suoi quartieri, dove separati da una via, trovi la ricchezza e la povertà:

... i quartieri dei ricchi e dei borghesi, della cultura e del diritto. A monte la Napoli dei quartieri popolari dove vigeva un altri sistema di leggi e norme, altrettanto o forse ancora più rigido.La città sazia e quella affamata, la città della festa e quella della disperazione. Quante vole Ricciardi era stato testimone del contraddittorio tra le due facce della stessa medaglia. Il confine: via Toledo, palazzi antichi, muti sulla strada ma già rumorosi sul retro, le finestre spalancate sui vincoli, i primi canti delle massaie.”


La scheda del libro sul sito dell'editore Fandango e sul sito di Einaudi (che ha ripubblicati tutti i primi romanzi di De Giovanni).
Ricciardi a fumetti, edito da Bonelli
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

30 luglio 2018

Quando si insegna un uomo a odiare (dal discorso di Robert Jennedy)

Quando si insegna un uomo a odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle o delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l'altro non come un compatriota ma come un nemico, da trattare non con la collaborazione ma con la conquista. Per soggiogarlo e sottometterlo. Impariamo, in sostanza, a guardare i nostri fratelli come alieni. Uomini alieni con cui dividiamo una città ma non una comunità. Uomini legati a noi da un'abitazione comune ma non da un impegno comune.
Impariamo a dividere soltanto una paura comune, soltanto un desiderio comune di ritirarci gli uni dagli altri, soltanto un impulso comune a reagire al disaccordo con la forza.
La nostra vita su questo pianeta è troppo breve, il lavoro da svolgere è troppo vasto, perché questo spirito prosperi ancora a lungo nella nostra nazione. È evidente che non possiamo bandirlo con un programma né con una risoluzione, ma possiamo forse ricordare, anche una sola volta, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono. 
 
Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo e possiamo cominciare a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore.  
Roberto Kennedy - 5 Aprile 1968 (il giorno prima era stato ucciso a Memphis, Tennessee, il reverendo Martin Luther King)

Ieri sera mi sono rivisti Bobby, il film di Emilio Estevez sulla morte di R. Kennedy, il 5 giugno 1968, all'Hotel Ambassador a Los Angeles, dove aveva appena concluso un discorso nella sua campagna per le primarie.
Il discorso finale, che chiude il film, ha un valore in se e che arriva fino ad oggi: perché anche oggi viviamo un'epoca di tensioni razziali, anche oggi si divide il paese in noi e gli altri, in noi e i nostri nemici da combattere, in noi e quelli diversi da noi, perché hanno la pelle di un colore diverso.

Chissà cosa avranno pensato, prima di premere quel grilletto, gli sparatori (accidentali, dicono) che hanno ferito diverse persone nel paese. 
Chissà cosa avranno pensato le persone della ronda della legalità quando hanno aggredito un uomo di origine nordafricana, ad Aprilia.
Pensavano veramente di fare giustizia? Che quel gesto valesse tutta l'esasperazione (se si tratta di esasperazione) cumulata?
E che ne pensano le persone che stanno insegnando ad odiare il prossimo, il diverso?

29 luglio 2018

La nuova (?) opposizione


Avete letto Repubblica? Oggi nelle prime pagine si parlava del fronte del no a Foa: da Gentiloni a Berlusconi, il fronte del no è pronto a mettere i bastoni tra le ruote al candidato presidente.
E' la nuova opposizione immaginata da Gentiloni, dal PD (forse con un pezzetto degli scissionisti) fino a Bonino e Forza Italia, la destra moderata che deve smetterla di fare da portatrice d'acqua a Salvini.
Ecco, archiviate le 10 domande di Repubblica a Berlusconi, D'Avanzo, le sentenze sul processo per la trattativa, il bunga bunga e l'occupazione della Rai.
C'è da salvare il paese.

E il paese andrebbe veramente salvato: perché ormai Salvini si è fatto prendere la mano e si mette a citare direttamente Mussolini (e se anche la frase non è sua, è sempre di quel contesto).
Molti nemici molto onore.
Chissà se tra i suoi nemici c'è ora anche la mafia siciliana, i casalesi, la mafia pugliese?
Sappiamo che considera l'emergenza fascista (e gli italiani che hanno iniziato a fare tiro a segno contro persone di colore, giusto per vedere l'effetto che fa)  un'invenzione della sinistra.
Anni fa, quando ancora la mafia non esisteva (almeno per molti giudici, per parte della politica, per il mondo imprenditoriale), era la DC a dire che la mafia era un'invenzione della sinistra.
Cosa ne pensa il capitano? 

28 luglio 2018

I barbari



La prima pagina di Repubblica è sufficientemente eloquente: " Salvini si prende anche la Rai".
La Rai, solito terreno di conquista del governo di turno.
Lo era ai tempi di Berlusconi (che non avrebbe mosso nemmeno una pianta in Rai), lo è stato ai tempi di Renzi (via i partiti dalla Rai, dopo aver nominato presidente e direttore generale) e lo è anche ora.
L'amministratore lo hanno scelto i 5 stelle e il presidente la Lega.
E, come successo per altri atti del governo, si sono invertiti i ruoli tra la ex maggioranza ora opposizione (più sui social che su altro) e la ex opposizione ora maggioranza.

Forse un giorno avremo una Rai libera.
Se giudicassimo da quello che viene comunicato, sembrerebbe che questo governo sta sfornando riforme e proposte come se non ci fosse domani.
Eppure il decreto dignità viene annacquata ogni giorno, della flat tax e del reddito di cittadinanza non c'è traccia.
Si parla, troppo e male, di giustizia, dove grazie al cielo è stata fermata la riforma delle intercettazioni.
Sugli immigrati si parla tanto, ma dall'Europa abbiamo ottenuto solo pochi buoni propositi, gli sbarchi e i viaggi della speranza continuano.
Abbiamo affidato alla Libia, un paese che non conosce il reato di tortura, senza un governo ufficiale, la gestione dei migranti.

Prima gli italiani si ripete: ma fino a quando potranno rimpinzarsi la pancia con l'invasione che non c'è, col rischio della colonizzazione, con crocifissi e le armi per sentirsi sicuri in casa?
Fino a quando gli elettori di Lega e 5 stelle si sentiranno sazi dal taglio ai vitalizi (che poi è un ricalcolo delle pensioni di ex parlamentari) e dal taglio dell'inutile (perché poco usato) Air force Renzi?

