27 ottobre 2018

Il fantasma del ponte di ferro, di Piero Colaprico



1985

«Signor Binda, sono la custode, buongiorno.»Alba. Da quando era morta Rachele, Pietro Binda avvertiva un buco infuocato al centro del petto. La moglie, la compagna di una vita intera, con tutte le soddisfazioni e le tante difficoltà annesse e connesse, la madre del suo unico figlio, se n'era andata per malattia, eppure ...Eppure «s'era consolato presto, el Peder», dicevano di lui al paese. Alba qualche volta dormiva a casa sua, e qualche volta era Binda a dormire da lei, nei due locali della portineria, stando bene attento a non farsi beccare in vestaglia e pantofole dagli altri condomini.Alba era più giovane, e l'aveva conquistato mandandogli qualche pietanza appena cucinata nelle sere in cui, nel silenzio immobile della casa, lui non aveva nemmeno la voglia di apparecchiarsi la tavola.

Il fantasma del ponte di ferro è un tuffo nel passato per il maresciallo Binda, in quell'inchiesta avvenuta nei primi mesi del 1972 che non era riuscito a chiudere, non come voleva lui.
Un anno di sangue, il 1972: il cadavere di Giangiacomo Feltrinelli trovato sotto un traliccio a Segrate, il commissario Calabresi ucciso da un commando di Lotta Continua sotto casa, la strage alle Olimpiadi di Monaco e l'altra strage a Peteano, contro i carabinieri.
Erano gli anni settanta e in Italia si aprì un fronte per una guerra a bassa intensità, ma non meno dolorosa, che finì con la bomba di Bologna.
Ma quel cadavere, quel corpo trovato morto sotto il ponte di Ferro sul Naviglio, aveva ossessionato il maresciallo della squadra omicidi Pietro Binda, nonostante l'inchiesta si era conclusa con un responsabile.
Che però non era responsabile di nulla, il Binda l'aveva capito: aveva capito che si era fatto prendere in giro da quegli strani personaggi che si erano mossi attorno alla sua inchiesta, per aiutarlo.
Il colonnello dei carabinieri Casiraghi, a capo delle operazioni speciali, quelle che non possono essere portate alla luce del sole.
Quel russo, ufficialmente uomo d'affari, in realtà una spia del Kgb.

E ora, nel 1985, tredici anni dopo, c'è la possibilità di riaprire il caso e di chiudere i conti con l'assassino, con quel fantasma che Binda non si era dimenticato.
Il caso che i giornali avevano chiamato della "decapitata del Pont de Ferr":
.. era così che tredici anni prima, nel 1972, i giornali avevano ribattezzato nei primi giorni di quel terribile caso di cronaca che aveva insanguinato una Milano ancora stravolta dalla strage di Piazza Fontana, esasperata dagli scontri tra gli estremisti, preoccupata dalle manovre sotterranee, di chi voleva riportare nel Paese il fascismo e mettere i generali al posto della democrazia. La città avrebbe visto poi altre morti, altre croci, un rosario di lapidi e di "cadaveri eccellenti" ..

Alla sua porta, non più di responsabile della sezione omicidi, ma di investigatore privato (dopo essere andato in pensione dall'Arma) si presenta una bellissima ragazza di origine russa, Olga, che sostiene di essere la figlia di una violinista russa Victorjia Novgorodova, anche lei protagonista di questa storia, scomparsa in quel inverno. Olga intende scoprire cosa sia successo alla madre e porta a Binda un importante indizio.

1972, fine gennaio 
Dino Buzzati era morto.
«Sali in macchina dài, che dobbiamo correre sul Naviglio.»
 
«Chi hanno ucciso?» 
«Una donna. Decapitata e impiccata, l'hanno appesa sotto il Pont de Ferr.» 
«Decapitata, dici? E allora come l'avrebbero impiccata? Giudici, ti sei alzato presto ma ti sei svegliato tardi come gli svizzeri.»

In una mattinata di quelle dove la scighera ti si attacca addosso, sotto il ponte di via Ludovico il Moro, el Pont de Ferr, viene trovato il corpo di una persona, in abiti femminili.
Una situazione quasi surreale: un corpo senza testa, quella chissà dov'è finita, tenuto appeso al ponte da dei nodi che sembrano fatti da persone esperte.

Non sono abiti qualunque, sembrano abiti di scena quasi, con tanto di scarpe col tacco e un archetto, forse di violino, infilato nel vestito.
E dall'altra parte del naviglio, la poetessa Alda Merini lo osserva al maresciallo,
mentre grida quelle parole al cielo, Di-noooo .. forse quel Dino Buzzati, scrittore e giornalista morto da poco.
Ma il morto riserva altre sorprese: prima di tutto non è una donna ma un uomo. La testa, a sentire il medico legale Buoncompagni, è stata tagliata da qualcuno che sapeva ciò che faceva. Un bel lavoro, se così si può dire.

Ci sarebbero anche dei testimoni, che erano in giro dalle parti del Naviglio in quella sera: sono un gruppo ben noto al Binda, cantanti da osteria, balordi, ubriaconi. Dicono di aver visto un tale in barca, vestito come Belfagor, sotto il ponte.
Ci mancava solo Belfagor, il fantasma sotto il ponte, che poi se ne va via con la sua barca.
E la testa? Viene ritrovata dai colleghi del Binda più in là, in vicolo dei lavandai, dentro uno straccio.
E' un delitto fatto con cura – Binda lo capisce subito – fatto da una persona capace di decapitare una testa e di mantenere il sangue freddo per preparare quella messinscena. Quel cadavere è un messaggio per qualcuno. Ma, dentro la testa del morto, viene trovato un vero messaggio, scritto in cirillico: una parola sola, la parola “gioielli”.

