31 dicembre 2018

Buon anno, nonostante tutto


Meno 10
Meno 9

Meno ipocrisia
Meno ignoranza
Meno pregiudizi
Meno faciloneria
Meno politica a colpi di tweet
Meno spacconaggini

Meno 8
Meno 7

Meno dittatura della maggioranza
Meno governo che umilia il Parlamento
Meno opposizione da caciara

Meno 6
Meno 5

Meno fascismi
Meno egoismi
Meno violenza
Meno sfruttamento

Meno 4
Meno 3

Meno muri
Meno mafie
Meno omertà

Meno 2
Meno 1

Tanti buoni auspici per questo 2019, che nasce già con troppi problemi sul groppone, ahimè non per colpa sua. Un po' come certi bambini che nascono dalla parte sbagliata del pianeta.

Ovviamente, possiamo scrivere le stesse cose dall'altro punto di vista: più giustizia, più ridistribuzione, più diritti, più Costituzione …

Buon anno, nonostante tutto

Maigret ha paura, di Georges Simenon



Incipit
Improvvisamente, tra due stazioncine anonime di cui nel buio non vide quasi nulla - solo dei fili di pioggia alla luce del lampione e sagome che spingevano carrelli -, Maigret si chiese perché mai fosse lì.Se era forse assopito per un po', nel calore soffocante dello scompartimento.
Non doveva però essersi completamente addormentato, perché si rendeva conto di essere su un treno; ne sentiva il rumore sordo e avrebbe giurato di non aver mai smesso di scorgere, nel mezzo della distesa oscura dei campi, le finestre illuminate di una fattoria isolata. Luci e rumori erano ben reali, come l'odore della fuliggine, mescolato a quello dei suoi vestiti bagnati, e il brusio ininterrotto di voci in uno scompartimento vicino. Ma tutto questo, anziché far parte del presente, sembrava al di fuori dello spazio e soprattutto del tempo.Avrebbe potuto trovarsi altrove, su un qualunque trenino che attraversava la campagna, e avrebbe potuto essere un Maigret di quindici anni che il sabato tornava a casa dal collegio su un accelerato identico ..

Un'indagine particolare, questa di Maigret. Particolare perché ci si trova dentro quasi per caso: è di ritorno da un noioso convegno di polizia a Bordeaux, quando decide di fermarsi a Fontenay per andare a trovare quel vecchio compagno di studi, Julien Chabot, a cui aveva sempre promesso di andarlo a trovare.
Un compagno di viaggio, un signore anziano ma ben curato nell'aspetto, gli chiede se anche lui sia venuto qui per indagare sul caso Courcon.

«Strano, vero?» diceva l'altro con ironia. 
«Che cosa c'è di strano?» 
«Che il commissario Maigret, che certamente non ha mai messo piede a Fontenay prima d'ora ..»

Fontenay-Le-Comte è una piccola cittadina di provincia in Vandea, dove l'amico Chabot è giudice istruttore: una città dove ci si conosce tutti, pochi palazzi nobiliari, un caffé e dove, lo racconta Maigret stesso, a cinquecento metri dalla strada principale del paese pascolano le mucche.
Proprio qui sono avvenuti due omicidi, uno dopo l'altro, con le stesse modalità: due persone uccise con un colpo in testa, il signor Robert De Courcon, esponente di una vecchia aristocrazia e la vedova Gibon, una signora che non usciva mai di casa.
Quasi in contemporanea con l'arrivo di Maigret a casa dell'amico, viene trovata morta per strada una terza persona dal medico Alain Vernoux: si tratta dell'ubriacone del paese, Gobillard, uno che campava raccogliendo pelli di coniglio.

Maigret si rende conto, fin da subito, della strano clima che si respira in paese: la frattura che esiste tra il “clan” dei notabili a cui appartiene la prima vittima, Courcon, e il resto del paese, che assiste ai delitti con la paura che circoli un pazzo. Un pazzo pronto ad uccidere nuovamente.
C'è un altro motivo di tensione: anche il giudice Chabot, come la vittima, come il signor Vernoux (la persona che Maigret ha incontrato sul treno, che è anche cognato della vittima) fa parte di quel clan, che nel paese costituisce un mondo a sé, all'interno di cui dovrebbe indagare.

L'amico Chabot gli esprime le sue preoccupazioni, il dover indagare in quel clan, il sentirsi il peso dell'inchiesta addosso, l'idea di sentirsi “come un funzionario di provincia terrorizzato dall'idea di commettere passi falsi”.
Tutti nel paese sono convinti che Maigret stia indagando sul caso, anche Chabot gradirebbe l'aiuto di Maigret che invece, preferisce rimanere in disparte, osservatore esterno, incupito da quella pioggia battente in quel posto, mentre magari a Parigi è già arrivata la primavera.
Il commissario segue il giudice nella sua indagine: quest'ultimo gli spiega i rapporti tra i Courcon, vecchia aristocrazia terriera a cui è rimasto solo il titolo e i Vernoux (arricchitisi con la vendita di terreni e bestiame), cui sono imparentati per il matrimonio di Hubert con una delle figlie del morto. Un matrimonio di convenienza, dunque.
Tante voci circolano in paese, sul delitto e sulle due famiglie: voci che circolano per l'atteggiamento chiuso dei Courcon e dei Vernoux, un mondo a sé nella città, voci che tirano in ballo una tara mentale in entrambe le famiglie (e non è stato dunque un pazzo a compiere quei delitti?).