Servirebbe una opposizione che parli un'altra lingua agli italiani: ma in questo momento non ne abbiamo, quanto meno in Parlamento.
Dovremmo aspettare che arrivi qualcuno da fuori.

27 luglio 2018

Le bombe della trattativa - 27 luglio 1993

25 anni fa, il 27 luglio 1993, diverse bombe scoppiavano a Roma e a Milano, quasi contemporanemante.
Al Pac di via Palestro, facendo crollare la struttura e uccidendo tre vigili del fuoco, una guardia comunale e un ragazzo che stava dormendo su una panchina (e che a volte viene pure dimenticato).
A Roma, due bombe scoppiarono di fronte alle chiese di San Giovanni  e San Giorgio al Velabro: in quella stessa notte, lo raccontò anni dopo l'allora presidente del Consiglio Ciampi, Palazzo Chigi rimase isolato per diverse ore.
Aria di golpe.
Erano le bombe della trattativa tra la mafia e un pezzo dello stato: non presunta trattativa come per anni hanno raccontato i negazionisti, ma la trattativa certificata da una sentenza passata in giudicato (la condanna del boss Tagliavia) e la condanna in primo grado per il processo di Palermo, per il reato di violenza contro organi dello Stato.
Non la trattativa in sé, quella del Ros, di Ciancimino prima e Dell'Utri poi.
Le bombe erano necessarie per forzare la mano alla politica, per creare un clima di paura nel paese, per portare a miti consigli i membri dell'esecutivo: nel mesi successivi infatti il ministro Conso (in solitudine disse) tolse il 41 bis a centinaia di mafiosi.
Per esempio, anche grazie alle pressioni della Chiesa, fu sostituito il capo del DAP, Amato, col più "mite" Capriotti

Un caso? Un caso anche il fatto che dopo il mancato attentato all'Olimpico del 1994 non scoppiarono altre bombe?
E nessuno sentì parlare più delle leghe del sud, un progetto politico che aveva dietro mafia e massoneria?

C'è ancora molto da spiegare e chiarire: il debito con gli italiani e in special modo con le vittime della mafia è ancora da ripagare.

Marco Lillo sul Fatto Quotidiano:

I magistrati di Reggio Calabria contestano a Giuseppe Graviano anche il duplice omicidio di due carabinieri avvenuto il 18 gennaio 1994 nell’ambito della stessa strategia. Gli obiettivi erano quindi i Carabinieri, la Chiesa e un uomo Fininvest. L’ex pm della Trattativa, Antonio Ingroia, ora avvocato e difensore dei familiari dei carabinieri uccisi in Calabria nota: “Almeno uno dei possibili destinatari di questi messaggi, Silvio Berlusconi, era pienamente in grado di capire questo linguaggio. Lo dimostra la celebre telefonata con Dell’Utri del 1986. Quando c’è un attentato agli uffici Fininvest di via Rovani a Milano, Berlusconi – spiega Ingroia – è convinto che sia stato Vittorio Mangano e dice a Marcello Dell’Utri al telefono che un altro avrebbe usato una raccomandata mentre Mangano usava la polvere da sparo”.

26 luglio 2018

Tutto torna: il primo caso del bandito Mazzacani – Leonardo Palmisano



Incipit
Due settimane prima La pioggia s’inchiodava al parabrezza dell’Audi Q7 nera. I tergicristalli assecondavano il ritmo del temporale, senza riuscire davvero a pulire gli sputi di sabbia sahariana mista ad acqua che cadevano dal cielo. Sul sedile posteriore Antonio De Guido – meglio noto come Zì Nino o più semplicemente Nino – giocava a briscola online contro un avversario sconosciuto, accarezzando la piccola testa bruna di Maria, la sua unica nipote.

No, non avete capito male: il personaggio che in questo romanzo ha il compito dell'investigatore è proprio un bandito: “Carlo Mazzacani – quarantacinque anni, un metro e ottanta di muscoli un poco appassiti”.
Un bandito che una volta aveva una sua banda, la banda dei Santi, criminali ma non mafiosi, ben diversi dai santisti pugliesi della Sacra Corona Unita, a cui aveva fatto perfino concorrenza, fino al giorno in cui il suo braccio destro non era stato ucciso in uno scontro a fuoco, chiudendo definitivamente la loro storia.

Ora che è scampato alla morte e al carcere (grazie alla collaborazione col capo della DIA, il commissario Curiale), come ricordo di quel periodo si è lasciato i baffi lunghi.

..la cupola della complicata architettura sacrista, erano in agitazione da un paio di mesi. Da quando Vito Pennetta, ’nu strunzu di Brindisi, si era messo in testa di entrare nella consorteria forzando la serratura.

Ma il periodo di pace per Mazzacani, per gli equilibri all'interno commissione e con gli altri gruppi criminali, sono destinato a finire.
La nipote del boss Antonio De Guido viene rapita mentre è in macchina col nonno: chi si è potuto permettere un gesto del genere? E' un tentativo di intimidirlo e di compromettere la sua immagine di capo supremo?
Settimane prima era stato ritrovato il corpo (senza testa) di un suo prestanome nella provincia di Brindisi: un omicidio che portava la firma proprio di un killer della vecchia banda dei Santi.

A mettersi sulle tracce della bambina rapita non c'è solo il vecchio boss, zi Nino, ma si muove anche l'ambiguo commissario Curiale, un poliziotto con forti agganci dentro il ministero dell'Interno che tutti i successi in carriera, che costringe Mazzacani ad indagare nel mondo della criminalità, mettendo pure a rischio la sua pelle.
Tutto torna: torna il momento di rimettersi in azione, prima che qualcuno non lo faccia diventare comodo capro espiatorio per il rapimento e la morte del boss Palano (il senza testa).
E per scoprire cosa sta dietro questi movimenti in commissione e il rapimento, Mazzacani chiede l'aiuto del suo ex compare nella banda, Luigi Mascione, “il gigante”.

Si guardarono. Erano i superstiti di una grande banda di rapinatori. Due morti viventi tenuti sotto chiave dalla polizia e dalla mala.

