31 agosto 2018

Sempre che si voglia cambiare le cose

Crolla un ponte a Genova e la discussione verte per giorni sullo scontro tra statalisti e liberisti.
Il crollo viene usato per giorni come arma di scontro politico, dimenticandosi dei 43 morti.
Dimenticandosi che, anche se ci fosse stata la Gronda (ancora sulla carta), nulla ci avrebbe garantito sul crollo del ponte Morandi. Certo, avessimo la Gronda ora, avremmo meno problemi nella gestione del traffico da e verso Genova.
Ma finché rimaniamo fermi allo scontro tra tifosi tra chi è favorevole e chi è contrario alle grandi opere, non andremo lontano.
Perché ci sono opere che servono: per collegare regioni del paese altrimenti scoperte, perché con l'alta velocità ora muoversi nel paese è più semplice.
Ma non dobbiamo dimenticare che in questo paese grandi opere significa anche grandi scandali: il Mose ce lo ricordiamo ancora? E La Brebemi finanziata dallo Stato (mentre doveva essere interamente in carico al privato)?
Oppure il consorzio Cociv finito sotto indagine per l'inchiesta sul Terzo valico.

Ecco, ora anziché delle medaglie che Salvini si vuole appuntare al petto dovremmo occuparci del futuro di Genova, di rivedere il meccanismo delle concessioni (senza tirare in ballo lo spauracchio delle ideologie) e delle messe a gara. Le autostrade le gestisce il privato? Bene, che ci metta i soldi e che lo Stato controlli i lavori (senza fare regali sulle remunerazioni).
Non è questione di essere liberisti, ma di mettere a gara quello che lo Stato non sa o non riesce a gestire, in un sistema di libero mercato, non di monopoli nascosti, come è oggi.

Ecco, di questo dovremmo parlare, anziché di Macron, di un'Europa unita che non c'è (anche per colpa dei nostri europarlamentari) e di decreti sicurezza pensati per mettere una toppa ad un sistema di leggi stratificato negli anni.
Stratificato e pensato per gli interessi di pochi e non per gli interessi del paese.
Leggi fatte anche da governi in cui era presente la Lega.

Come la Bossi Fini, per esempio.
Comodo oggi prendersela con gli immigrati che rubano risorse, che commettono reati, che vengono scarcerati, che non si riesce ad espellere.
Lega e M5S non sono più all'opposizione ma governano e tocca a loro prendersi delle responsabilità ora.
Sempre che vogliano cambiare le cose.

30 agosto 2018

La strage dimenticata di Milano

12 aprile 1928, giorno dell'inaugurazione della Fiera di Milano: per l'occasione (è anche il decennale della vittoria nella Grande Guerra) sarà presente anche il re Vittorio Emanuele III.
Negli istanti in cui il re lascia la stazione centrale, scoppia una bomba vicino al basamento di ghisa di un lampione in piazza Giulio Cesare, nei pressi della fontana delle 4 stagioni.
Una strage che costa la vita a 16 persone (altre due persone moriranno nei giorni successivi), tra cui anche tre bambini: i funerali delle vittime riuniranno tutta la città, stretta attorno alle bare (come succederà anni dopo, per la strage di Piazza Fontana).
Una strage rossa, i cui responsabili vanno ricercati all'interno dei nemici del regime, così scrive Mussolini.
«Portate per me dei fiori sulle salme degli innocenti colpiti a morte dalle bestie della criminalità dell’antifascismo impotente e barbaro. Recate il mio saluto e il mio augurio a tutti i feriti. Sono sicuro che Milano fieramente fascista risponderà ai gesti della delinquenza superstite con un grido di più intensa fede nell’avvenire della Nazione e del Regime. I nemici non prevarranno». 
Il fratello dello scrittore Ignazio Silone,  Romolo Tranquilli, viene arrestato e interrogato duramente in carcere. Morirà pochi anni dopo, anche per le violenze subite.
Ancora ad oggi non si conoscono i nomi dei colpevoli: si sono seguite più piste, da quella anarchica a quella comunista a quella che portava ai membri di Giustizia e Libertà.
Oppure questa strage è collegata ad un altro episodio, i morti dentro la caserma della Milizia in via Mario Pagano?

il civico 8 di piazza Giulio Cesare

La fontana delle quattro stagioni

Sul sito I caduti della polizia di Stato si parla di strage scomparsa: in piazza Giulio Cesare, vicino al civico 18, non troverete alcuna targa in memoria.
Nemmeno del piccolo Enrico, morto a 3 anni.

Per questo dobbiamo essere grati a Luca Crovi che nel suo ultimo romanzo, L'ombra del campione, dedica una buona parte a questa strage.
La strage di piazza Giulio Cesare, l'altra strage, quella dimenticata.
Per chi ne volesse sapere di più consiglio la lettura di “Attentato alla Fiera” di Carlo Giacchin, Mursia 2009.

Finita la pacchia

Finita la pacchia della Diciotti (e delle altre navi bloccate in mare per prendersi qualche like in più), prima o poi verrà il momento di fare delle scelte serie (perché al momento di serio c'è veramente poco).

Per esempio, come ricostruiamo il ponte di Genova? 
Andiamo veramente a rivedere il sistema (generoso per il privato) delle concessioni, per inserire qualche controllo in più e qualche remunerazione garantita in meno?
Andiamo veramente a fare questa opera di messa in sicurezza del territorio (eh sì, perché anche questa è sicurezza, non solo i clandestini o i venditori di borse sulla spiaggia)?

E potremmo continuare su giustizia, su lotta al precariato..
Lunedì per esempio Presa diretta torna in onda e si occuperà di acqua pubblica: il servizio pubblico è stato uno dei cavalli di battaglia del M5S (meno per la Lega, che ai tempi del terzo governo Berlusconi aveva contribuito a quell'obbrobrio del decreto Ronchi).
Quando iniziamo a mettere mano alla nostra rete idrica che fa acqua da tutte le parti?

Da queste scelte si capirà quanto questo governo è un vero governo di coalizione, quale valore ha questo contratto di governo e di che pesta sono fatti questi autoproclamati politici del cambiamento.
Nutro poca fiducia, ma basterà aspettare poco per capire.

Ancora una volta mi avvalgo di quanto scritto da Alessandro Gilioli
Adesso però le scelte vanno fatte per forza. Intendo dire: con la legge di bilancio - e prima ancora con la "Nota di aggiornamento del Documento di economia e Finanza" da presentare alla Ue.
Il governo (Tria) dice che i problemi di questi giorni - cioè la vendita di titoli di Stato italiani e il conseguente rialzo dei loro rendimenti, che vuol dire una botta in più sul nostro debito - sono determinati solo dal fatto che gli investitori ancora non sanno come sarà fatta questa legge di bilancio, quindi è per via dell'incertezza che vendono i titoli, e quando vedranno la legge torneranno a comprare.
Può darsi, speriamo. Lo speriamo tutti, come cittadini, perché se si va a fondo, si va a fondo tutti.
Certo è che il liberismo leghista e lo statalismo pentastellato dovranno partorire qualcosa insieme: un qualche ibrido che vada bene a entrambi e che vada bene anche a coloro da cui la nostra economia in parte dipende: i famosi investitori e la famosa Europa.
Alla fine, dal successo o meno di questo ibrido dipenderà il destino di questo governo, molto più che dai superspot sulla Diciotti, dalla retorica patriottarda e xenofoba, dai tweet di Salvini, dall'inconsistenza di un'opposizione.

29 agosto 2018

Che cos'è la ligéra? (da L'ombra del campione)

E' un romanzo giallo, "L'ombra del campione" di Luca Crovi: ma è anche un bel viaggio nella Milano degli anni '20, precisamente nel 1928, anno sesto dell'era fascista.
Il regime che aveva deciso che si doveva combattere la piccola criminalità dei ladruncoli da strada, per dare al popolino l'impressione di sicurezza, perché col fascismo non si scherza. Certo le grandi ruberie all'ombra del regime, in camicia nera, potevano continuare lo stesso.
Ma per i ligéra erano tempi duri, quelli del ventennio.
Ma voi sapete cosa vuol dire ligéra? Viene in soccorso l'ultimo romanzo di Luca Crovi, ambientato proprio in quel periodo, con protagonista niente meno che il commissario De Vincenzi
«Ma cos'è la ligéra?» aveva chiesto De Vincenzi. 
«Be', sciur cummisari, a Milan i malnatt se ciamen ligéra. Se si sta chiedendo perché li chiamiamo così questi manigoldi, non ho un'unica risposta. Qualcuno pensa che se ciamen inscì perché van in gir semper biott coperti solo da una camisa. Un po' perché è povera gente, e non può permettersi un cappotto, un po' perché a Milan ciamén scamisaaì tutti quelli che sono ribelli, e fuori dalle regole. D'altra parte ligéra significa "leggeri", non solo nei vestiti ma anche nell'armamentario. Devono essere leggeri per scapapre in fretta, come lepri. Posso assicurarle che girano senza armi. Non ne hanno bisogno nei quartieri in cui vivono. Tutti li guardano con paura e rispetto al Bottonuto, sui Navigli, all'Isola o in Porta Ticinese..» 
L'ombra del campione di Luca Crovi


Buona lettura e buon viaggio nella Milano che fù, nel suo dialetto, nella scighera!!