L’atmosfera della città restava inquietante. La gente sbrigava le faccende di sempre, ma nello sguardo dei passanti si coglieva una certa angoscia: sembrava che camminassero più in fretta, come per paura di veder spuntare di colpo l’assassino. Maigret avrebbe giurato che di solito le casalinghe non stavano in gruppo sulle porte, come facevano adesso, a parlare sottovoce tra di loro. 
Tutti lo seguivano con lo sguardo e a lui sembrava di leggere sui visi una domanda silenziosa. Avrebbe fatto qualcosa? O lo sconosciuto avrebbe potuto continuare a uccidere impunemente? 
Alcuni gli rivolgevano un saluto timido, come per dirgli: “Sappiamo chi è lei. Ha fama di condurre in porto le inchieste più difficili. E non si lascerà impressionare da certi personaggi, lei”.

C'è una parola, che nel romanzo viene continuamente ripetuta, dai protagonisti della storia: la paura.
La paura nel non riuscire a risolvere il caso per il giudice Chabot.
La paura che serpeggia tra gli abitanti della città.
La paura all'interno di queste famiglie del “clan” di non riuscire a salvare le apparenze.
La paura o il timore da parte di Maigret che tutta la tensione che si sta accumulando in paese sfoci ad un desiderio di giustizia fai da te. Infatti, la sera, nelle vie del paese e di fronte alla casa dei Vernoux, iniziano ad apparire delle persone con una fascia al braccio e un manganello: sono i membri dell'auto costituitosi comitato di sorveglianza.
Tutti gli occhi sono puntati proprio verso questa famiglia anzi, verso il figlio medico che però, passa il tempo nella ricerca sulla pazzia.

Un'indagine strana, dove Maigret, pur riluttante, è costretto a partecipare e a cui riuscirà a dare anche un contributo per la risoluzione del caso, di cui non vedrà la fine per il suo ritorno a Parigi, il dovere lo chiama.
In Maigret ha paura Simenon fa un disegno della provincia francese, con la sua aristocrazia rimasta legata al suo passato, invecchiata male.
E dove la pioggia che batte incessante sulle strade e sulle persone non riesce a pulir via lo sporco.

La scheda del libro sul sito dell'editore Adelphi
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

28 dicembre 2018

12 dicembre 1969 di Mirco Dondi (Laterza editore)


Fine decennio, punto di svolta 
Milano, Piazza Fontana, sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Alle 16,37 del 12 dicembre 1969 esplode un ordigno che provoca 17 morti e 88 feriti. È il più grave atto terroristico mai compiuto sino a questo momento nell’Italia repubblicana, un’estremità temporale che trancia un’epoca.

La perdita della nostra verginità, la madre di tutte le stragi: la bomba scoppiata nella Banca dell'Agricoltura il 12 dicembre 1969 è stata chiamata in tanti modi, tanto da ridurla ad una formula geografica, per semplicità, come tante altre storie del nostro paese. Piazza Fontana.
L'atto terroristico più grave, fino a quel momento, della nostra storia: una vicenda che ha portato ad una serie di processi che si sono chiusi solo dopo 30 anni, senza nessun colpevole per la magistratura.
Piazza Fontana è la storia delle vittime innocenti, 17 persone che si trovavano dentro l'atrio della banca per concludere delle transazioni che riguardavano terreni, animali o semplicemente per cambiare una cambiale.
Piazza Fontana è anche lo snodo di un'epoca che segna il passaggio da un prima e un poi: l'ambizione spezzata di un paese che chiedeva alle istituzioni maggiori diritti, meno rigidità, le casa per vivere, luoghi di lavoro sicuri dove non ammalarsi.

Il saggio di Marco Dondi si intitola semplicemente 12 dicembre 1969: l'autore racconta la vicenda partendo dalle vittime, chi erano e cosa erano venute a fare in quella banca. Il contesto in cui è maturata la strage:
La Banca Nazionale dell’Agricoltura non è una banca frequentata dalla borghesia agiata che abita nei palazzi circostanti [..] sono presenti tutte le figure che animano queste contrattazioni: fattori, mediatori, semplici agricoltori. Si commerciano bestiame e derrate alimentari,

Poi i nomi dei carnefici che, a più livelli, hanno ideato e realizzato la strage, depistato le indagini, portato l'opinione pubblica verso una certa direzione, proteggendo i responsabili. I neofascisti di Ordine nuovo e Avanguardia Nazionale, i nostri servizi segreti che controllavano e manovravano i neofascisti, (italiani e stranieri) su fino a salire al livello politico che era a conoscenza della verità ma hanno preferito tacere.
Una strage? Perché?”

Questo si chiedevano i milanesi che, con un contegno ammirevole erano tutti lì, raccolti silenziosi sul sagrato del Duomo per dare l'ultimo saluto ai morti.
L'autore lo spiega, quel perché: perché quella bomba, perché quelle morti (volute, chi ha messo la bomba cercava quelle morti), perché poi si seguì inutilmente la pista rossa, gli anarchici imputati inizialmente come responsabili e “il noto Valpreda” come mostro da sbattere in prima pagina sui giornali.