Dentro la commissione sacrista, un organismo simile a quello che esisteva per la mafia siciliana, i vecchi e consolidati equilibri che vedevano i De Guido egemoni alla guida delle famiglie sono ora in crisi: la colpa sono le ambizioni del giovane boss Pennetta, che non solo vorrebbe entrare nell'elite mafiosa ma vorrebbe prendere anche il posto di Zi Nino. E forse è proprio lui ad essere coinvolto proprio in quel rapimento.
E non solo: dietro queste tensioni tra le famiglie c'è un nuovo business che sta partendo, la coltivazione della Marijuana da parte dello Stato per produrre un farmaco di nuova concezione, il Cansativ.
La droga verrebbe coltivata su campi di proprietà delle famiglie mafiose sotto il controllo dell'esercito, per essere sintetizzata in laboratori chimici vicini ad un politico che a Roma sta portando avanti il progetto. Oltre ai politici a Roma (rispettivamente del governo e dell'opposizione), in questo affare sono coinvolti anche i vertici militari con la benedizione della 'ndrangheta (che sul business della droga di Stato ha la vista lunga, come dicono le cronache recenti).

L’ammiraglio chiuse il fascicolo. “Di che si tratta?” “Mi sta chiedendo di violare il segreto militare, ammiraglio.” “Come suo superiore glielo domando.” “In tal caso… si tratta di una sostanza derivata dalla marijuana.”
L'utilizzo ufficiale del farmaco fa solo da paravento per il vero fine che hanno in mente questi personaggi, che intendono in realtà vendere la droga di stato ai libici, sfruttando le missioni di ricognizione nel Mediterraneo.

A quale scopo?” 
“Non lo ha ancora capito, ammiraglio? Il farmaco sarà testato a bordo.” 
L’ammiraglio sgranò gli occhi. “Sui migranti?”.

È un gioco in cui tutti mentono, fanno il doppio gioco e dove sono pronti a tradire pur di raggiungere i loro fini. Un gioco criminale in cui ci sono i mafiosi senza regole, avidi di potere e poi vecchi banditi come Mazzacani (che ricorda i vecchi banditi della serie dell'Alligatore di Carlotto) il gigante.
Due cattivi che ora si trovano schiacciati in mezzo tra la polizia e il vecchio boss De Guido
Il capomafia diede un calcio alla sabbia, che si sparse verso il canneto. “Ti salvo la vita se ritrovi mia nipote”, disse all’improvviso. Mazzacani ebbe un sussulto.Se la trovo, tutto si deve azzerare. Voglio essere lasciato in pace per sempre.” Nino De Guido si prese del tempo prima di accettare. “Va bueno.” Carlo Mazzacani

E i buoni che fine han fatto in questo romanzo?
Sulle tracce di Mazzacani, zi Nino e degli altri boss si muove anche la procuratrice Buonamica, a capo della DRAP, la direzione antimafia regionale:
Teresa Buonamica aveva sgobbato sui libri per diventare un buon magistrato. Aveva sgomitato e si era fatta valere col sudore. La vita umile l’aveva portata a intuire i pregi e i difetti dei delinquenti che aveva incontrato sulla sua strada. Mazzacani era forse il più singolare.

Tra il poliziotto Curiale di cui comprende i rapporti con la criminalità, dove finisce l'infiltrazione nelle bande e la collaborazione, e il bandito Mazzacani, la procuratrice arriva a fidarsi più del bandito, comprendendone la sua capacità di sapersi trasformare, da contrabbandiere a rapinatore ad informatore suo malgrado della polizia.

“Tutto torna” è un noir durissimo, non solo per la violenza di cui sono capaci le mafie (non solo la sacra corona, ma anche la Camorra, la ndrangheta calabrese, la mafia albanese) e che in questo romanzo non ci viene risparmiata. E che non viene risparmiata nemmeno alle persone più indifese come i bambini.
È duro perfino il dialetto usato dai personaggi, che ricorda molto l'albanese parlato dall'altra sponda dell'Adriatico.
È duro per l'intreccio del male, per l'assenza di qualsiasi morale, di qualsiasi scrupolo che emerge dal racconto: l'egemonia della ndrangheta e la sua pericolosa capacità di avvicinare la politica per comprarsi pezzi dello Stato.
E' duro per la sensazione di abbandono che emerge dalle pagine del libro, per chi vive in queste regioni, dove la giustizia e il rispetto delle leggi sono ogni giorno messe in discussione.
Non solo per il piombo dei banditi e il loro senso di impunità.
Tra i luoghi in cui si svolge l'azione (e che l'autore mostra in una cartina ad inizio libro, chiamandoli i “luoghi di Mazzacani”) c'è anche la povera Taranto, il quartiere Tamburi ammorbato dai veleni dell'Ilva:

Mazzacani capì col naso di essere nei pressi di Taranto. L’odore di gomma bruciata che l’Ilva spandeva sull’ultimo tratto di statale era inconfondibile.

Tutto torna.
E tornerà a trovarci anche il bandito Mazzacani, che non è né un eroe né un buono. Personaggio inventato, ma non troppo, dall'autore Leonardo Palmisano, giornalista esperto di mafie, di migranti, di trafficanti che in questo romanzo ha voluto raccontare tutto quello che ha visto nella sua professione.

La scheda del libro sul sito di Fandango
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

La Grecia brucia

La Grecia brucia, questa volta non metaforicamente sotto i colpi della Troika e della medicina austerity.
Brucia la regione dell'Attica (la regione del commissario Markaris), in un rogo che divora case, boschi e persone.
Un rogo che mette in luce, questa volta metaforicamente, cosa significhi nella vita reale, questa ricetta chiamata austerity.
Ovvero la riduzione della spesa pubblica che i medici a Bruxelles (e a Parigi o Monaco) ritengono improduttive, come quelle per la protezione civile e per i vigili del fuoco.
Ricordiamolo ancora: la Grecia aveva truccato i conti anche grazie all'ausilio di istituti finanziari e delle agenzie di rating.
E se i conti erano sballati non era solo per i privilegi dati ad alcune categorie (la Chiesa, gli armatori, qualcosina agli statali), ma anche per le mazzette pagate per comprarsi gli armamenti dagli altri paesi europei.
Quelli che ora inviano i Canadair per spegnere i roghi.
Quanta ipocrisia in questa Europa, che rischiava di affondare sotto i debiti greci (questo si scriveva e si scrive), ma non si preoccupa affatto della destra xenofoba e molto pericolosa che sta coltivando grazie a queste ricette economiche (e sociali).

Qui un articolo dove si parla dei tagli al settore dei Vigili.