Obiettivo l'Europa

Obiettivo elezioni europee 2019: prendersi un pezzo dell'elettorato dei popolari (di cui il diversamente democratico Orban fa parte, assieme a Berlusconi e Merkel), prendersi le poltrone che contano dentro l'UE (la commissione UE, la presidenza del consiglio e dell'Europarlamento, oggi in mano ai popolari e su cui frau Merkel aveva già iniziato le sue manovre per piazzare le sue persone).
Governare i fondi e spostare l'asse politico sempre più in orbita filo russa.

I migranti servono solo come strumento di consenso, nessuna soluzione comune potrà mai venire andando ad incontrare persone come Orban e Salvini lo sa bene: pensano di mettere fine al fenomeno dell'emigrazione, solo perché hanno tenuto ferma una nave in un nostro porto (e un'altra nave di una ONG è stata dirottata in Spagna).
Peccato che gli sbarchi continuino e così anche le morti in mare e le violenze in Libia.

Ma tutto questo non è solo merito di Salvini e dei sovranisti: a questo si è arrivati anche grazie al lavoro di chi c'era prima.
Come l'ex ministro Minniti che ieri commentava su La7 sulla politica della paura, autore del decreto sicurezza dell'estate 2017, degli accordi con la Libia (con le tribù, coi governanti..).
Come questa Europa che tollera gli Al Sisi, Erdogan e Orban (perché democraticamente eletti) spostandosi ogni volta sempre più a destra.

La chiamano rivoluzione, riconquistare il controllo dei confini, prima gli italiani.
Per esempio gli italiani assunti nello staff di comunicazione di Salvini: al momento la rivoluzione è combattuta soprattutto lì, in rete.
A colpi di like e follower.
Gli italiani poveri devono aspettare, al limite fare retweet dei post del capitano.

28 agosto 2018

L'incontro sul futuro assetto europeo

Salvini e Orban: due idee diverse, almeno sulla carta, per la gestione dei migranti.
Per cercare di minimizzare gli effetti sul governo dell'incontro odierno a Milano, Di Maio ha minimizzato parlando di un incontro politico e non istituzionale, ma allora perché si trovano in Prefettura?
In realtà dietro l'incontro di oggi c'è altro rispetto alla questione migrazione: c'è di mezzo il nuovo assetto europeo, la gestione dei fondi, le politiche economiche, lo spostare l'Europa sempre più a est.

Alla faccia del prima gli italiani, difendiamo i nostri confini e la nostra sovranità.
E' semplicemente un cambio di campo.
I poveri continueranno a fare i poveri.
I senza lavoro rimarranno ancora senza lavoro.
I precari rimarranno sempre più precari.
Gli evasori possono stare tranquilli.
E lo stesso vale per la criminalità organizzata (niente ronde, niente pugno duro del Viminale per le case del boss, tranquilli).

Ce ne sarebbe di spazio per una opposizione vera, che dovrebbe usare questi argomenti per mettere il ministro dell'Interno di fronte alle sue responsabilità.
Avete promesso più sicurezza, più rispetto per le leggi, prima gli italiani.
Ecco, a che punto siamo?

E invece siamo alle scaramucce sui social, alla difesa dell'indifendibile su precarietà, accordi con la Libia (e sbarchi in diminuzione), concessioni autostradali fatte non nell'interesse pubblico.

Uomini e cani, di Omar Di Monopoli



Una tromba nera di fumo sozzo e filaccioso saliva da un ammasso di vecchi pneumatici in fiamme. Ovunque c'erano un mucchi di letame, spazzatura e carcasse di elettrodomestici. Il fetore era insopportabile. I due pitbull pezzati di Pietro Lu Sorgi comparvero in silenzio da dietro un troncone da autocarro arrugginito e gli si disposero attorno raspando nella polvere, pronti a sferrare l'attacco. Nico sentì accanto a sé Lupone, il suo enorme pastore tedesco, sollevare maestoso il capo e prepararsi alla lotta. Poi, dalla baracca rivestita da lamiere d'amianto, Pietro strillò agli animali di farsi da parte.No jè aria, stamattina, sbirro .. vabbanni a casa! Gracchiò il vecchio eremita, affacciandosi a guardarlo con l'espressione di un'unghia incarnita.

Cos'è il sud, quell'espressione geografica che racchiude la parte meridionale del nostro paese?
Un'espressione che racchiude dentro tanti significati: arretratezza, assenza dello Stato e della legge, abbandono, criminalità che prende il posto dello Stato.

Nel romanzo di Omar di Monopoli ci troviamo in questo sud, in un ipotetico paese che si chiama Languore, nella zona del Salento. Ma potrebbe essere un qualsiasi sud dello Stivale. Dove non esiste legge, comunità, ma esiste solo la disperazione, la lotta per sopravvivere giorno per giorno.
Alla miseria, alla fame, ai soprusi.

Uomini e cani è un racconto con più protagonisti, né buoni né cattivi, ma persone plasmate da questo sud: Nico, la guardia di questo parco, ex ambientalista che ora si trova da solo a dover gestire un enorme territorio, che è un parco solo sulla carta.
Che le persone hanno trasformato in un immondezzaio.

L'ex militare Buba figlio dell'unica commerciante di Torre Languorina, che sogna qualcosa di diverso per sé, di scappar via, magari coi soldi dell'indennizzo a seguito del congedo (con disonore). Dopo essere cresciuto a Torre Languorina, nella su vita c'era stato l'esercito

Milena, ritornata al paese per aiutare il padre, uno dei tanti contadini condannati ad una vita di inferno che si è pure vista recapitare la lettera di sfratto dal comune.
«S'inoltrò sulla sabbia abbandonando gli stivali a terra. Il fragore delle onde coprì ogni altro suono e quello fu il momento in cui la vide. Era di spalle, nuda. La pelle chiara come il latte. Una cascata di capelli sciolti e bagnati che le si appiccicavano sulla schiena. Buba si bloccò, pietrificato. Lei si portò i capelli davanti al viso, si piegò e li immerse nel mare. I seni ricchi, morbidamente lambiti dal dondolio della corrente sul pelo d'acqua. Poi, con un movimento brusco, tirò la testa all'indietro e i capelli scuri percorsero nell'aria un arco picchiettato da mille goccioline che luccicarono al sole. Prese a cantare, una canzone che lui non aveva mai sentito prima, e quando finalmente si voltò, non fece altro che continuare a cantare. Raccolse le braccia attorno al petto e rabbrividendo uscì dall'acqua, lo sguardo di sottecchi.»«Passami quell'asciugamano, disse.»

Era scappata su, in altitalia, a Bologna, per sfuggire alle mire e alle violenze dei Minghella, gente da cui è meglio stare alla larga, con la passione dei combattimenti dei cani.
Mariuccio Minghella gli riversò allora una scarica micidiale di frustate sul testone, e il rottweiller, dopo averle incassate con un vagito, si scagliò con indicibile aggressività sul suo aguzzino, restando appeso a mezz'aria, la catena tesa allo spasimo, un chiostra di denti forcuti che mulinavano furiosamente a un palmo della faccia dell'uomo.Visto? L'àve intru lu lu sangu, l'àve, l'istinto assassino.

Don Titta, il boss del paese, uscito indenne da tutte le inchieste per i suoi molteplici agganci, sia nel mondo della politica, che in quello della criminalità.
E che ora sta costruendo un ben villaggio turistico a fianco al parco, perché va bene essere ambientalisti, ma si deve essere anche pragmatici.

Così spiega a Nico il sindaco, Enrico: figlio di un ambientalista che per anni si era battuto per la creazione del parco, per la salvaguardia dell'ambiente da parte dell'ignoranza delle persone e dell'avidità dei criminali in giacca e cravatta.

Non stiamo a raccontarci palle, ragazzo. Cedi che non sia sotto gli occhi di tutti quello che si nasconde dietro all'improvvisa coscienza ambientale di molti dei tuoi compari, mazzettari che negli ultimi decenni hanno contribuito a cementificare la provincia svendendo al miglior offerente fior di licenze edilizie?Quando io e pàtrita rischiavamo la pelle ogni giorno denunciando i cantieri abusivi che all'epoca spuntavano ovunque nel giro di una notte, quelli non facevano altro che assoldare qualche fottuto principe del foro perché gli trovasse il modo di far fessa la magistratura. Teppaglia, Enrì, gente che non si è fatta scrupoli a deturpare la costa con le loro orride palazzine del cazzo. E ora te li ritrovo in comune ad atteggiarsi a paladini del bene mentre l'unica domanda che gli si legge in faccia è «dov'è che si mangia, adesso?»