Erano i mesi dell'autunno caldo, dove le rivendicazioni degli operai si stavano saldando con le proteste degli studenti:
La stagione riformatrice, abortita nel 1964 con la minaccia autoritaria del Piano Solo, torna a manifestarsi sospinta dalla pressione popolare. La legge sul divorzio e l'attuazione dell'ordinamento regionale - due provvedimenti da sempre osteggiati dal fronte conservatore - sono in corso di approvazione così come i nuovi contratti di lavoro (quello dei chimici è firmato il 7 dicembre) sono ad un passo dalla chiusura.Si passa dal Sessantotto studentesco al Sessantanove operaio, un condensato di rivendicazioni che in Francia si racchiude nell'intenso maggio del 1968 mentre in Italia si spande nell'anno successivo con maggiore efficacia. L'attivismo della piazze è avversato, con varia intensità, dai principali giornali di informazione. La richiesta di maggiori diritti si innerva anche di aspirazioni rivoluzionarie, specie tra i gruppi giovanili e studenteschi.Il quadro sociale è fortemente polarizzato. Il fronte più conservatore, sfruttando i suoi rivoli interni alle istituzioni, è intenzionato a fermare questo processo non disdegnando soluzioni fuori dalla prassi democratica.D'altronde il contesto della guerra fredda consente informali spazi di azione oltre la legge, al fine di raggiungere un equilibrio politico gradito. E' questo lo scenario che si muove attorno alla strage di Piazza Fontana.

Possiamo leggere il disegno della strage ricorrendo alla metafora dei cerchi concentrici: in mezzo i neo fascisti che attraverso le bombe della primavera estate del 1969, e quella di Milano, intendevano creare un clima favorevole per un colpo di stato analogo a quello avvenuto in Grecia.
In un cerchio più esterno il servizio militare, il SID, e quello del Viminale, l'Ufficio Affari Riservati, da cerniera tra la manovalanza nera e i riferimenti politici, a cui quelle bombe servivano per bloccare la contestazione, per attaccare le sinistre, per tenere fermo e ancorato il paese allo Status Quo e bloccare quelle riforme che avrebbero reso l'Italia un paese moderno.
Quelle persone, le 17 vittime (e gli 83 feriti, tra cui anche un ragazzino di 12 anni ragazzino di 12 anni, Enrico Pizzamiglio), erano solo un danno collaterale nel disegno cinico degli attentatori.
Disegno che era stato spiegato durante il convegno organizzato dall'istituto Pollio, dal giornalista del SID Guido Giannettini e dall'ordinovista Pino Rauti.
Fermate l'avanzata delle forze di sinistra con metodi non ortodossi:
L’inserimento di provocatori in gruppi scarsamente organizzati dell’estrema sinistra punta a spingere queste formazioni verso la violenza, per radicalizzare il quadro sociale

La pista rossa

Fin dalle prime ore gli inquirenti indirizzano le indagini in una direzione ben precisa: la pista rossa che porta ai gruppi anarchici già ritenuti responsabili delle bombe esplose a Milano nella primavera estate del 1969 (bombe di cui invece sono responsabili i fascisti di Ordine Nuovo, come emergerà dopo).
A Milano vengono portati in Questura gli anarchici del Ponte della Ghisolfa, il gruppo di Giuseppe Pinelli.
Ma l'obiettivo a cui puntano sembra ancora più preciso: Pietro Valpreda, ballerino e anarchico, cacciato da Pinelli dal suo gruppo e fondatore di un circolo a Roma, il XXII marzo.
E' lui la persona che ha messo la bomba: ne è convinta la squadra politica e c'è pure un riconoscimento fatto da un tassista milanese che avrebbe accompagnato una persona proprio davanti la banca per essere poi portato poco lontano.
In un riconoscimento poco rispettoso delle forme, Rolandi riconosce in Valpreda questa persona
«Ma mi hai guardato bene?». Rolandi è colto di sorpresa e risponde in milanese: «Se non è lui, qui non c’è». L’avvocato Calvi fa notare che il teste sta ritrattando. Occorsio però non raccoglie l’obiezione e insiste..

Valpreda è il mostro sbattuto in prima pagina.
Mentre Valpreda viene sbattuto in prima pagina sui quotidiani (alcuni dei quali bene informati sui fatti, come il Corriere su cui scrive Giorgio Zicari, pure lui legato al SID), in Questura avviene un episodio che avrà gravi conseguenze: Giuseppe Pinelli, interrogato ben oltre i termini stabiliti dal codice:

Pur di ottenere elementi di prova contro Valpreda, il capo dell’Ufficio politico della questura Antonino Allegra rivolge a Pinelli una pesante minaccia: «Ti darò la prova che tu hai messo la bomba all’Ufficio cambi» il 25 aprile 1969.

Pinelli muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, per un malore attivo dice la sentenza del giudice D'Ambrosio, anni dopo.
Forse. Di certo è morto mentre era nelle mani dello Stato, è stato accusato in modo vigliacco dal Questore come implicato nella strage. Pure lui è una vittima della strage.

Il 15 è anche il giorno del funerale delle vittime: la risposta dei cittadini milanese racconta dello sgomento, perché quella bomba. Ma la loro compostezza, il silenzio davanti al Duomo, sono una risposta del paese alle istituzioni.
«Ho voluto dire ai colpevoli che se hanno avuto intenzione di metterci paura, con me e con queste persone non ci sono riusciti», Alberto Grisolia un vecchio militante del Partito d’azione.