25 luglio 2018

I simboli

In un periodo in cui c'è scarsezza di idee e di principi, ci si aggrappa ai simboli.
Il simbolo Marchionne (simbolo del nuovo, da contrapporre al vecchio cioè sindacati, tutele, contratti nazionali).
Il simbolo euro/no euro, su cui (o contro cui) scaricare tutti i problemi.
L' immigrato che invade i nostri paesi magari con le unghie smaltate e che ha preso il posto dei terroni (non si affitta ai meridionali, oggi evoluto in un non si affitta agli stranieri).
Il crocifisso, da usare come simbolo per dividere il mondo in noi e loro, mandando al macero concetti come laicità, dare a Cesare ciò che è di Cesare e via discorrendo.

Gilioli: il crocifisso e la polenta
Nell’estate 2018 insomma anche la croce è diventata oggetto di rivalsa nazionalista («una tradizione italiana»: e se non la vuoi, vai via).Curioso però: durante una recente lezione su De Gasperi ai Lincei il capo dei vescovi italiani Gualtiero Bassetti ha parlato del rapporto tra fede e politica dicendo che quest’ultima «non deve mai strumentalizzare i simboli religiosi come amuleti identitari».Ecco: credenti e no, forse potremmo convenire che il crocifisso non è come la polenta concia o la sagra del quartuccio fritto.
Parafrasando quello che diceva Manzoni (riferendosi a Don Abbondio), quando non hai una tua identità, perché valori e principi scarseggiano, non è che la puoi dare da solo...

23 luglio 2018

Modelli di successo (prima o poi tocca tutto)

Prima verranno spostati gli operai.
Poi alcuni servizi della logistica o dei call canter (delocalizzati in Romania).
Poi i servizi dell'informatica (delocalizzati in India). 
E alla fine, inizieranno a toccare anche impieghi che una volta si consideravano privilegiati.
Come i piloti di aerei che, se vanno in sciopero, saranno sostituiti da altri piloti, polacchi, meno esigenti.

Ryanair ha intenzione di chiamare equipaggi polacchi e tedeschi per rimpiazzare i dipendenti che sciopereranno tra Belgio, Portogallo e Spagna, mercoledì e giovedì prossimi. A denunciarlo è il sindacato belga CNE che chiede alle autorità di Bruxelles di verificare la legalità dell’operazione messa in atto dal vettore low cost per contrastare la protesta indetta dal personale personale navigante di cabina e dal personale a terra.
E la deregulation nel mondo del lavoro, una malattia che prima o poi colpisce tutti.
Non credetevi immuni.
Poi toccherà ai giornalisti (che già oggi sono sostituiti da free lance o giornalisti a cottimo).
Avvocati.
Medici (forse).
E magari un giorno anche i politici saranno sostituiti da politici low cost..

Quando si parla di modelli di business di successo si parla anche di questo.

Sulla vicenda Marchionne e sul mondo del lavoro in generale

Anche sui commenti della vicenda (putroppo) capitata all'ex AD della FCA Sergio Marchionne, ci siamo divisi in tifo.
Marchionne quello che ha salvato la FIAT, portandola fuori dalla crisi e dai debiti.
Il manager che ha rivoluzionato i rapporti col sindacato, che ha cambiato il volto alla Fiat, che la portata nel mondo.
Sul TG1 veniva perfino presentato come il manager dal volto umano.

E, dall'altra parte, quanti hanno approfittato del momento per augurare il peggio ad una persona di cui, all'improvviso, si è capito che non sarebbe più tornato quello di prima.
Molti commenti, post, tweet mi sono sembrati peggio di un necrologio, decisamente fuori luogo.

Il cambio al vertice di FCA dovrebbe farci riflettere su quello che potrebbe succedere negli stabilimenti italiani della Fiat (che è quello che interessa veramente, in termini di occupazione e indotto).
Svaniti gli investimenti miliardari del piano Italia, svanito il miraggio della piena occupazione, ancora da venire i nuovi modelli (magari con nuovi motori), che ne sarà di Mirafiori, Pomigliano (la Fiat aveva deciso di spostare la Panda in Polonia), Melfi, Cassino?

Certo, possiamo ancora riempirci la bocca con l'internazionalizzazione, coi posti di lavoro creati (per modo di dire, visto che gli stabilimenti vuoti non hanno ragione d'esistere), con la Fiat salvata (che è quello per cui viene pagato, e bene, un executive manager).
Ma poi, alla fine, dobbiamo fare i conti con la realtà.
La cassa integrazione, i turni sfiancanti, l'incertezza del futuro.

Lo stesso ragionamento va riportato sulle leggi del lavoro, di cui il jobs act è solo l'ultimo anello.
Se ci affidiamo ai sondaggi (quello del Corriere ad esempio), il 30% lo stravolgerebbe e il 43% lo cambierebbe senza eliminarlo.
Se ci affidiamo al mondo reale, tutte le riforme pensate sul lavoro hanno solo gonfiato numeri portando ad una ripresa che ha toccato la sostanza delle persone.


Roberta Carlini, Espresso del 22 luglio

Come ha scritto su l'Espresso Roberta Carlini, la maggiore occupazione è legata a lavori a bassa qualità.

Con una sinistra che si è arroccata in una guerra di posizione sui dati dell'Istat lasciando al M5S il tema della precarietà, senza nemmeno vedere se nel decreto dignità ci fosse qualcosa di buono.

22 luglio 2018

Sbirre, di Massimo Carlotto, Giancarlo De Cataldo e Maurizio De Giovanni


Tre tra i principali autori del noir italiano si cimentano in un racconto che ha come protagonista tre donne, o meglio, tre poliziotte molto diverse tra loro che però, in un certo momento della loro esistenza, si trovano di fronte ad una scelta. Una scelta che sarà di vendetta nei confronti di coloro che le hanno portate in quella situazione: non ci troviamo di fronte a delle eroine, ma tre donne che amano o hanno amato, che hanno creduto nella divisa ma che ora la divisa le ha lasciato quel senso di delusione. Sbirre che però non dimenticano il torto subito e che sapranno odiare e vendicarsi-

Anna – Senza sapere quando di Massimo Carlotto

Anna arrivava sempre per prima. Voleva prendersi il tempo di un bagno caldo, per avere la mente libera da pensieri e preoccupazioni, quando lui avrebbe aperto la porta. Una volta ogni tre settimane saltava nel vuoto con quell’uomo che le si era conficcato nella mente e nel ventre. L’amore non c’entrava nulla. Lei lo riservava con qualche perplessità al marito, che la credeva al lavoro. Non erano solo amanti: erano complici. Anche nel sesso. Scopavano e bevevano. Bevevano e scopavano fino a stordirsi. Poi per ventuno giorni filati non sentivano il bisogno di parlarsi, vedersi, sfiorarsi. Era sempre stato così, fin dall’inizio, fin da quando lei lo aveva baciato a tradimento. Aveva voglia di un uomo e quello che l’aveva condotta all’altare non era a portata di mano. Ma, soprattutto, aveva smesso di essere un compagno di letto interessante. Lui l’aveva guardata e aveva sorriso. “Sei sicura che sia una buona idea?” aveva chiesto con quell’inconfondibile parlata del confine.