Ma il nuovo sindaco non ha preso questa “purezza” dal padre. Né quell'idealismo che lo portava a respingere ogni compromesso al ribasso, quella puzza sotto il naso nei confronti di chi ha soldi e con quei soldi pensa di potersi comprare tutto.
Io ho scelto di fare il politico di mestiere non perché sia meno idealista di voi. Ma certo àggiu superato un bel po' della puzza sotto il naso che serpeggiava nel movimento, il «vostro» movimento.

Così, superata la puzza ha imbarcato in giunta i vecchi speculatori e cementificatori delle coste trasformati in ambientalisti oggi per ridarsi una verginità, come insegna il Gattopardo.

In un mondo di uomini e cani, dove spesso è difficile distinguere chi tra i due faccia la vita da animali e chi da “cristiano”, non poteva mancare il personaggio mitologico: l'eremita Pietro Lu Surgi, che vive da solo da sempre, anche lui in mezzo ai suoi cani che ringhiano agli estranei, alle carcasse d'auto, ai rifiuti, al letame
Lacero, sporco, e con una luce folle negli occhi. Sempre armato. E sempre in lotta con il mondo. Non c'erano parole. Nessuno avrebbe potuto mai sciogliere il suo rebus, né indovinare chi o cosa diavolo lo avesse forgiato, perché Pietro Lu Surgi era Pietro Lu Surgi da sempre..

Proprio da questo personaggio parte la storia, e dalla decisione della la giunta comunale di istituire un parco naturale nella zona paludosa vicino al fiume, con relative lettere di sgombero per gli abitanti delle case che si trovano dentro il suo perimetro, come il padre di Milena e come Pietro Lu Surgi. Una decisione che che è la miccia che fa esplodere tutte le tensioni che sono rimaste a covare sotto la cenere.

... Quello che non vi entra in testa, dotto’, continuo’ l’altra in tono dimesso ma fermo, è che la gente di qua non riuscirà mai a digerire l’idea che ci si possa preoccupare tanto per un paio di uccelli e qualche albero, dotto’, mentre ci stanno cristiani che non ce la fanno ad arrivare a fine mese, mentre ai contadini basta una brutta grandinata per vedersi sfumate un anno di fatica sciancaossa, mentre la conclusione dei lavori allo stadio comunale passa più di dieci anni di giunta in giunta senza soluzione, e intanto in paese non esiste una biblioteca, un cinema, un circolo ricreativo, ne’ un diavolo di bar dove i giovani possano incontrarsi senza pagare il pizzo a qualcuno.

Uomini e cani è un romanzo che non nasconde e non risparmia nulla al lettore, stupri, omicidi, sopraffazioni, angherie. Dove ogni pagina è densa di storie, di sensazioni, di immagini che raccontano di questo sud, abbandonato da Dio, forse. Dallo Stato, sicuramente.

Un sud che diventa territorio di frontiera, popolato da animi senza speranza, esacerbati, rabbiosi come i cani che questi uomini si portano appresso e che viene raccontato in modo originale, in una lingua che mescola italiano e dialetto e che in alcuni passi sembra veramente poesia...
Alle prime avvisaglie del giorno, mentre il sole risaliva dall'estremo ciglio del creato come la testa divampante di un gigantesco totem vermiglio, accendendo pallide strisce di luce colata eppoi allargando in un immenso fiotto bianco e ocra sugli scorciati angoli aguzzi delle antiche abitazioni di Languore..

Su Illibraio potete leggere l'intervista all'autore dove parla del libro e di questa riedizione con Adelphi
Saccheggiando in maniera più o meno plateale dai modelli di riferimento, con Uomini e cani fui in grado quasi all’impensata di mettere a fuoco quella che (piaccia o meno) è diventata oggi la mia cifra, una sorta d’impalcatura letteraria per la costruzione della quale ho fatto miei una geografia, uno sguardo e una voce che hanno saputo consegnare nuove coordinate al mio lavoro, spalancandomi un mondo: ho cominciato a rielaborare la mia terra, la Puglia, immaginandola come un posto non troppo dissimile dall’America dei grandi romanzi southern-gothic su cui mi ero formato e, grazie all’ausilio di alcuni accorgimenti stilistici (il ricorso al dialetto e alla iperaggettivazione, ma anche all’uso in chiave espressionista di un certo lirismo), sono riuscito a convogliare in un personale afflato narrativo alcune istanze che mi stavano a cuore: il sud come campo di battaglia omerico, i lacerti di un crimine organizzato duro a sconfiggere, la disfunzionalità di certi rapporti umani, la violenza e l’incanto di una terra indomita.

La scheda del libro sul sito di Adelphi
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

27 agosto 2018

Stagione di cenere, di Pasquale Ruju


Incipit
«Francesco?» 
«Sono io, ma ..» 
«Francesco, sono Carla». 
«Carla ..» 
«Lo so, è tanto tempo noi non .. insomma, volevo parlare un po' con te». 
Oh mio Dio, ricordo che pensai. E adesso?

Adesso. 
Un anno dopo. Quattro stagioni, dodici mesi, trecentosessantacinque giorni dopo, mi trovai a pensarci. Non che quella telefonata mi fosse tornata in mente di colpo, niente affatto. Non se n'era mai andata, in realtà. Era rimasta lì, piantata come un chiodo in croce. O una spina di rosa, per meglio dire. M'infliggeva un dolce dolore, quasi gradevole. Il giro quieto di una giostra che ne prevedeva altri ben più sfrenati, urlanti. Furiosi.Infernali.

Estate, stagione di vacanze, di mare e di divertimenti.
Ma l'estate è anche la stagione della cenere, quella lasciata dietro di sé dagli incendi che devastano le zone verdi, i boschi della macchia mediterranea.
Un incendio può scoppiare per caso, certo. Anche per la sbadataggine di una persona che lancia in una zona boschiva una sigaretta accesa.
Ma molto spesso, gli incendi di cui si sente parlare nelle cronache (in Italia ma anche in Grecia e nella costa occidentale degli Stati Uniti) hanno dietro un'industria: l'industria criminale dei piromani, composta da bassa manovalanza capace di appiccare incendi che distruggano una certa area e non altre; salendo su nella catena alimentare della delinquenza, per arrivare alle mafie, che controllano il business dei roghi per le loro speculazioni edilizie.
Un giro d'affari che oltre a distruggere il nostro patrimonio ambientale, causa decine di morti ogni anno.

Il romanzo di Pasquale Ruju tocca proprio questo argomento: protagonista è il fotografo Franco Zanna, un passato da fotoreporter al nord, con qualche servizio importante.
Era bravo Zanna, quando ancora si chiamava col suo nome vero, Francesco Zannargiu: fino al giorno un cui scattò una foto che non doveva essere scattata, una foto che fece saltare una mazzetta e che aveva dato fastidio ad un boss della 'ndrangheta.
Boss che, per vendetta, minacciò di fare violenza alla sua Carla, l'amore della sua vita, la ragazza di cui si era innamorato appena arrivato a Torino e da cui aveva una figlia, Valentina.
Così, per proteggere Carla, Francesco Zannargiu era scappato da Torino, aveva abbandonato le sue donne e se ne era tornato nella sua terra natale in Sardegna.

Ero fuggito, avevo abbandonato Torino per tornare in Sardegna, nel luogo in cui ero nato. Avevo cambiato nome, lavoro, abitudini. Francesco Livo Zannargiu, reporter sulla cresta dell'onda, era diventato Franco Zanna paparazzo rissoso, alcolista, sempre a caccia di coppie clandestine e vip in vacanza.

Con Carla non riesce più a parlare, da anni ormai. Portandosi dentro un senso di colpa che deve lenire con qualche bevuta, il Nero profondo.
Con Valentina, la figlia, si sente più spesso, in lunghe telefonate dove però rimane in sospeso una domanda
Perché papà?
Perché ci hai abbandonate?
La Domanda, a cui non osavo dare una risposta.

Ora Francesco è diventato Franco Zanna e per vivere scatta qualche foto ai vip che vengono in vacanza in Sardegna che vende ad Irene, la sua agente; come un “cinghiale solitario” isolato nel suo vecchio rifugio per pastori a Porto Sabore, con una stupenda vista sul golfo della Tavolara.
Un gatto senza nome che gli fa compagnia.
Una vecchia Alfa Romeo col motore truccato.
E quando gli incubi del passato tornano a fargli visita, una sbornia nel locale di Cosima, quando ripiomba nel nero.