In Parlamento nel frattempo la bomba fa discutere: si evoca il 1922, dove le sinistre ora sono simbolo della minaccia alla democrazia (mentre allora erano le squadracce fasciste, lasciate agire impunite).
L’obiettivo dei partiti conservatori e autoritari è saldare il conto con la conflittualità sociale, giudicata responsabile dell’innalzamento della tensione.«Autunno caldo» è definita, con tono allarmistico, questa stagione. I sindacati, supplendo ai partiti, divengono protagonisti, con la stipulazione di nuovi contratti di lavoro, di un'importante manovra di redistribuzione della ricchezza.
La forza della piazza traina verso politiche apertamente riformiste governi solitamente attenti a non perturbare gli equilibri di potere. Socialdemocratici, liberali e neofascisti del Msi accusano il governo di essere stato debole dinanzi alle rivendicazioni sociali ritenendo l'attentato il frutto delle conseguenze dei una situazione lasciata colpevolmente degenerare. E' una corrente di pensiero che va al di là della forza parlamentare di questi tre partiti ed è sostenuta da quasi tutte le testate di opinione, ad accezione di «Il Giorno» e «La Stampa», oltre ai quotidiani vicini al PCI come «Paese Sera» e «L'Ora».

A Roma, mentre in Parlamento si discute se limitare le libertà costituzionali per arrivare ad uno stato di emergenza, in altri uffici, al SID, si prepara il terreno per la pista rossa con prove false.
E' in questa direzione l'appunto del 17 dicembre che arriva ai magistrati dove si parla dell'agenzia Aginter Press, responsabile dei finti manifesti trovati a Milano a rivendicazione della strage.
Nell'appunto, falso, si indica questa agenzia di matrice rossa e si indica «l’anarchico Mario Merlino» come «esecutore materiale degli attentati dinamitardi a Roma».
Falso: si scoprirà poi come Merlino era un fascista legato ad Avanguardia Nazionale che era stato infiltrato nel circolo XXII marzo dai servizi.
La scia di sangue non si ferma con le 17 vittime della bomba: nei giorni successivi avvengono strani suicidi: l’avvocato Vittorio Ambrosini (che aveva scritto due lettere al ministro Restivo in cui si indicava la paternità fascista della bomba); il tesoriere del Fronte Nazionale di Borghese Armando Calzolari (suicida in un pozzo d'acqua di 80 cm). A settembre era morto in uno strano incidente il portiere di uno stabile a Padova, Alberto Muraro, che doveva testimoniare sugli strani incontri che avvenivano in un appartamento di Fachini (consigliere MSI) con gli ordinovisti ritenuti responsabili di una bomba scoppiata nello studio del rettore dell'università Opocher.

Le bombe dell'estate 69 e le bombe di Roma e Milano del 12 dicembre puntavano a creare nel paese un clima di tensione, che avrebbe dovuto portare poi ad una svolta autoritaria nel paese. A questo puntavano i gruppi fascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Nel progetto ordinovista e missino la strage di Piazza Fontana deve culminare con un cambiamento degli equilibri politici”, doveva tutto culminare con la manifestazione del 14 dicembre a Roma.Si aspettavano infatti “la risposta delle istituzioni – già minate dallo choc di Piazza Fontana – avrebbe portato alla proclamazione dello stato di emergenza”.

Il termine “strategia della tensione” è coniato la prima volta dal periodico inglese Observer che in un articolo dl 14 dicembre: dietro alle bombe l'Observer vede gli eventi politico-sociali del periodo luglio-dicembre ’69.
Una violenza di stato, di cui parla Norberto Bobbio sulla rivista Resistenza, che doveva portare all'insurrezione, per arrivare a nuovi assetti politici.
Magari un modello presidenziale cui auspicava il presidente Saragat e altri esponenti politici socialdemocratici, presenti nell'esecutivo di governo: “progetto sul quale convergono Stati Uniti e Confindustria”.
Abbiamo rischiato un colpo di Stato in quei giorni di dicembre?

Forse anche grazie alla mediazione di Moro e alle incertezze del presidente del Consiglio Rumor, non viene applicato lo Stato di emergenza: verrà garantita la continuità istituzionale, nei limiti della guerra fredda, col pegno che le verità sulla strage arrivate al livello politico saranno tenute nascoste.
Ad intaccare la pista rossa arriva la deposizione del professor GuidoLorenzon, consigliere comunale della DC in un comune di Treviso: amico di Ventura, aveva raccolto le sue confidenze in cui si vantava delle bombe fatte scoppiare a Milano. E anche alla bomba scoppiata alla Banca dell'Agricoltura

Ventura è rivolto alle conseguenze degli attentati: «disse che se né a destra né a sinistra nessuno si fosse mosso bisognava fare qualcos’altro».

L’affermazione di una possibile espansione stragista spinge Lorenzon a rivolgersi al suo avvocato e al sostituto procuratore Calogero.
Da qui parte la pista nera: dal lavoro del giudice istruttore Giancarlo Stiz, dalle parole di Lorenzon e dal sostanziale fallimento della pista anarchica, che si era bloccata ai primi riscontri.