Il vicequestore Anna Santarossa ha oltrepassato da tempo il confine che separa ciò che è lecito da ciò che non lo è: da quando ha iniziato a vendere informazioni alla mafia russa, in combutta con un poliziotto di confine che è anche il suo amante.
Ecco, quel confine, che non è solo metaforico, lo supererà del tutto, quando si troverà di mezzo tra la mafia russa, che la considera una sua proprietà e gli ex colleghi, per cui cui Anna è solo una mela marcia che può anche morire. Non prima di averli condotti dal capo della banda mafiosa, che si nasconde a Roma.
Sarà proprio in quel confine, in quella zona tra legge e crimine, in quella zona geografica al confine con l'Italia dove vige una legge tutta diversa, che l'aiuterà a salvare la pelle.
«Lei aveva una carriera e un marito. Un buon tenore di vita, e un futuro destinato a soddisfazioni e delusioni come succede alla maggior parte delle persone che vivono un'esistenza scontata.Invece è venuta a cercare emozioni forti nel posto peggiore: la frontiera. Che da queste parti è doppia, quindi ancora più infida. E ora è precipitata in un abisso da cui dubito riuscirà a venir fuori .. »

Alba - La triade oscura di Giancarlo De Cataldo
Mi chiamo Sergio, ho sedici anni e sto per uccidere i miei genitori”. 
Un uomo e una donna sedevano davanti allo schermo di un computer sul quale si stagliavano il viso di un adolescente come tanti. Si trovavano in un ufficio d'angolo della Direzione Investigativa della polizia di Stato, in un palazzo arioso a vetri nel quartiere dell'Eur. Era una sera di fine marzo.L'uomo, un cinquantenne sovrappeso dagli occhi iniettati di sangue, si chiamava Paolo Petti ed era titolare dell'indagine.La donna non aveva ancora raggiunto i trenta, indossava un tailleur grigio, con una camicetta bianca e gonna al ginocchio ..

Chi sono gli haters, gli odiatori seriali che sfogano la loro rabbia, le loro frustrazioni in rete, contro quella persona, categoria di persone?
E cosa spinge alcuni adolescenti, forse i più fragili, a compiere azioni estreme, mettendo a rischio la loro vita o quella di persone accanto.
Cosa si nasconde nel web o, sotto la punta dell'iceberg, nel dark web?
Lo scoprirà Alba Doria, commissario di polizia, seguendo un'indagine tutta sua, non autorizzata dal suo capo, il dottor Petti. Uno di quei dirigenti presuntuosi che considerano le colleghe giovani come prede con cui provarci.
Paolo Petti fissava Alba con una strana intensità. C’era qualcosa di rapace nello sguardo del vicequestore. Era noto per il pessimo carattere. Ma aveva più arresti all’attivo lui dell’intera Mobile romana. Sul suo conto circolavano voci contrapposte. C’era chi lo considerava una sorta di mito della Omicidi. E chi un corrotto e un pezzo di merda. Alba non aveva ancora deciso, ma cominciava a propendere per la seconda ipotesi.”

Un'indagine che la porterà a scoprire, mettendo a rischio una carriera, un mondo di persone che si ritrovano attorno ad un forum e governato da un'entità misteriosa chiamata il maestro. Persone che odiano: che odiano non solo per insultare una persona.
Alba dovrà immergersi, nonostante i moniti del capo, dentro il dark web (vi ricordate la leggenda del Blue Whale?), alla ricerca di un falco nero e dell'identità di questo maestro.
Prima che spinga all'omicidio qualche altra persona.

Perché l'odio è una cosa seria.Odiare è un'arte.Lui sì che ne era capace. 
E come chiunque, anche nell'odio aveva delle preferenze. 
Odiava le donne. Puttane che quando gli conviene ti seguono ovunque con quegli occhi da cane umido e fedele, ma appena hai un momento di crisi, allora non vali più un cazzo. 

Odiava i politici. I magistrati. I sindacalisti. categorie che il suo furore accomunava in erbaccia con cui comporre fascine da bruciare su roghi non per forza simbolici ..
 
Odiava gli stranieri. La categoria comprendeva gente dell'est e dell'ovest, arabi e russi, gialli e neri, rossi e marroni ..

Ma Alba scoprirà quanto è dolce il sapore dell'odio sulle labbra.

Sara – Sara che aspetta di Maurizio De Giovanni
Rannicchiata nella macchina, ascoltando le folate improvvise di vento gelido che si infrangono sulle poche auto in transito lungo la strada, Sara aspetta.È quello che le riesce meglio. È stato il suo lavoro per tanti anni, aspettare con pazienza, non lasciarsi sommergere dall'onda lunga della fretta, non anticipare gli eventi per non smarrire l'obiettività dell'analisi. Freddezza, imperturbabilità, distacco.

Sara che aspetta è il prequel del romanzo “Sara al tramonto”: l'ex dirigente di quella branca dei servizio, che formalmente nemmeno esisteva, che si occupava di intercettare le persone. Sara con la sua capacità di interpretare i segnali della mimica facciale delle persone, i sussurri colti da lontano.
Sara che aveva abbandonato marito e figlio, a pochi anni, per l'amore della sua vita. L'amore vero, quel sentimento che arriva una sola volta nella vita e per qualcuno mai.
Quel sentimento che ti fa riconoscere nell'altro la persona che stavi aspettando.
Nel caso di Sara, il suo responsabile in questa unità dei servizi.