Ma il destino ha deciso che tutta questa “normalità” deve finire, per Zanna: un incendio arriva a lambire la sua casa, fa appena in tempo a salvare le poche cose importanti (la sua canon, il computer) e mettersi in salvo.
Scampato dall'incendio (e dal muro d'acqua che un canadair gli getta addosso), il vecchio istinto da reporter lo porta a fotografare i resti del fuoco che gli ha quasi distrutto casa:

Qualcosa gridava dentro di me, forse il vecchio istinto del reporter. Dovevo scattare qualche fotografia, immagini che rimanessero nel tempo, che fossero di testimonianza. Prima di tutto per me stesso, per ricordare quel giorno e quanto ero stato vicino alla morte. E poi per i giornali. Era lavoro, comunque. Gli incendi fanno vendere bene in estate. Sono un autentico evergreen. E io mi trovato proprio in prima linea.

Dietro l'incendio non ci sono solo resti di macchia mediterranea bruciata: Zanna si imbatte nel corpo di un uomo ustionato e morente che, prima di perdere conoscenza, ha la forza di dirgli una sola parola “Carine”.

E il nome della figlia, Carine, e la persona ormai agonizzate è un misterioso uomo d'affari belga, De Wilde, legato al progetto del nuovo outlet, dietro l'aeroporto, che avrebbe portato con se posti di lavoro, affari e altre colate di cemento.
Come è morto il belga: mentre la polizia, nelle vesti dell'amico commissario Ventura, indaga, la figlia dell'uomo d'affari non ha dubbi, il padre è stato ucciso.
Era legato, per i suoi affari a pericolosi personaggi, che arrivavano anche ad usare mezzi spicci per prendersi i terreni su cui compiere le loro operazioni immobiliari.
È un problema mio. Una cosa che ho radicata dentro, come molti miei conterranei. Una cosa da maschi della Barbagia. Non ci si tira indietro di fronte ad una sfida, non senza trovarsi una brutta ferita nello spirito, che a volte non si rimargina mai. Lo avevo fatto da giovane, terrorizzato da perdere Carla.

Che fare? Accettare la proposta della ragazza, Carine, poco più grande della figlia, con tutti i rischi del caso? Oppure tornare alla sua vita da paparazzo?
È già scappato una volta Francesco, diventato Franco Zanna, e quella fuga gli è costata cara, perdere la donna che amava e la figlia.
Un'altra fuga, un'altra resa, avrebbero significato precipitare nel Nero. Senza ritorno.

Francesco Zannargiu così fa quello che sa fare veramente e che gli piace fare: cerca di capire chi si nasconda dietro l'affare dell'outlet e chi siano le persone con cui De Wilde era in affari.
Per esempio quell'italiano piccoletto che si muove con tanta disinvoltura sull'isola.

La sua inchiesta lo porta dritto dentro il business della speculazione edilizia: un'industria che usa gli incendi come arma di ricatto per rovinare la concorrenza.

«La legge non consente di costruire su terreni bruciati, anche se hanno la giusta destinazione d'uso. Ma certi speculatori hanno imparato ad aggirarla, o a servirsene contro la concorrenza».«Tuo padre avrebbe dovuto dare fuoco a un terreno?»«No, certo che no. Non di persona. Lo avevano messo in contatto con un altro mediatore, uno più addentro, per così dire, che gli fornì alcuni nomi e numeri di telefono. Gente che avrebbe fatto il lavoro per lui. Doveva solo indicare bene i tempi e i luoghi. Si trattava di lotti edificabili, pagati a caro prezzo ma ancora privi dell'autorizzazione a costruire. Una volta che fosse stata concessa sarebbe stato tutto inutile, avrebbero potuto procedere con i lavori, incendio o non incendio. Dunque se voleva danneggiare quegli imprenditori per favorirne altri, legati all'italiano, doveva individuare il momento giusto. Le poche settimane fra la richiesta di concessione dell'autorizzazione. Settimane in cui quei terreni sarebbero stati vulnerabili, per così dire...»

In forma romanzata, ma nemmeno troppo, si racconta il dietro le quinte della piaga degli incendi, quello che non vediamo e che in pochi raccontano, perché generalmente i media e i politici sono più interessati a cavalcare la prontezza degli interventi in emergenza, piuttosto che un "silenzioso e paziente lavoro di preparazione".
Dietro le fiamme ci sono i finanziamenti per le spese di foraggio degli animali che non possono pascolare, per lo stato di calamità.
Ci sono i soldi per gli appalti per costruire su certi terreni e non su altri, grazie all'intimidazione e il ricatto nei confronti di imprenditori concorrenti o degli agricoltori e degli stessi pastori, a cui viene intimato “Paghi o ti brucio i terreni edificabili”.
Stiamo parlando di una mafia, una mafia bastarda: una mafia che uccide, distrugge l'ambiente, che cresce come un tumore e che non si ferma di fronte a niente.
Ed è questo il mulino a vento contro cui Zanna si trova a cavalcare, come un novello Don Chisciotte:
«Si torna a bruciare. E s'incassa in altri modi. Ora che le droghe leggere sono legali, nella West Coast certe organizzazioni investono nel fuoco. E' uno dei business del nuovo millennio, in costante ascesa. Lo sai cosa ha detto una volta Mannarino?
"La convergenza di interessi, è questo il segreto. Sovvenzioni, assicurazioni, investimenti, posti di lavoro, appalti, percentuali. Convergenza di interessi. Dagli incendi non si butta via niente". E' un'industria, compare. Una fottuta, merdosa, industria!»

Dentro “Stagione di cenere” sono presenti tutti gli ingredienti del noir “mediterraneo”, dall'eroe con qualche macchia e molti errori da farsi perdonare, fino a zu Gonario, il bandito sardo con un suo codice etico e che si dimostrerà meno criminale di molti imprenditori in giacca e cravatta. Ma il maggior pregio è mostrare ai lettori cosa si nasconde dietro le immagini degli incendi e a comprendere tanti perché.

La scheda del libro sul sito di Edizioni e/o
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

26 agosto 2018

Il superstite, di Massimiliano Governi



Incipit

Era arrivato per ultimo. Non riusciva a trovare il posto e si era perso. Del resto, il luogo dove vivo non esiste quasi mai, è solo una stradella, se si vuole essere capiti bisogna chiedere di un paesotto qui vicino. Avevo già parlato con tutti i suoi colleghi nei due giorni precedenti, la villetta era stata chiusa e sigillata dalla scientifica, i corpi portate via in bare di alluminio. Ero davanti casa mia, centocinquanta metri più in là. Il giornalista mi è venuto incontro, mi ha stretto la mano e si è presentato. Mi sono accorto subito che mi assomigliava. Infatti, poco dopo, mentre gli ripetevo il mio racconto, è passato un uomo, si è fermato vicino a noi e ha fatto le condoglianze a lui. Gli ho chiesto chi fosse quella persona e mi ha detto che non ne aveva la minima idea, e per la prima volta in quei giorni ho riso.

L'io narrante di questo breve racconto non ha nome, viene presentato come il superstite. Superstite di una strage in una villetta di un paese che pure lui non ha nome, e che potrebbe essere qualsiasi paese di confine.
Come nel romanzo di Truman Capote, i ladri hanno sfogato la loro rabbia per il magro bottino, uccidendo tutti i membri della famiglia presenti in casa.
Il padre, la madre e i due figli.

Tocca così al “superstite”, che assieme al padre ha una piccola impresa di allevamento polli, cercare di sopravvivere a questa tragedia: ma mentre la moglie gli chiede di cercare di mettersi tutto alle spalle, la sua intenzione è quella di capire, di comprendere, di non cancellare il passato.
Così, decide di spostarsi dentro la villetta di famiglia, dove ancora sui muri sono rimasti i buchi dei proiettili e di seguire direttamente il processo, assieme al giornalista di un quotidiano nazionale che ha raccontato la vicenda andando oltre le solite banalità.
I responsabili della strage sono stati presi, nel loro paese d'origine in Serbia: uno dei due nomadi si è ucciso durante il conflitto a fuoco, ma l'altro no. È ancora vivo e ora si trova di fronte al “superstite” e al giornalista che prende appunti per un libro, forse.

Ma nulla nella sua espressione, nel suo racconto, fa trasparire alcuna emozione.
E così le domande rimangono e la voglia di far qualcosa.
Solo, perché la moglie e la figlia se ne sono andati in America, il protagonista decide di costruire una croce coi tasselli del parquet: un Cristo in croce col parquet a cui si aggiunge anche un altro Cristo in pasta di giornale.
Le testimonianze della tragedia dentro la casa che diventano emblema stesso DELLA sofferenza più grande.

La seguiamo tutta la vita dell'io narrante, anno dopo anno: la malattia, la morte dello “slavo”, le telefonate con Skype con la sua famiglia, che poi raggiunge per un breve periodo in Arkansas.
Ancora una volta le stesse domande: come fare a mettersi tutto alle spalle? Con la vendetta? Con la pena di morte, come in Arkanso, dove ai bravi cittadini è concesso pure di assistere alle esecuzioni?
Oppure, peggio ancora, col linciaggio e con la giustizia fai da te?