La pista nera e le coperture dei fascisti

Valpreda era sotto osservazione fin dal settembre 1969.
Il gruppo XXII marzo era infiltrato dal SID e dall'UAARR.
Come è possibile che abbiamo allora organizzato e portato a termine quegli attentati?

Quando si cercarono i primi riscontri alla pista anarchica, emersero i primi dubbi: come avrebbe fatto Valpreda a portare due bombe nelle due banche milanesi? Perché prendere un taxi e farsi così riconoscere?
I magistrati non solo erano stati imboccati verso una pista falsa: a loro erano stati sottratti pure delle prove (frammenti della borsa della banca commerciale contenenti esplosivo erano portati via da Russomanno) o non erano arrivate le testimonianze come quella del negoziante di borse che avrebbe venduto le quattro borse Mosbach-Gruber a Padova.

La pista nera parte dal lavoro del giudice Giancarlo Stiz che si basa sulle dichiarazioni di Lorenzon e dalle registrazioni dei suoi incontri con Franco Freda e Giovanni Ventura.
Viene scoperto poi un arsenale in una casa a Castelfranco Veneto nel novembre del ’71 e infine la scoperta di una cassetta di sicurezza, riferibile a Ventura, contenente dei rapporti informativi di Guido Giannettini del SID, in pratica l’anello di congiunzione tra lo Stato e la cellula ordinovista.
Chi sono questi neofascisti? Come hanno potuto agire così indisturbati?
L'analisi delle relazioni esistenti tra Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale da una parte e i servizi dall'altra porta in evidenza una ragnatela inquietante: inquietante per i stretti rapporti tra neofascisti e uomini dello Stato, inquietante perché non si capiva chi controllava chi (i servizi i neofascisti o cosa?).
Digilio, armiere di Ordine Nuovo, era anche una fonte CIA col nome di Erodoto.
Tramonte, sempre ON, era un'altra fonte del SID.
Ci sono i rapporti rivelati da Paolo Signorelli, un alto dirigente di Ordine nuovo, tra Rauti (fondatore di ON) e l'ambasciata americana, il suo ruolo di mediatore per la vendita di armi italiane verso i regimi autoritari di Spagna, Portogallo e Grecia.
Gianni Casalini, “fonte Turco”, dal 1972 al 1975 riferisce al Sid vicende sulla cellula padovana, ma Maletti non trasmette le sue informazioni alla magistratura.

Non solo: sono provati i rapporti tra Ordine Nuovo e lo Stato Maggiore dell'esercito, i servizi americani e l'Aginter Press, l'agenzia di stampa che diversi collaboratori di giustizia indicano come la “centrale nera” dietro a tutte le stragi del 1969-74.
Stragi che, ripetiamo, avevano come obiettivo non un vero e proprio colpo di Stato, ma “un più sensibile spostamento del quadro politico”, mantenendo la fedeltà atlantica.
È proprio la funzione di Giannettini, quale agente del Sid, che induce Franco Freda e Giovanni Ventura a sentirsi coperti dalle conseguenze della loro azione”.

Freda, Ventura e gli altri neofascisti si sentivano così tranquilli per i loro rapporti stretti con Guido Giannettini, l'agente dei servizi “bruciato” da una intervista di Andreotti nel giugno 1974, quando il processo di Catanzaro iniziava a toccare il livello politico.
Fino a questo momento si è parlato di magistrati, investigatori, spioni: ma delle bombe e dei veri responsabili quanto ne sapevano i politici di governo?
Al processo [di Catanzaro] va in scena lo scarico di responsabilità tra il potere militare e il potere politico, ma è l’imbarazzo dei politici ad assumere pubblico dominio.”

Se i servizi sapevano (addirittura Maletti racconta, ora, non ai tempi del processo, di essere stato a conoscenza della provenienza americana dell'esplosivo), sapevano anche i vertici dell'esecutivo a cui i generali del SID rispondevano.
Come il ministro della difesa Tanassi
Tanassi ha avallato tutte le decisioni prese dal Sid (sempre che non ne sia stato l’ispiratore) per coprire o far sparire uomini accusati di essere coinvolti in una strage.”

Andreotti che, come si è detto, diede il nome di Giannettini in pasto alla stampa (confermandone il ruolo di agente), quando al processo di Catanzaro sono tirati in ballo i politici.
Si è detto di Saragat e di Moro, che avrebbero avuto in faccia a faccia il 23 dicembre, una sorta di trattativa per mettere da parte velleità presidenziali in cambio del nascondere la pista nera agli italiani.

Pista nera che verrà percorsa dagli inquirenti milanesi (D'Ambrosio e i sostituti Fiasconaro e Alessandrini) e dai giudici di Catanzaro, dove fu spostato il processo contro Valpreda e sulla strage, per legittima suspicione.
Per evitare disordini e condizionamenti da parte dei familiari delle vittime che si videro così costretti, oltre a sopravvivere col lutto e coi problemi della vita di tutti i giorni, anche a farsi un viaggio di più di mille km per assistere alle udienze.

Epilogo: cosa rimane oggi al termine dei processi
Nessuno avrebbe potuto immaginare un iter processuale così lungo: una catena di rimandi in un’odissea giudiziaria che scavalla i decenni: dal 1979 al 2005 si contano 10 sentenze ..