Ora in pensione, si ritrova davanti al corpo del figlio, che non vedeva da anni, morto investito da un auto. Un incidente fortuito, l'investitore non si da pace, l'ha visto all'ultimo momento, sembrava che volesse buttarsi sotto la macchina..
Ma Sara Morozzi ha bisogno di capire, anche andando incontro ad altro dolore: incontrare la compagna del figlio da cui aspettava un figlio. Tanto gelida la madre,quanto disponibile ad ascoltarla, Viola, la figlia. Quella ragazza che ora la sta facendo diventare nonna.
A lei spiega il perché di quell'abbandono. Il significato dell'amore:

«Hai detto che sei innamorata. Che significa?»Sara rivide davanti agli occhi Massimiliano. Non com'era alla fine, nel letto dell'ospedale, rinsecchito e annichilito dalla malattia, quando aveva sentito defluire la vita dalla mano che gli stringeva, ma quando lo aveva incontrato per la prima volta, seduto sulla scrivania, in mezzo a tre assistenti, che sollevava gli occhi su di lei e con un gesto lento si toglieva gli occhiali per guardarla meglio.«Significa che certe passioni,se si ha la fortuna di provarle,si riconoscono. E che si può scegliere se essere sinceri e seguirle alla luce del sole,o vigliacchi e consumarle in segreto. Ma a quelle passioni è impossibile rinunciare.»

Unendo i punti alle linee, Sara ricostruisce gli ultimi anni della vita del figlio, brillante ricercatore chimico, con qualche segreto. Tutto sembra un incidente, ma Sara è sempre una poliziotta che non crede alla fatalità.
E alla fine si trasformerà anche lei, come Anna prima e Alba poi, in una sorta di giustiziere, in un mondo che assomiglia, troppo, ad un moderno far west.

La scheda del libro sul sito dell'editore Rizzoli
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

21 luglio 2018

Genova 2001 – Italia 2018


Ci sono voluti anni per riuscire ad avere un minimo di giustizia per i fatti di Genova: l'irruzione dellapolizia alla Diaz, la macelleria messicana e poi la più grave sospensione dei diritti umani per le persone (persone, non sottouomini o zecche comuniste) che hanno avuto la sfortuna di finire imprigionati a Bolzaneto.
I responsabili di quelle violazioni dei diritti umani hanno continuato a far carriera, godendo di una sorta di protezione politica.

La sentenza di condanna è stata accolta da molti come un'infamia nei confronti di così solerti servitori dello Stato. Poliziotti che avevano arrestato mafiosi e che, si in effetti, avevano fabbricato prove false, non avevano impedito quelle violenze (non so se siete riusciti a vedere il film di Vicari, Diaz).

Sono passati tanti anni e ancora Carlo Giuliani è rimasto fermo in quello scatto: quell'immagine che lo ritrae con un mano un estintore vuoto, mentre si avvicina ad una jeep dei carabinieri a cui altre persone stanno dando l'assalto.
Brutto destino quello di Carlo: rimasto imprigionato in quello scatto. Stava aggredendo i carabinieri, voleva fare violenza.
Non era un eroe ...

No, Carlo Giuliani non era un eroe, in effetti. Era solo un ragazzo che si trovato di mezzo ad una profonda ingiustizia, le cariche, i black bloc che non venivano fermati.
Ed era così pericoloso che è stato ucciso, legittima difesa dirà il tribunale e alla fine quella jeep preda dei barbari gli è pure passata sopra.

Era il 20 luglio 2001. Il mondo non aveva conosciuto ancora l'11 settembre.
Ma avevamo visto quelle immagini di una città in balia dei black bloc, imperturbabili e inarrestabili.
Colpivano e poi scappavano.
E la polizia a manganellare, le persone sbagliate.
Nel 2001 eravamo ancora in tempo a cercare di mettere un argine alla globalizzazione per cercare di arrivare ad un mondo diverso.
Quelle violenze hanno impedito ogni discussione, ogni dibattito.

Per la cronaca, quella jeep non era isolata e faceva parte di un battaglione di carabinieri che aveva colpito il corteo in modo non autorizzato, anzi, in un modo tale da mettere a rischio l'incolumità delle persone.

Sono passati anni e non siamo andati molto avanti.
Nessun segno distintivo per i poliziotti.
Il reato di tortura è stato molto annacquato e ora l'attuale governo potrebbe perfino toglierlo.
Il governo che vuole dare mano libera ai poliziotti. Ai cittadini per armarsi.

Una regressione. E di certo non ci renderà più sicuri.

20 luglio 2018

Mancano i contratti? Diamogli i voucher

In uno dei tanti talk di questi giorni, dove si parlava del decreto dignità, Sallusti cercava di convincere Landini della bontà dei voucher perché, se uno deve assumere una persona ad  1 giorno, non ha altri strumenti.
O meglio, ci sono altre forme di contratto, ma c'è troppa burocrazia.
Landini a questo punto è sbottato: "mi sono rotto .. se vi piacciono tanto i voucher iniziamo a pagare coi voucher i parlamentari".

Demagogia? Populismo?
Forse.
Certo che sul lavoro, sui numero del lavoro, c'è troppa voluta confusione.
Al decreto dignità è imputato il calo dei contratti, a causa delle modifiche sul rinnovo dei contratti a termine: ma a questo punto, se l'obiettivo è migliorare un numero, i contratti attivati in meno, possiamo fare contratti ad un mese ed è fatta.

Il deja vu sulle nomine

In Rai, a capo della Vigilanza, hanno messo un ex cronista del gruppo di Berlusconi (Barachini).
Dentro il CSM l'avvocato di Berlusconi Michele Cerabona, che ha seguito il processo per la compravendita dei senatori e il professor Alessio Lanzi, che è stato avvocato di Fedele Confalonieri e di David Mills. 
Oltre all'avvocato della Lega Stefano Cavanna che sta difendendo il partito di Salvini per la storia dei 49 ml di euro (di cui la Cassazione ha chiesto il sequestro).
Un renziano anche nel CSM (Ermini), uno al Copasir (Guerini) e un altro (Giachetti) alla giunta per le elezioni.Gasparri è stato ricompensato con il posto nella giunta per le Autorizzazioni e le immunità di Palazzo Madama.

Il M5S ha scelto i suoi tramite un voto (sulla piattaforma gestita da un privato) Alberto Maria Benedetti, dalla stessa università di Conte.

Antonello Massari spiega invece il "who's who" nella prossima nomina dentro la Consulta:

Per quanto riguarda l’elezione del giudice costituzionale, la Consulta aspettava da novembre 2016 quando, per motivi di salute, si dimise Giuseppe Frigo, eletto in quota Pdl. Adesso arriverà Antonini, sostenitore del referendum di Veneto e Lombardia del 22 ottobre scorso. Ex consulente di Giulio Tremonti e di Roberto Calderoli, ha buoni rapporti non solo con gli ex ministri leghisti ma anche con Gianni Letta e Maurizio Lupi. Ha presieduto la Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale (Copaff). Per il ministro Calderoli ha redatto il decreto delegato sul federalismo fiscale. Portano la sua firma anche gli altri provvedimenti in materia di federalismo del governo Berlusconi.