Nemmeno la lettura del libro scritto dal giornalista riesce a colmare quel vuoto:

Poteva essere la mia storia, ma anche quella di un altro. Quell'uomo aggredito e invaso dalla cancellazione della sua famiglia, ero io eppure non lo ero. Tutto sembrava vero e falso allo stesso tempo. Ma forse è così che si scrivono i libri. Forse è così che accade la realtà.

Forse la soluzione sta nel compare quei buchi della propria vita, quelle cicatrici lasciate, colmandole con la propria esistenza. Partendo dai buchi nei muri:

Ho infilato la spatola nel barattolo, ho raccolto lo stucco e l'ho spalmato nel buco, ho premuto, l'ho livellato passandoci sopra la spatola larga quattro dita. Ho raccolto dal barattolo un altro po' di stucco e l'ho spalmato ancora perché sapevo che il nuovo stucco avrebbe potuto tirare via il precedente. Ho fatto così per ogni buco della stanza. Sapevo che non dovevo rifinire, dovevo solo riempire, anche lasciando che lo stucco avesse uno spessore eccessivo. Poi ho lasciato asciugare. Più il buco era profondo, più ho aspettato.

Questo l'insegnamento che lascia il racconto del superstite: la vita va avanti, deve andare avanti e l'unico modo per riempire i vuoti e i buchi lasciati dalle persone scomparse è questo, riempirlo con nuova vita.

La scheda del libro sul sito di Edizioni e/o
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25 agosto 2018

Le persiane verdi di Georges Simenon



Incipit

Era strano: il buio che lo circondava non era il buio immobile, immateriale, negativo a cui siamo abituati.Gli ricordava piuttosto il buio quasi palpabile di certi incubi della sua infanzia, un buio minaccioso, che a volte di notte lo assaliva a ondate come a volerlo soffocare.

Maugin, il grande Maugin, attore di teatro e stella del cinema: un bell'uomo, alto, muscoloso, con quel suo ghigno sul volto spigoloso, quasi tagliato con l'accetta, con cui ha conquistato le platee e in special modo le donne.
Giunto alla soglia dei sessant'anni, al culmine di una carriera nel mondo del cinema lo incontriamo in una serata piovosa dentro lo studio medico del dottor Biguet, per una visita al cuore.

Così, mentre fuori la pioggia bagna le strade di Parigi, dentro lo studio del celebre medico (quasi quanto lui, nel suo campo) il grande Emìle Maugin scopre di avere un cuore di uno di settantacinque anni. Certo, a settantacinque anni ci possono essere ancora davanti tanti anni di vita, ma niente eccessi, ridurre gli impegni sul set.

«Mi ha detto che deve fare cinque film. E che ha le repliche dello spettacolo fino al 15 marzo. Che cosa potrebbe modificare del suo stile di vita?»«Niente!»«Da parte mia, l'unica cosa che posso fare è evitarle il dolore o il fastidio degli spasmi».Buttò giù una ricetta su un blocco, strappò il foglio e glielo tese.«Non crede di essersi preso una rivincita sufficiente?»Aveva capito. Anche lui si era dovuto prendere una rivincita, ma probabilmente si era ritenuto soddisfatto il giorno in cui, a ventotto anni, era diventato il più giovane professore di medicina.

Mentre il grande Maugin non si era mai fermato da quando, a quattordici anni, era scappato da casa e dalla miseria, con quei 15 centesimi con cui si faceva pagare dagli amici per toccare la sorella.
Non si era fermato quando era arrivato a casa del fabbro.
Non si era fermato quando era arrivato a Parigi e cercava la fortuna cantando nei locali con un'ortensia finta all'occhiello.
Non si era fermato quando aveva cominciato a lavorare in teatro e dove aveva raggiunto una certa notorietà.
E nemmeno ora, a 59 anni, da 10 anni un attore di fama che poteva permettersi di includere un auto e un'autista nel contratto con le case di produzione.

Ma tutto questo non fermarsi ha lasciato un segno: per esempio quella bottiglia sempre presente nel camerino, per riuscire a tenersi su e che l'accompagna anche fuori, anche nei bar

"Bevve il terzo bicchiere a occhi chiusi. Poi ne bevve un quarto e solo allora si eresse in tutta la sua altezza, spinse il petto in fuori, gonfiò le guance e tornò a essere quello che tutti erano abituati a vedere. Si guardò intorno, osservando le facce che fluttuavano tra le nuvole di fumo, e contrasse le labbra in una smorfia, la sua famosa smorfia, feroce e patetica insieme, che alla fine produsse l'effetto desiderato, li fece ridere, come a teatro faceva ridere la platea, il tipico riso nervoso di chi per un attimo ha avuto paura."

Quel carattere scorbutico nei confronti di tutti, dalla vestiarista Maria, al segretario Jouve, ai colleghi sul set.
E poi c'è il giovane Cadot, un ragazzo che tratta male ma che segretamente aiuta perché figlio non riconosciuto avuto da una donna che lo aveva ospitato nella sua pensione negli anni della fame. Una fame nera che ogni tanto riaffiora nei suoi ricordi.

Tante donne, usate e abbandonate, per le sue voglie. Tre mogli e nessun figlio. La prima, Consuelo, che gli aveva lasciato quel senso del peccato.
Yvonne con la sua storia delle “persiane verdi”, un ricordo che ritornerà nel finale e in cui verrà svelato il suo significato.

Anzi, una figlia c'è, Baba, una bimba riconosciuta come sua ma in realtà frutta di una relazione breve di Alice, l'ultima moglie, con un ragazzo che ritornerà poi nel racconto.
Tutto il mondo sembra ruotare attorno ai suoi desideri, alle sue bizze, ai suoi eccessi, fino a quella rivelazione sul suo cuore.
Che inizia a fargli temere la morte, morire da solo, senza nessuno a fianco.

Perché Maugin è in realtà un uomo in fuga.
Aveva fame e scappava dalla fame. Viveva in mezzo al tanfo degli alberghi malfamati e scappava dal senso di nausea. Era scappato dal letto delle donne che aveva posseduto, perché erano solo donne e niente di più, e quando si trovava di nuovo solo beveva per scappare da sé stesso.Era scappato da tutte le case in cui aveva abitato e in cui si sentiva prigioniero, scappato fino ad Antibes, e poi scappato da Antibes .. Era – scusa, Gidoin – scappato dall'atelier puzzolente di rue du Mont-Cenis.Dio, da quante cose era scappato e come si sentiva sfinito!


Il titolo “Le persiane verdi” è d'altronde eloquente: la casa che Yvonne, la seconda moglie aveva comprato per loro e dove sognava di poter costruire una famiglia, una vera famiglia.
Scontrandosi col suo sguardo diffidente.

A un tratto l'aveva guardato spazientita, forse anche con un ombra di collera. 
«Tu non hai mai sognato una casa con le persiane verdi?» 
«Non mi pare. No». 
«Neanche quando eri piccolo?». 
Lui preferì non rispondere.«Già, ma tu sei del tutto privo di sensibilità. Non hai desiderato nemmeno una donna dolce con cui avere dei figli». 
Lui continuava a tacere, scuro in volto. 
«Forse tu un giorno l'avrai una casa così» sogghignò lei.

Tutto questo tornerà a fargli visita nel finale, che è drammatico surreale allo stesso tempo: il suo passato, le sue donne, compresa quella Juliette Cadot incontrata all'inizio, le sue case, le persone della sua infanzia (il fabbro e la moglie, le sorelle), perfino il suo insegnate che sbatteva la bacchetta sulla cattedra quando lo coglieva con la testa tra le nuvole a sognare.
Il vino, il sesso e le donne, tutto assieme animalescamente.
E la dolce moglie, timida e devota, che guarda con gelosia e a cui riesce a dire solo alla fine che ama.

Nel libro “Le persiane verdi” Simenon ci regala un altro personaggio sorprendente nel suo essere detestabile, nel suo comportarsi da tiranno, che viene raccontato giorno dopo giorno nel suo progressivo estraniarsi alla realtà, fino a vedere la propria vita su due piani, il sogno (e il processo al suo passato) e la realtà (dentro cui non trova pace, nemmeno quando si trasferisce al mare).
Un personaggio così forte non può che essere ispirato a qualcosa di personale e, come racconta Daria Galateria su Robinson, Maugin è ispirato a Simenon stesso e a quei 15 giorni quando gli fu diagnosticato un cuore in rovina ..
Una fase drammatica della sua vita che, anni dopo, nella nuova fase della sua vita in America, ricorderà in questo libro.

La scheda del libro sul sito di Adelphi
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24 agosto 2018

La repubblica delle stragi, a cura di Salvatore Borsellino



La Repubblica delle stragi: 1978/1994 il patto di sangue tra stato, mafia, p2 ed eversione nera.