Dalla prima sentenza di condanna, emessa nel 1979 dalla Corte di Assise, considerata la più vicina alla realtà, che condanna gli ordinovisti e anche Giannettini e rimanda al tribunale dei ministri i politici coinvolti (Andreotti, Rumor, Tanassi).
Tutti assolti, per insufficienza di prove o con altra formula nei giudizi successivi.
Per la giustizia italiana la strage di Piazza Fontana è un delitto senza colpevoli. Anzi no: il secondo processo milanese, nato dall'inchiesta di Salvini (che si basa sulle rivelazioni tra gli altri, di Vincenzo Vinciguerra), si conclude con la Cassazione che assolve ancora i neofascisti (ma non per le bombe della primavera estate 69, quelle sono loro), riconoscendo però Freda e Ventura responsabili ma non più processabili per il principio “ne bis in idem”.

La bomba è fascista: lo sappiamo per quanto detto dai pentiti, Martino Siciliano e Carlo Digilio (che la corte d'Appello di Milano non ha ritenuto però credibile).
Lo sappiamo per le tante similitudini con la strage di Brescia, dove ad un giudizio di colpevolezza si è arrivati (Carlo Maria Maggi e Maurizio Tritone).

Non è vero che i processi non servano: per quanto sia difficile far emergere la realtà a più di 40 anni di distanza, almeno a dei punti fermi si è arrivati.
Chiarire come, per una parte delle istituzioni fossero accettabili quelle morti, per spostare il baricentro politico del paese.
Per impedire un cambiamento nel paese.
Una strage di provocazione, la chiama l'autore: “un crimine eseguito per attribuirne la responsabilità a un altro soggetto politico.”

Anche se l'allora classe dirigente (che spesso si è nascosta dietro la Guerra Fredda) non è stata condannata, non è stata messa sotto accusa, ora sappiamo e abbiamo il dovere di portare avanti questa memoria.
Per il futuro di questo paese e per il rispetto che dobbiamo alle vittime e ai loro parenti, come Carlo Arnoldi:
«Quel 12 dicembre il mondo mi cadde improvvisamente addosso: da ragazzino spensierato che pensava solo alla scuola e al calcio, mi ritrovai coinvolto in una vicenda più grande di me».

La scheda del libro sul sito di Laterza, l'indice coi capitoli del libro
L'intervista all'autore sul sito Letture.org
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27 dicembre 2018

Dovevamo sentirci più sicuri

Dovevamo sentirci più sicuri, con un ministro che aveva dichiarato guerra alla ndrangheta ma poi il delitto di Pesaro ci ha dimostrato non solo che le mafie non dimenticano, ma che arrivano a colpire anche persone che dovevano essere protette dallo Stato.
Abbiamo chiuso i porti per non far arrivare i clandestini, ma abbiamo riscoperto (per l'ennesima volta a macerie fumanti) la fragilità del nostro territorio e l'assenza di piani adeguati per la messa in sicurezza dei territori.
Ci siamo indignati per i fischi allo stadio (e l'ultras morto allo stadio) contro un giocatore di colore, mentre trecento disperati vagano in mezzo al mare in attesa di un porto che li accolga.
Perché noi siamo cristiani da divano, cristiani da presepe.
Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato

No, questa parte del Vangelo (sarebbe il discorso della Montagna) non è nota ai salviniani.

Vi sentite più sicuri oggi, che avete sbarrato porte penalizzato chi lavora per l'integrazione, sul volontariato.
Il caso ha fatto sì che proprio in questi giorni, del delitto di Pesaro, del terremoto a Catania, sia morto uno dei responsabili della strage di Brescia (implicato anche in quella di Milano): Carlo Maria Maggi, medico a Mestre e ordinovista in Veneto.
Chissà se Salvini o Di Maio hanno mai sentito parlare di Piazza Fontana, della strategia della tensione.
Il terrorismo, in questo paese, ha spesso avuto una faccia normale, borghese.

26 dicembre 2018

12 dicembre 1969 - lo scenario attorno alla strage

I dimostranti per il diritto alla casa davanti al teatro Lirico a Milano (Wikipedia)

Fine decennio, punto di svolta 
Milano, Piazza Fontana, sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Alle 16,37 del 12 dicembre 1969 esplode un ordigno che provoca 17 morti e 88 feriti. È il più grave atto terroristico mai compiuto sino a questo momento nell’Italia repubblicana, un’estremità temporale che trancia un’epoca.

Pensavo che, 49 nove anni dopo la strage di Piazza Fontana, a più di dieci anni dall'ultima sentenza della Cassazione (quella che ha sancito le responsabilità degli ordinovisti Freda e Ventura sulla strage che però non sono più processabili) non ci fosse più molto altro da dire sulla bomba alla Banca dell'Agricoltura del 12 dicembre 1969.