Non volevano fare il governo assieme al m5s i #senzadime, ma ci troviamo di fronte la solita spartizione dove si conferma il patto del nazareno PD e FI.
E il merito? Le facce nuove? 

19 luglio 2018

Verità di comodo

C'e la vulgata generale che dice che non possiamo più permetterci il posto fisso, che viva la flessibilità.
Che nemmeno possiamo toccare la Fornero (giusto o sbagliato che sia) perché il costo delle pensioni non sarà più sostenibile.
E che nemmeno l'accoglienza (non l'invasione) ci possiamo permettere, perché rubano e costano. Prima gli italiani.

Eppure ci possiamo permettere la corruzione nelle opere pubbliche (l'ultima retata, quella sulla metro C a Roma).
Gli investimenti della CDP dentro Tim, per non non si capisce quale fine (aiutare Elliot)?
Sugli immigrati, poi, va ricordato quanto emerso dal report della DIA: i clandestini servono per prima cosa alle mafie.

Sempre a proposito di verità di comodo, ci siamo accontentati di non vederli più morire in mare: scrive in proposito Alessandro Gilioli

Alla fine, quindi, è solo questione di intenderci.
Se ce ne fottiamo della morte per povertà o per guerra di centinaia di migliaia di persone (perché tanto sono cose che avvengono più lontano da noi, rispetto al Canale di Sicilia) va benissimo l'argomentazione Salvini-Conte: meno navi partono, meno persone muoiono; che bisognerebbe solo integrare con una postilla: meno navi partono, meno persone muoiono qui vicino, anche se ne muoiono altrettante o di più nei luoghi da cui volevano partire.

Il debito di verità con le vittime della mafia

«La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità»Paolo Borsellino, 23 giugno 1992

Scrive Lirio Abbate, un giornalista che conosce bene la mafia, che questo paese ha un debito di verità con le vittime di via D'Amelio.
Col giudice Paolo Borsellino, con gli uomini della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna a far parte di una scorta e anche prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Persone che sono morte cercando di proteggere il giudice più esposto, nella lotta alla mafia, che non aveva rinunciato a fare il suo dovere nemmeno dopo la morte del collega ed amico Giovanni Falcone.

Per un senso di rispetto nei confronti delle istituzioni, per un senso di rispetto nei confronti dei cittadini che vedevano, nel pool antimafia una difesa nei confronti del potere criminale della mafia.
Quel potere che sembrava imbattibile per i suoi legami con la politica, con la finanza, con pezzi della magistratura perfino con pezzi del mondo ecclesiatico.

La morte di Paolo Borsellino è uno dei misteri italiani su cui solo ora che stiamo cominciamo ad avere maggiori dettagli.
Quella strage voluta dalla mafia a soli 58 giorni da Capaci: perché quella fretta, perché ancora una bomba?
Non si aspettava la mafia, Riina e i corleonesi, che lo stato a quel punto avrebbe dovuto dare una risposta?
Perché dopo via D'Amelio fu approvato il decreto Falcone in fretta e furia, una serie di norma contro la mafia che aveva dentro anche il trasferimento dei mafiosi nelle super carceri.

Forse che quella bomba serviva ad altro? A forzare la mano allo stato da una parte (come voleva Riina), a creare nel paese il clima di paura, sfiducia nelle istituzioni, preparare il terreno per una nuova fase politica, per far fuori tutto il vecchio. Ii vecchi partiti screditati da Mani Pulite e inutili dopo il crollo del Muro di Berlino, i corleonesi, ormai depositari di tanti, troppi segreti?
Dietrologie, complotti.
Forse, ma i depistaggi sui responsabili della bomba di via D'Amelio sono reali: Scarantino, il finto pentito imboccato da La Barbera (uomo dello stato) e dalla sua squadra non è un'invenzione.
E non è un'invenzione nemmeno le trattative tra una parte dello stato e la mafia.
La prima con Ciancimino e De Donno, la seconda con Dell'Utri. Il futuro politico fondatore di Forza Italia.

Si è affermata una verità di comodo, sulla stagione stragistica della mafia del 1992 - 1993.
Una verità di comodo che non andava a rispondere a tutti i perché, ma che era comoda: per alcuni politici che hanno passato quella stagione, per i mafiosi (che si sono presi le colpe).
Dobbiamo veramente crede che sia stato solo La Barbera ad architettare il depistaggio di Scarantino, con un teorema che ha resistito a tre gradi di giudizio  (fino a che è arrivato Spatuzza, a parlare anche di agenti dei servizi nel garage dive si preparava l'autobomba)?

Una verità che esclude i politici collusi con la mafia, la massoneria deviata, Gladio e gli ex gladiatori (dietro la sigla Falange Armata).
Una verità di comodo in cui in tanti hanno nascosto le loro colpe dietro le immagini degli eroi, le icone dell'antimafia da tirare fuori giusto nelle giornate della memoria e poi da tenere nel cassetto.
Come se la lotta alla mafia fosse una questione da eroi.
E non un problema che coinvolge tutto lo stato.

‘La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.’Giovanni Falcone

18 luglio 2018

Chi ha interesse ad avere i clandestini

Sta tutto scritto nel rapporto della DIA: di Roma e delle organizzazioni criminali in cui "si evidenziano sempre di più organizzazioni assimilabili al modus operandi di associazioni mafiose, come quelle in Sicilia, Calabria e Campania".

E del traffico di immigrati clandestini:
“Mafie stranieri puntano a traffico migranti”Per le organizzazioni criminali straniere in Italia “il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con tutta la sua scia di reati ‘satellite’, per le proporzioni raggiunte, e grazie ad uno scacchiere geo-politico in continua evoluzione, è oggi uno dei principali e più remunerativi business criminali, che troppe volte si coniuga tragicamente con la morte in mare di migranti, anche di tenera età”. Sono coinvolti “maghrebini, soprattutto libici e marocchini, nel trasporto di migranti dalle coste nordafricane verso le coste siciliane”.

Ecco chi sono le persone interessate a che gli immigrati arrivino in Italia senza garanzie, tutele, da "clandestini".