E' infatti ormai evidente come le grandi stragi di mafia e terrorismo, in Italia, siano segnate da un filo che, oggi, non è più tanto invisibile. Un filo che traccia un faticosissimo percorso in salita per i familiari delle vittime di quelle stragi e per quei pochi, all'interno delle istituzioni, che hanno tentato di arrivare alla verità. Un filo che racconta storie accomunate da depistaggi, isolamenti, umiliazioni, bugie e dolore e tanta rabbia; e nega giustizia ai morti costringendo i parenti a sospendere il normale corso delle proprie esistenze e improvvisarsi, a volte con risultati significativi, egregi investigatori e giornalisti, e addirittura, come nel caso di Paolo Bolognesi, politici. Un filo che sospende lo Stato di diritto e le più elementari norme democratiche. I carnefici diventano vittime e le vittime, nella migliore delle ipotesi, persone bisognose di aiuto psicologico (come disse l funzionario di polizia Arnaldo La Barbera a Lucia Borsellino, in risposta ad una sua richiesta di delucidazioni sulla scomparsa dell'agenda rossa del padre).

Questo saggio attraversa sedici anni della nostra storia recente, raccontati attraverso una serie di eventi criminali, con l'obiettivo di andare a cercare quel filo rosso che li unisce, mettendo assieme i fatti, cercando di gettare luce sulle zone d'ombra, i collegamenti tra loro.
Gli autori de “La repubblica delle stragi” non hanno avuto come obiettivo quello di creare le solite teorie complottiste: gli episodi citati nel saggio hanno segnato la storia italiana e hanno condizionato la politica di questo paese.
Ma c'è anche qualcosa di personale: Salvatore Borsellino, che ha curato questa edizione, è il fratello di Paolo, il giudice diventato icona dell'antimafia ma di cui una sentenza recente ci ha raccontato del grande depistaggio che ha allontanato gli investigatori dai veri responsabili.
Giovanni Spinosa ha seguito come pm alcune inchieste sui delitti della Uno Bianca su cui ha scritto un libro (“L'Italia della Uno Bianca” - Chiarelettere) che racconta una verità diversa sulla banda. Una verità scomoda.
Fabio Repici è stato avvocato di parte civile in processi sulla mafia (e avvocato dello stesso Salvatore Borsellino), e ha seguito per questo libro i capitoli sull'attentato all'Addaura al processo sulla Trattativa.
Antonella Beccaria è una studiosa dei fenomeni criminali di questo paese, dalle mafie alla massoneria all'eversione nera.
Giuseppe Lo Bianco è un ex giornalista de l'Ora di Palermo oggi a Il Fatto Quotidiano, esperto di mafia.
Nunzia Mormile è la sorella di Umberto, l'educatore nel carcere di Opera ucciso dalla 'ndrangheta l'11 aprile 1990, negli anni a cavallo tra prima e seconda repubblica, quando tutti i Gattopardi del potere occulto tramavano perché nulla cambiasse in questo sfortunato paese.
Federica Fabbretti è una giornalista e collabora con le Agende rosse, con Salvatore Borsellino.
Infine ha collaborato a questo libro anche Marco Bertelli.

I capitoli del libro

Gli eventi di cui si occupa questo volume spaziano dal 1978, l'anno di Moro, che segnò l'inizio della fine, l'inizio della penetrazione della P2 dentro le stanze del potere. L'anno del finto rapimento di Sindona inscenato per salvarsi dalla giustizia e recuperare i soldi prestati alla mafia.
La bomba di Bologna, la strage di Natale del 1984, l'estate dell'Addaura e degli omicidi dei due poliziotti Emanuele Piazza e Nino Agostino.
Lo strano autoparco della mafia a Milano, in via Salomone, sede del consorzio criminale composto da cosa nostra, 'ndrangheta e Sacra corona unita.
I delitti della Uno bianca e le rivendicazioni della Falange Armata, questa strana sigla bene informata sui delitti e sui misteri di questo paese.
Le bombe del 1992, quella esplosa a Capaci contro Falcone e la sua scorta e quella di via D'Amelio contro Borsellino e la scorta.
Le altre bombe della trattativa che portarono a compimento il passaggio tra prima e seconda repubblica, col ricatto allo Stato, nel segno di nuovi accordi tra mafia e politica.

Sorprende, leggendo tutte assieme queste storie, gli atti processuali, le anomalie emerse e le incongruenze, scoprire sempre gli stessi attori comparire: pezzi deviati dei servizi, faccendieri di cerniera tra le istituzioni e la criminalità, l'eversione nera come manovalanza.
Sono storie di giustizia mancata: non solo la giustizia nei confronti delle vittime, ma anche di giustizia e verità nei confronti dei cittadini italiani, cui sono state raccontate tante bugie, tante menzogne, come se fossimo dei bambini che non meritano di sapere chi ha in mano il pallino del potere.

Ma se l'assenza di giustizia potrebbe essere vista come un torto solo per noi familiari, la continua negazione della verità ha definito - e continuerà a definire - un vulnus di impareggiabile gravità per l'andamento democratico del nostro paese, un paese i cui più importanti rappresentanti possono essere ricattati da chi di quel filo conosce consistenza e colori, un paese in cui non potranno essere applicati quei contrappesi democratici riconosciuti e fortemente voluti da nostri padri costituenti

A cosa serve questo libro, dunque? Non è l'ennesimo libro su Falcone e Borsellino e le altre vittime delle mafie (meritevoli di essere ricordate per il loro lavoro in tutti i giorni dell'anno, non solo nelle – spesso sterili – ricorrenze): lo spiega bene Salvatore Borsellino nella prefazione

Gli autori di questo libro si sono posti l'ambizioso obiettivo di iniziare a "mettere assieme i pezzi", di cogliere le similitudini tra le stragi mafiose e terroristiche, di scandagliare le indagini e trovarne i buchi neri e le zone d'ombra. Un libro di fondamentale importanza per chi aspira a leggere gli avvenimenti di questo paese sotto una luce diversa, ma anche per gli "addetti ai lavori" che non hanno modo, per via della specificità dei luoghi in cui operano o degli argomenti di cui si occupano, di allargare il loro campo visivo e conoscitivo.(dalla premessa di Salvatore Borsellino)

Le origini del golpe: 1977-79 Sindona, Gelli, il crac e il ricatto al potere

Tutto parte dal crac delle banche di Sindona, in Italia e anche in America: banche attraverso cui erano passati, per ripulirsi, i capitali della mafia.
Sindona non era custode dei soli segreti della mafia, ma anche dei tanti italiani che a lui avevano affidato i loro beni per occultarli al fisco italiano.
La lista dei 500, contenente questi nomi, era l'arma di ricatto di Sindona: quel ricatto preparato nel suo viaggio dall'America in Italia, quando finì nelle mani dei boss palermitani, Bontade ed Inzerillo

Ricapitolando. Alla fine degli anni settanta in Sicilia si progetta - almeno dal 1977, secondo Miceli Crimi - di rovesciare gli assetti istituzionali recuperando al contempo i soldi che che i mafiosi avevano affidato a Sindona affinché li riciclasse.Il risultato costituirebbe un sicuro vantaggio per Sindona, ormai in rovina, e dell'orbita fanno parte i militari, oltranzisti atlantici che impartiscono istruzioni da Washington, boss italiani e italo-americani e logge massoniche deviate che comprendono, oltre alla P2 di Gelli, anche la Camea, il centro di attività massoniche ed esoteriche accettate che, dalla Liguria alla Sicilia, nelle indagini della magistratura si è dimostrato un punto di incontro da interessi diversi ed altre obbedienze.I cardini erano sempre loro due, Sindona e Gelli, portatori di «contatti coi due mondi [inquietanti]: da un lato quello della P2 e dall'altro quello della mafia».

Nelle carte della commissione P2 è emersa una riunione tenuta su un panfilo al largo di Ustica a cui erano presenti il massone Miceli Crimi (medico di Sindona) in cui si espose il progetto di creare in Sicilia una rete anticomunista e indipendentista. Un progetto che anticipa di qualche anno le riunioni tenute nelle campagne di Enna nel 1991 da parte dei mafiosi di Riina, dove furono decise le strategie eversive del 1992.

Strage alla stazione di Bologna (qui l'approfondimento)

Se della strage alla stazione di Bologna conosciamo (diversamente da altri episodi stragistici) i nomi dei responsabili, ci sono ancora troppi buchi neri: i mandanti della bomba e, soprattutto, il perché di quella bomba.
Cosa volevano ottenere Mambro e Fioravanti? Volevano veramente ricompattare il fronte neofascista (come hanno dichiarato)? Oppure ancora una volta dobbiamo pensare ai mandanti a volto coperto dietro, che da questa strage pensavano di ottenere qualcosa?
Ancora una volta, dopo Piazza Fontana, torna uno scenario dove la bomba serviva a preparare il terreno ad un golpe senza esercito e carri armati, per i legami tra la manovalanza nera e la loggia P2 di Gelli:

In quest'ottica, a dispetto delle velleità di Fioravanti, l'interfaccia reale della strage del 2 agosto non fu la "chiamata alle armi degli indecisi", ma il piano di rinascita democratica di Licio Gelli, il "manifesto d'ordine" politico e programmatico che doveva condurre il paese allo svuotamento dei valori della Costituzione e della Repubblica Parlamentare per rincorrere una repubblica presidenziale priva di contropoteri di garanzia democratica.A ciò si aggiunga un'affermazione più volte ripetuta dal Venerabile negli ultimi anni della sua vita: nel marzo del 1981, quando furono scoperte le sue liste, sarebbero mancati quattro mesi alla concretizzazione di un golpe che non avrebbe avuto le sembianze di di un'azione militare, ma che sarebbe stato lo stadio finale dell'infiltrazione delle istituzioni dal loro interno.