Invece no: il libro del professor Mirco Dondi dell'università di Bologna riesce a colmare quelle lacune che mancavano nel racconto della strage di Milano all'interno della strategia della Tensione.
Per la semplicità della narrazione (gli atti giudiziari sono citati alla fine di ogni capitolo), perché ci racconta chi erano le vittime (contadini e allevatori della provincia milanese o di altre province lombarde). E chi erano i colpevoli, i fascisti e chi li allevati e protetti all'interno delle istituzioni (forze armate, servizi, uffici dei ministeri..)
Perché, soprattutto, ci racconta il contesto sociale e politico di quegli anni: che non erano ancora gli anni di piombi ma anzi, erano anni molto ferventi e positivi per il progresso della nostra democrazia.
Molte delle riforme approvate poi (da quelle sul lavoro, alla legge sul divorzio) nascono dallo spirito di quegli anni in cui studenti e operai scendono in piazza e scoprono il gusto del manifestare per i propri diritti.
Manifestare per cambiare le cose in un paese che erano ancora ingessato, legato al passato fascista (nelle Questure e nelle Procure erano presenti magistrati e dirigenti cresciuti col regime).
Un paese che stava per sbocciare, racconta Giorgio Boatti in un suo libro (e nella puntata di Blu Notte sulla strage).
Ecco, da qui bisogna partire per capire il perché di quella strage e chi si è mosso dietro gli attentatori fascisti di Ordine Nuovo:
Le mobilitazioni politico-sociali legate al rinnovo dei contratti di lavoro mostrano un seguito mai visto nel Novecento italiano, nemmeno durante il biennio rosso (1919-1920). Una forza contrattuale che modifica la distribuzione del reddito e sancisce, con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, nuove condizioni giuridiche nei rapporti di lavoro. La stagione riformatrice, abortita nel 1964 con la minaccia autoritaria del Piano Solo, torna a manifestarsi sospinta dalla pressione popolare. La legge sul divorzio e l'attuazione dell'ordinamento regionale - due provvedimenti da sempre osteggiati dal fronte conservatore - sono in corso di approvazione così come i nuovi contratti di lavoro (quello dei chimici è firmato il 7 dicembre) sono ad un passo dalla chiusura.Si passa dal Sessantotto studentesco al Sessantanove operaio, un condensato di rivendicazioni che in Francia si racchiude nell'intenso maggio del 1968 mentre in Italia si spande nell'anno successivo con maggiore efficacia. L'attivismo della piazze è avversato, con varia intensità, dai principali giornali di informazione. La richiesta di maggiori diritti si innerva anche di aspirazioni rivoluzionarie, specie tra i gruppi giovanili e studenteschi.Il quadro sociale è fortemente polarizzato. Il fronte più conservatore, sfruttando i suoi rivoli interni alle istituzioni, è intenzionato a fermare questo processo non disdegnando soluzioni fuori dalla prassi democratica.D'altronde il contesto della guerra fredda consente informali spazi di azione oltre la legge, al fine di raggiugere un equilibrio politico gradito. E' questo lo scenario che si muove attorno alla strage di Piazza Fontana. [12 dicembre 1969 di Marco Dondi Laterza]

24 dicembre 2018

Una giornata in giallo, raccolta di racconti di Camilleri, Savatteri, Malvaldi, Manotti, Piazzese, Recami, Costa e Giménez-Bartlett



Otto autori di giallo si sono cimentati nello scrivere un racconto breve, dalla durata di un giorno (o poco più), da cui il risultato della raccolta di Sellerio “Una giornata in giallo”.
Sono storie di delitti e di indagini, di casualità impreviste e di incontri particolari, di vendette e di amore.
Nonostante la vita metta i protagonisti di queste storie alle prese coi loro problemi, queste sono giornate che non dimenticheranno troppo facilmente.

Andrea Camilleri in “Ventiquattr'ore di ritardo” porta indietro nel tempo il suo commissario Montalbano, novello proprietario della sua casa di Marinella, il cui acquisto brinda al telefono con la sua Livia.
Ma quella bottiglia di Champagne lo metterà di fronte al dilemma di tanti siciliani, fidarsi dello Stato o chinare il capo alla mafia?

Non s'arricordava quali scrittori tanto tempo passato aviva affirmato che i siciliani si vinivano ad attrovari tral'incudini e il martello. Un'incudini legali che rapprisintava lo Stato e un martello illegali che rapprisintava la mafia

Gaetanno Svattari ne “La città perfetta” ci porta a Gibellina, la città distrutta nel terremoto del 1968 e che un gruppo di artisti pensò di ricostruire con le sue opere d'arte.
Ma una città, per vivere, ha anche bisogno di altro

«Gli artisti volevano aiutarvi, per questo sono venuti a Gibellina», accenna Suleima. 
«Lo so» fa Leone. «Lo so. E io li ringrazio. Di cuore. Ma non basta l'arte, ci vuole il pane e il companatico. E ci vuole il rispetto per le persone, per chi ha sofferto, per chi ha visto cadere il mondo … Ci hanno trattato da cavie di laboratorio. Hanno detto: sono trogloditi, sono animali, costruiamo un paese tutto nuovo così li civilizziamo»

Marco Malvaldi in “L'uomo vestito di arancione” sposta l'azione dalla sua Pineta in Olanda, ad Amsterdam, nel giorno della festività nazionale, dove la città si riempie di turisti in giro per le bancarelle.
Come Tiziana e Marchino, vittime di una storia ai limiti dell'inverosimile, per le troppe coincidenze che accadono nella stessa giornata.

Dominique Manotti costruisce il racconto breve con maggiori attinenze con quello che stiamo vivendo oggi in Italia e in Europa, in “Una giornata d'odio”: siamo a Marsiglia nel 1973 il commissario Daquin deve indagare sul delitto di un giovane immigrato algerino in cui sono invischiati anche poliziotti.
Una giornata d'odio, nata per un delitto compiuto da un immigrato con problemi mentali, per quel clima di odio contro gli immigrati su cui soffiano in tanti. L'estrema destra, finanziata dai fascisti italiani, i giornali e anche un pezzo dell'amministrazione pubblica.
Nessuna precauzione, di nessun tipo. La cultura dell'impunità, in tutto il suo splendore. Fra gli sbirri e i loro amici. Che cazzo ci faccio in questo merdaio?