Inizia così, nella memoria del Binda che racconta questi fatti alla sua compagna di oggi, la portinaia Alba, la giornata intensa della squadra omicidi a caccia del fantasma del ponte.
Partendo dall'identità del morto, andando a cercarla tra le persone scomparse: tra queste, il magazziniere del Conservatorio, Fabrizio Pasteur, sparito da qualche giorno, di cui non ne sa nulla né la madre e nemmeno il direttore del Conservatorio.
È una pista che porta Binda e i suoi collaboratori, riluttanti al lavoro di indagine su strada (della congregazione di Sant'Andrea, quelli che “t'èe scapaa la voeja e t'è restaa l'ideja”) nel mondo della piccola criminalità, piccoli furti.
Fabrizio si arrangiava, per aiutare la madre, anche se negli ultimi tempi era cambiato.
Perché, per esempio, era stato visto all'Hotel Diana a bere champagne assieme alla celebre violinista Victorja Novgorodova, scomparsa a fine dicembre.

Aveva vissuto attimi intensi, ore intense. E quegli attimi, quelle ore, sembravano un presente continuo, un tutt'uno, ma dalle otto a mezzanotte erano passate sedici ore che l'avevano spossato, anche se poco prima, quando la visita al Conservatorio gli aveva regalato un bell'aiuto per l'indagini sul fantasma del Pont de Ferr, si era risentito pieno di forze.

Il caso di omicidio si tramuta in un'inchiesta delicata, un intrigo internazionale, quando il colonnello Casiraghi, il superiore che voleva portarlo con sé dentro la squadra per le operazioni speciali (e anche sporche) lo affianca ad un agente del KGB, anche lui molto interessato alla scomparsa della violinista.
Spie, piccoli ladri da strada, una violinista celebre sparita nel nulla e un magazziniere del Conservatorio trovato morto. Quel messaggio sibillino, “gioielli” e quella oscura storia di gioielli dello zar, fatti sparire dalla Russia comunista, dove notoriamente non esistono delitti.

Binda non si capacitava, quello che gli stava accadendo sembrava una nemesi storica: era rimasto alla Omicidi per avere a che fare con le luci e con le ombre degli esseri umani, adesso si ritrovava dentro le luci e le ombre degli Stati, incarnati dai loro apparati di sicurezza e dalle loro trame.Stava conducendo un'indagine sulla tragica fine di un uomo travestito da donna e appeso sotto Il Pont de Ferr? O sulla vittima designata di uno scontro tra gang internazionali, tra uomini misteriosi, capaci di mimetizzarsi, di sfuggire a qualsiasi controllo e attraversare qualsiasi frontiera, composte com'erano da poliziotti corrotti, con la mentalità dei ladri e delle spie?

Tempo di chiudere i conti.

L''inchiesta del 1972 si era conclusa in un modo che non aveva soddisfatto Binda. Un colpevole di comodo schiaffato in carcere e poi fatto fuori da killer ergastolani. Nell'ex maresciallo è rimasta la sensazione di essere stato preso in giro e il fastidio di aver dovuto accettare una soluzione di comodo.
Ma ora, con l'indizio che Olga gli ha lasciato, c'è modo di riaprire quel caso, di ritornare a fare le domande ai superstiti di quella storia.
Perché Binda è un uomo “giusto”, così lo definisce Alba, la donna che gli sta accanto dopo la morte della moglie Rachele. Un uomo giusto che deve cercare la verità, che non si accontenta di una verità aggiustata, in nome di qualche ragione di Stato.
.. era la prima volta che Binda si sentiva definire “giusto”. Forse lo aveva sempre dato per scontato: in fondo col passare del tempo s'era radicata in lui l'idea che tutta la verità sia difficile da ottenere, ma che esistono pezzi di verità oggettiva. Verità incontrovertibili. Senza smentite. E per gli onesti, i giusti e gli ostinati questo ha una conseguenza inevitabile: quando si riescono a mettere insieme tanti pezzettini di verità, a sommare ciò che è certamente vero e sottrarre ciò che certamente non vero, l'uomo che investiga si avvicina molto alla Verità assoluta.

E' arrivato il momento di fare giustizia per i troppi morti della storia, persone che non avevano colpe se non essere rimaste invischiate in questa storia, in cui tutto è intrecciato, spie, ragione di Stato e ragione criminale.
Per scoprire che dietro la brutta storia della decapitata del Pont de Ferr non c'è solo avidità, ma anche uno strano modo di concepire l'amore. Possessivo.
Nel corso del racconto, la domanda che sentiamo ripetersi di continuo a Binda è la stessa: esiste veramente l'amore tra le persone? E quanti ne esistono di amori? Ce n'è uno solo?

Un altro bel giallo di Piero Colaprico, che ha ritirato fuori "El Peder" Binda (Pietro, come l'amico Pietro Valpreda) su insistenza dei tanti lettori appassionati di questo vecchio investigatore milanese. 
Che ne ha viste di cose nella vita.
La Milano degli anni di piombo e quella della Milano da bere.
Chissà che l'insistenza non ci regali qualche altro capitolo dell'autunno del maresciallo?

La scheda del libro sul sito dell'editore Rizzoli
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