Strage del rapido 904 (qui l'approfondimento)

Dopo la bomba dell'agosto 1974, un'altra strage nella stessa galleria dell'Appennino.
Le indagini si sono mosse subito nella direzione giusta, il referente di cosa nostra a Roma Pippo Calò. Ma anche qui non tutti i tasselli sono al loro posto: quei congegni per l'esplosione comprati dai mafiosi in eccesso per una sola strage, a cosa servivano? E a cosa serviva tutta quella quantità di Semtex H, così sovrabbondante per una sola bomba tanto da richiedere lo spostamento dell'esplosivo dai rifugi siciliani al nuovo rifugio di Roma?

Ecco che s'intravede la possibilità che l'obiettivo vero non fosse una sola strage, ma una vera e propria campagna terroristica, stroncata sul nascere dalle indagini "casuali" culminate col sequestro di via Albricci [dove poi si riuscì a risalire a Pippo Calò e agli altri responsabili] avvenuti solo tre mesi dopo il primo attentato.Una campagna terroristica che sembrerebbe anticipare quella del 1993 di cui ha parlato la sentenza del 2015.

L'attentato all'Addaura e le menti raffinatissime

A distanza di anni ancora non sappiamo i responsabili delle morti dei poliziotti Nino Agostino ed Emanuele Piazza.
Chi e perché li ha uccisi, i killer e i mandanti.
Non sappiamo il perché della bomba all'Addaura né i mandanti esterni.
Non sappiamo, degli eventi di quel 1989 che anticipava le stragi del 1992, perché cosa nostra (e le menti raffinatissime evocate da Falcone) 
"si adoperò per l'uccisione del poliziotto Agostino e della moglie e del legame fra quel duplice omicidio e la strage dell'Addaura, già leggibile in filigrana. Ne emergerebbero nitidamente le ragioni del depistaggio, avvenuto fin dall'immediatezza".

La barba del padre dell'agente Nino Agostino è l'icona dell'ansia di giustizia di chi si batte contro le deviazioni di uno stato che, nella strage dell'Addaura e nel duplice omicidio Agostino Castelluccio, ha presentato davvero una faccia da mostro.

L'autoparco della mafia di via Salomone e l'omicidio di Umberto Mormile

Umberto Mormile era un educatore nelle carceri: fu ucciso mentre andava a lavoro nel 1990 e il suo fu il primo omicidio rivendicato dalla Falange Armata, prima delle azioni terroristiche e gli omicidi della Uno Bianca, prima delle bombe della mafia (e non solo della mafia).

Ucciso perché aveva assistito ai colloqui in carcere del boss della ndrangheta Domenico Papalia con esponenti dei servizi.
Un omicidio su cui non fu fatta luce anzi, la sua memoria fu infangata da una sentenza della corte d'assise di Milano che lo definì come corrotto.
Un uomo al soldo dei boss.

Al processo d'Appello, il boss fu condannato, ma l'omicidio Mormile rimane nell'area dell'indicibile.
Come l'Autoparco di via Salomone, su cui indagò il pm milanese Di Maggio (che divenne in seguito vice direttore del DAP) senza rilevare nulla.
Senza rilevare la presenza di uno strano "consorzio": un comitato composto da mafiosi, ndranghetisti e da boss della Sacra Corona Unita.
Uno strano autoparco, a forma di Anello, una struttura riconosciuta dai vertici delle strutture criminali e che da lì decideva e agiva per eseguire omicidi importanti.
Una struttura in cui si intrecciano mafia, quella catanese di Jimmi Miano, esponenti borderline come Rosario Cattafi, uomo di cerniera tra mafia e servizi e boss come Papalia. Un boss con importanti relazioni dentro le strutture dello Stato.
Relazioni che però devono rimanere segrete.

Nelle indagini della Procura di Reggio Calabria nel procedimento ndrangheta stragista un capitolo ha per titolo:
«Un filo rosso delle vicende stragiste: le rivendicazioni della Falange Armata. L'omicidio Mormile. La riunione di Enna e le dichiarazioni di Cannella, Avola e Malvagna. Le dichiarazioni di Foschini e Cuzzola [gli assassini di Mormile]. Il copyright della ndrangheta e di settori deviati degli apparati di sicurezza nazionale».Sul'omicidio di Umberto Mormile la giustizia dovrà partire proprio da lì.


Il filo rosso delle stragi: la Uno Bianca e la Falange Armata (qui l'approfondimento)

Sette anni e mezzo di attività criminale, dal 19 giugno 1987 al 21 ottobre 1994.
82 delitti di cui 22 persone uccise e oltre cento ferite.
Fino all'arresto di Roberto Savi e Fabio Savi, il lungo e il corto. Che si sono autoaccusati di tutti i delitti anche andando a scagionare altri imputati mafiosi imputati nei processi per questi casi (come Marco Medda, un camorrista vicono alla nuova camorra organizzata di Cutolo).
Analizzando i colpi della banda, si può suddividere la loro storia in tre fasi: in una prima fase la banda è caratterizzata da assalti ai furgoni blindati, alle coop, con operazioni in stile militare.

Poi arriva una seconda fase apertamente terroristica, caratterizzata da delitti senza alcuna refurtiva: dal 2 gennaio 1990 al 28 agosto 1991. I colpi contro i carabinieri (la strage del Pilastro), contro i campi rom, contro persone inermi.
Infine la terza fase, dalla fine del 1991 fino all'arresto nel 1994, dove i Savi avevano pure messo in piedi un traffico di armi in Ungheria per comprarsi le armi per le rapine in banca.

La Uno bianca è stata il trampolino di lancio della Falange Armata, che ne ha rivendicato le azioni col loro linguaggio freddo e burocratici, fino a quando questa strana “agenzia di stampa” abbandonò la banda col comunicato del 29 agosto 1991, con una specie di comunicato di dissociazione.
Come se la banda avesse terminato il suo scopo.
Si, ma quale? A cosa è servita la banda della Uno Bianca?

La Uno bianca fu un momento organico nella evoluzione di un coerente cammino eversivo gestito da un consorzio criminale che, nel 1990, assunse il nome di Falange Armata. Dal novembre 1991, con l'avvio delle rapine in banca, si prepara il terreno per le future confessioni dei Savi dopo un arresto frutto di una «strabiliante [..] concomitanza di circostanze del tutto fortuite e difficilmente irripetibili». Si propose all'opinione pubblica l'immagine del "corto" e del "lungo": una fotografia istintivamente coerente con quella di Roberto e Fabio Savi, attori protagonisti di questo periodo. Nei tre anni successivi il "corto" e il "lungo" rapineranno le banche a bordo di una Uno bianca con una listella di scheda telefonica infilata nel blocco dell'accensione. Una straordinaria campagna di disinformazione ha affidato a questa immagine la sintesi di sette anni e mezzo di delitti timbrati Uno bianca. E invece, solo la fotografia dei banditi che hanno operato negli ultimi tre anni.
Niente a che vedere con la banda che assaltava le coop, che sparava al tunisino e ai lavavetri, che sparava al campo nomadi.Dell'uomo disinvolto che uccide dentro l'armeria di via Volturno, coi banditi che sparavano ai carabinieri a Miramare di Rimini ..


La strage di Capaci

La strage di mafia per eccellenza, quella che ha portato alle condanne dei boss mafiosi, grazie al pentimento di due responsabili della strage stessa, Di Matteo e La Barbera.
Ma anche qui ci troviamo di fronte ad alcune cose che non tornano, a meno di non fermarsi alla forma che è stata data all'acqua (citando Camilleri).
Perché quella bomba in Sicilia, dopo aver pedinato Falcone per settimane a Roma?
Chi scelse il luogo dell'agguato?
Perché i servizi non informarono i magistrati che la mafia aveva intenzione di fare un nuovo attentato contro Borsellino?