Le sterili discussioni

E' venuto prima l'uomo o la gallina?
Le persone muoiono in mare per colpa delle ONG o degli scafisti?

Il confronto non è una mancanza di rispetto per i morti ma un modo per evitare di continuare le inutili discussioni su ong si o no, su inutili proposte di blocchi navali o altro.
Quello che conta è capire come mai le persone morivano prima, quando c'era una missione navale europea per il soccorso, hanno continuato a morire quando le imbarcazioni militare si sono ritirate e sono subentrate le ong e perché le persone continuano a morire oggi.

Quelli che accusano le ong di essere un "pull factor" che invoglia le partenze, annullando i rischi per i trafficanti (che poi sarebbe la prova della loro fattuale collaborazione con gli scafisti), cosa stanno facendo per contrastare il traffico di uomini?
Cosa sta facendo il nostro governo, cosa sta facendo il goveno libico (o i governi)?
Trasformare la questione migranti in un tifo pro o contro (e i tweet e le annunciate querele) servirà solo ad avvelenare il clima e a strappare qualche like a breve termine.

E a nascondere altri problemi che pure sono legati al tema della sicurezza.
Le ecomafie (e i roghi dei centri di stoccaggio rifiuti), le mafie e la loro presenza nelle città, i depistaggi di Stato sulla strage di via D'Amelio dove furono ucciso il giudice Borsellino e la sua scorta, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

17 luglio 2018

La settimana dei veti incrociati

Siamo arrivati alla settimana dei veti incrociati, per l'assegnazione delle poltrone nelle commissioni di garanzia e poi per le poltrone dentro le società pubbliche (CDP, Rai).

Il governo del cambiamento punterà a delle nomine indipendenti, di persone competenti?
Dai nomi che circolano e dai veti incrociati, parrebbe di no.

Ne parlano Stefano Feltri e Carlo Tecce sul Fatto Quotidiano

Veti incrociati Lega-M5S sulle nomine Rai e 007Scontro su quali poltrone vanno lasciate all’opposizione di Forza Italia e Pd
La lunga settimana delle poltrone si apre con l’indicazione dei rappresentanti del Partito democratico e di Forza Italia per le commissioni parlamentari di garanzia, preludio alle scelte del governo sul Consiglio d’amministrazione Rai e Cassa depositi e prestiti. Può sembrare il segnale di un accordo tra la maggioranza e le opposizione per nominare i presidenti della Vigilanza Rai e dell’influente Copasir, il comitato parlamentare che sorveglia i servizi segreti.In realtà è soltanto il prologo di uno scontro politico ancora pulsante che si può concludere in due modi: o Cinque Stelle e Lega si dividono sul tema delle poltrone oppure si blocca tutto. Perché resistono due veti. Quello dei leghisti per non assegnare il Copasir a un rappresentante dem, nello specifico al renziano Lorenzo Guerini. Quello dei pentastellati che rifiutano l’ipotesi di consegnare la vigilanza a Maurizio Gasparri di Forza Italia, il senatore emblema del conflitto di interessi di Silvio Berlusconi e firmatario da ministro di una legge che ha ingabbiato lo sviluppo televisivo in Italia.Siccome la questione riguarda i numeri e pure la politica, la soluzione costruita negli ultimi giorni colloca gli azionisti del governo gialloverde in posizioni differenti. Con la Lega che vota per Gasparri, ma non per Guerini e il Movimento che vota per Guerini, ma non per Gasparri.Il rapporto incrociato con le minoranze, sempre mercoledì, si ripropone per le elezione dei consiglieri di Viale Mazzini in Parlamento, due ciascuno tra Camera e Senato. A ogni gruppo spetta una preferenza, dunque per selezionare il secondo è obbligatorio un patto tra due gruppi: da largo del Nazareno, sede del Pd, sono pronti a condividere un nome con Forza Italia, ma i leghisti non sono disposti – in alcuna circostanza – ad aiutare i dem. Così appare assai complicato reperire la maggioranza dei due/terzi in Vigilanza necessaria per indicare il presidente del Cda Rai. Con una rottura sul pacchetto Rai e sul Copasir di mercoledì, immaginare una sintonia nel governo sugli amministratori delegati di Viale Mazzini e Cassa – appena venerdì – è inverosimile.Però le trattative non s’interrompono e i contatti tra i partiti sono costanti. I Cinque Stelle s’affidano al sottosegretario Stefano Buffagni, che gode della fiducia del vicepremier Luigi Di Maio e di Davide Casaleggio. Il dossier Rai lo segue anche il sottosegretario Vincenzo Spadafora, interlocutore privilegiato dei dem pure sul Copasir. I contatti del Movimento con i leghisti, invece, li cura l’onnipresente Buffagni. Quando si parla di Lega e di nomine ci si riferisce a Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e, in seconda battuta, Massimo Garavaglia. Il no del Carroccio al Copasir per Guerini può far saltare qualsiasi patto tra maggioranza e minoranza. Ancora ieri sera, un leghista molto ascoltato da Matteo Salvini, pronosticava lo slittamento totale delle nomine.A complicare tutto c’è la sostanziale paralisi del ministero del Tesoro, che è l’azionista di riferimento e il titolare formale dei poteri di nomina tanto per la Cassa Depositi e Prestiti quanto per i vertici della Rai, amministratore delegato e presidente (che verranno però scelti da Di Maio e Salvini). Le mosse del ministro Giovanni Tria risultano incomprensibili a molti: prima ha confermato quasi tutti gli uomini dello staff del predecessore Pier Carlo Padoan, incluso il capo di gabinetto Roberto Garofoli visto da Lega e M5S come espressione di vecchi assetti di potere da contestare. E ora, scaduti i termini per lo spoils system, sembra essersi pentito e ha deciso di affidare a un consigliere parlamentare, Fortunato Lambiase, la segreteria tecnica del ministero che pare destinata a gonfiarsi fino a oltre 20 persone e diventare una sorta di gabinetto parallelo. Con queste oscillazioni, Tria cerca di prendere tempo su tutto. E poiché la scelta dei vertici della Cassa Depositi e Prestiti (dovrebbe arrivare dalla Bei Dario Scannapieco) influenza quella del direttore generale del Tesoro (ai Cinque Stelle non piace Alessandro Rivera, c’è l’ipotesi di Stefano Scalera) anche a Tria va benissimo rinviare tutto. Fino a quando non si sa.