Nel film blow up di Antonioni, con successivi ingrandimenti di una foto spunta in mezzo alla vegetazione, l'arma del delitto.Accadde lo stesso per la stagione delle stragi cosiddette di mafia, dove le indagini compiute negli anni con opportuni "ingrandimenti", mostrano connessioni insospettabili e inconfessabili.Oggi sappiamo che un artificiere legato all'eversione di destra, Pietro Rampulla, consegnò a Giovanni Brusca il telecomando per far saltare in aria un pezzo di autostrada; che i servizi segreti erano informati che cosa nostra avrebbe tentato il bis, uccidendo anche Paolo Borsellino. Sappiamo di più delle "menti raffinatissime" che all'Addaura avevano piazzato ventisei candelotti di dinamite a un passo dalla casa di Falcone.Che Rosario Cattafi, detto "Sariddu dei servizi segreti" messinese come Rampulla, era l'uomo ponte di Cosa nostra, massoneria e apparati deviati.Non tenendo conto dei collegamenti tra sistemi criminali diversi, il contesto delle stragi del 92 resterà forse impunito.

Anche in questa strage, come vedremo poi succedere per via D'Amelio, piccoli depistaggi: come l'identikit dei finti dipendenti della Sip che lavoravano a Capaci dato dal vicequestore La Barbera ai giornalisti di Repubblica Bolzoni e D'Avanzo che, anni dopo, raccontano dell'impressione di essere stati usati.

La strage di via D'Amelio

La strage di via D'Amelio è una vicenda che oggi sembra essere arrivata alla verità sul versante mafioso dell'organizzazione stragista ma che è ancora in alto mare quanto alle connivenze di uomini delle istituzioni e perfino su una porzione della fase esecutiva del delitto.Alcune certezze però, ormai si hanno: è certo che Vincenzo Scarantino fu un falso pentito; che i servizi segreti (anche nella persona di Bruno Contrada) vennero coinvolti da Giovanni Tinebra, allora procuratore capo a Caltanissetta, nell'attività informativa riguardante le indagini sulla strage di via D'Amelio; che un alto funzionario della polizia di Stato, Arnaldo La Barbera, a capo di una squadra investigativa creata appositamente per le stragi del 1992, perseguì pervicacemente una pista che poi si rivelò falsa, nonostante alcuni elementi la smentissero [..] nonostante l'intera procura di Palermo considerasse Scarantino talmente inattendibile da non utilizzare le sue dichiarazioni in alcun processo di mafia, nemmeno a suo carico. [..]Quello che è certo è il risultato di questo depistaggio ebbe: affievolire la centralità nell'esecuzione della strage del mandamento di Brancaccio e, quindi, dei fratelli Graviano (che, secondo la prospettazione della procura di Palermo, furono uno dei cardini dell'attuazione della strategia stragistica di Riina nel periodo della trattativa Stato-mafia).

Forse la vera ragione del depistaggio sta in quel particolare presente nel racconto di Spatuzza e assente nella finta confessione (concordata con gli uomini della squadra di La Barbera): ovvero in quell'uomo senza volto, presente nel garage in cui fu "preparata" la fiat 126

sicuramente estraneo a cosa nostra, plausibilmente appartenente ad apparati di polizia o di intelligence, impegnato nei preparativi della strage di via D'Amelio. Ecco forse a cosa serviva il "depistaggio di Scarantino": ad impedire che si potesse gungere alla conclusione che in via D'Amelio è stata, al contempo, una strage di mafia e una strage di stato.

Le stragi del 1993

Le bombe del 1993 che hanno colpito per lo più obiettivo del nostro patrimonio artistico, fanno parte di quel dialogo tra stato e mafia che a costituito la seconda parte della trattativa:

.. il procuratore fiorentino Gabriele Chelazzi parlò di "offesa all'umanità", consumata in questo caso ammazzando e sfregiando, tra gli altri, capolavori e luoghi di culto. Fu proprio Chelazzi a individuare per primo in quelle bombe il linguaggio di uno strano dialogo tra criminali di diversa natura e istituzioni, quella trattativa sinteticamente definita tra stato e mafia che ancora oggi impegna le aule di giustizia.Una trama che se ancora non è stata fotografata in una sentenza era chiara anche a inquirenti come Pierluigi Vigna:
«Penso che pezzi deviati dei servizi segreti siano stati gli ispiratori, e qualcosa anche di più, delle bombe di Firenze, Roma e Milano ..».Sullo sfondo di questa e altre vicende, si intravvedono le ombre di strane organizzazioni come la Falange Armata, che debuttò con l'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile e accompagnò la parte più sanguinosa della stagione della Uno Bianca.

Le trattative tra cosa nostra e lo stato

Almeno in primo grado (e potrà anche essere ribaltata nei giudizi successivi) la trattativa stato mafia esiste ed ha dei responsabili ben identificati: gli ufficiali del Ros che hanno preso contatto con Vito Ciancimino per vedere di fermare le bombe, senza avvisare la magistratura e cercando invece degli agganci politici.
Politici che hanno tutti dimostrato scarsa memoria: da Mancino a Martelli a Violante.
Alcuni sono morti, come Scalfaro, che si era prodigato per sostituire Amato dai vertici del DAP, con un più malleabile Amato, affiancato come vice dal procuratore Di Maggio (quello che aveva indagato per la prima volta sull'autoparco di via Salomone).
Altri, come Conso, hanno sempre sostenuto di aver agito in solitudine, come quando hanno tolto il 41 bis a 342 persone tra cui molti boss mafiosi.
Un segnale della trattativa. Un segnale che le bombe avevano funzionato.
Ci sono tanti enigmi in questa stagione, che viene riassunta "a futura memoria" in questo capitolo: chi suggerì gli obiettivi dei monumenti ai mafiosi, come mai si interruppe col fallito attentato allo stadio Olimpico ..
In attesa di un pentito di stato, tra gli uomini delle istituzioni che hanno vissuto quel periodo, quello che possiamo fare è solo mettere assieme i fatti.
Unire i puntini.
Dalla fine della prima repubblica, al crollo del Muro, agli incontri dei mafiosi nelle campagne di Enna, alle bombe del 1992 e alle bombe del 1993, i depistaggi, le morti e le trattative. Fino all'Italia è il paese che amo: la nascita del partito azienda (che metteva la parola fine ai progetti secessionistici delle leghe meridionali) da cui i mafiosi, per loro stessa confessione, si aspettavano di avere nuovamente quel rapporto con la politica che era proseguito indenne per anni.

La pacificazione da una repubblica all'altra

Nel capitolo finale, gli autori citano Pier Paolo Pasolini e il suo famoso articolo, "Che cos'è questo golpe", scritto nel 1975 dove aveva espresso tutti i suoi pensieri sulle stragi che hanno insanguinato l'Italia tra il 1969 e il 1974.
Abbiamo avuto un golpe anche tra la prima e la seconda repubblica?
Si, se per golpe intendiamo qualcosa che va oltre i carri armati e l'esercito che arresta sindacalisti e politici di sinistra.
Non siamo più negli anni sessanta, del golpe dei colonnelli e del tentato golpe Borghese.
Come aveva intuito Gelli col suo progetto di rinascita democratica, il golpe avrebbe potuto attuarsi tramite piccoli aggiustamenti alle leggi, all'ordinamento democratico.
Quel golpe si rendeva necessario a seguito del crollo del muro, dei partiti della prima repubblica in crisi per Tangentopoli.
PEr la sentenza del maxi processo che per la prima volta mandava in carcere con la pena dell'ergastolo i boss mafiosi, che per la prima volta metteva nero su bianco la mafia come struttura criminale verticistica e unitaria.

La presunta mafia, come oggi i garantisti (coi potenti) dicono presunta trattativa:

Com'era stato in ogni momento di svolta dell'Italia, anche nel 1992-93 Cosa nostra era vigile e pronta ad intervenire per salvare se stessa e partecipare al nuovo corso della storia italiana. La lunga compenetrazione tra cosche di mafia, logge massoniche deviate (la P2, ma non solo quella), iniziata nel 1979, rappresentava il trampolino di lancio ideale per la nuova fase storica.Una transizione che è stata accompagnata dalle bombe, dagli attentati, dal sangue.

Purtroppo, nei primi anni novanta non c'era più un intellettuale come Pasolini che ci potesse raccontare, in diretta quasi, questa svolta eversiva "che si squadernava davanti lo sguardo spaesato dell'intera nazione".

Il potere reale è stato traghettato verso gli uomini degli apparati di Polizia, dei servizi segreti, delle banche, del mondo finanziario, delle compagnie telefoniche, del settore della sicurezza, del controllo degli appalti pubblici, dell'industria di Stato e anche in esponenti del potere giudiziario.
Un sistema di potere che diventa sempre più simile alla Repubblica dei ricatti: quei ricatti nati dai depistaggi, dalle trattative, dalle stragi, dai cassetti tenuti ben chiusi.


Hanno collaborato a questo libro: Antonella Beccaria, Federica Fabbretti, Giuseppe Lo Bianco, Nunzia Mormile, Stefano Mormile, Fabio Repici, Giovanni Spinosa

La scheda del libro sul sito di Paperfirst e il sito dedicato a questo progetto.
Alcuni estratti
- la prefazione di Marco Travaglio (link)
- Borsellino, l'uomo del telecomando e le telefonate alla madre (link)

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