Santo Piazzese in “Ballata della lucciola e di Maria Walewska” mette il suo personaggio Lorenzo La Marca di fronte alle sue paure, quelle dei serpenti: in una giornata di un luglio torrido a Palermo, la sua vita incrocia quella di uno scorsone, una biscia nera, che sembra ostinato a voler entrare dentro un negozio di pelletterie.
Scappare via o cercare di risolvere l'enigma di quello scorsone che sembrava perfino “ammaestrato”?
Però qualcosa mi frenava. La consapevolezza che la soluzione andava trovata nel quartiere. Emme Dabliu non doveva essere arrivata da molto lontano. Ma da dove?

Chi l'ha detto che le bisce non siano animali affettuosi e che le prostitute non leggano libri gialli?

Con Francesco Recami si sale su fino a Milano, la Milano delle periferie problematiche per la presenza degli immigrati, periferie che fanno notizia solo per le storie di cronaca. Quelle che legge il pensionato e vedovo signor Consonni nella sua casa di ringhiera che per un giorno deve accudire il suo nipote.
La rete nera e la rete bianca” è una storia di coincidenze fortuite che mette assieme l'imbranataggine di un uomo nei confronti dei problemi di un neonato, l'improvvisazione di un ladro di rame sfortunato e un idraulico che l'occasione trasforma in ladro.

Non conoscevo Gian Mauro Costa e nemmeno Angela Mazzola, protagonista del suo racconto “La grande rapina al furgoncino”: agente della Mobile alla sezione rapine, si imbatte in uno strano caso, un commando armato di Kalashnikov che rapina un furgoncino di “cacocciuli”, carciofi.
O forse portava qualcosa di diverso, come la droga. Ma perché quella rapina, perché in quel modo
Ammesso che i colleghi avessero trovato tracce di droga o d'altro, l'anomalia persisteva. Anzi si amplificava: perché dare così nell'occhio, con l'impiego di un intero commando, quando ai banditi sarebbe convenuto far passare l'episodio come una rapina qualsiasi, di routine, senza suscitare clamori e interrogativi?

E l'agente Mazzola, saprà trovare la pista giusta e che la porterà dentro la borgata della Guadagna, dove la mafia recluta la sua manovalanza, in mezzo a giovani dallo sguardo spento cresciuti in mezzo a soprusi, con l'illusione di una vita normale e una realtà con poche speranze.

Chiude la racconta Alicia Giménez-Bartlett con “Una strana giornata”: è la giornata che non si dimenticherà più l'ispettrice Petra Delicado. Rapita da una ragazza sotto il commissariato, come merce di scambio per un piccolo criminale appena arrestato per uno scippo finito male, in cui la vittima è finita accoltellata.
Un duro faccia a faccia tra la poliziotta e questa ragazza che, poco più di vent'anni, dopo tante amarezze, si è aggrappata a questo piccolo criminale come ciambella di salvataggio per una vita migliore.
«.. Aveva la disgrazia scritta in fronte, come un motto. Per molta gente è così, l'infelicità è un destino. Ma il peggio è che quando provano ad uscire dal copione tentano sempre soluzioni sbagliate, direi quasi opposte a quelle che potrebbero davvero aiutarle. Le loro vite sono costellate di errori».

La scheda del libro sul sito dell'editore Sellerio
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


23 dicembre 2018

Alla faccia del popolo

Passata l'euforia, spero si riuscirà a fare un'analisi meno emotiva di quanto successo in questi giorni.
Per esempio la manovra arrivata all'ultimo momento in Parlamento, senza discussione, coi tagli e gli aggiustamenti chiesti dall'Europa (come per le precedenti manovre) e con le due misure simbolo (quota 100 e reddito di cittadinanza) che sono rimaste ma che pagheremo care.
Questo governo, che ha dimostrato scarso rispetto per il Parlamento (e con un bel voltafaccia rispetto ai tempi in cui a mettere le fiducie erano gli altri) potrà ora vantarsi di aver portato a casa il risultato, potrà dire che meglio qualche giorno in più, se è per il bene del paese, anzi del popolo.
Ma prima o poi i pettini vengono al nodo.
I miliardi tolti per gli investimenti peseranno soprattutto al sud, sempre più spogliato di risorse, anche per l'emigrazione verso il nord o verso il resto dell'Europa.
Le imprese chiedevano semplificazioni, meno tasse, facilitazioni per le assunzioni (stile Poletti, pago e tu assumi) e ora si ritroveranno solo queste grandi opere che accontenteranno pochi (e non il popolo).
Il governo si ritroverà contro i tassisti, gli statali, i medici (rischiamo, coi prossimi pensionamenti dei medici di base di rimanere senza coperture) e perfino i terremotati lasciati anche quest'anno da soli. 

Che ci aspetta per i prossimi mesi?
L'opposizione ha gioco facile oggi a rinfacciare al governo giallo-verde quanto fatto: qualcuno però dovrebbe ricordare a PD e Forza Italia quanto fatto nel passato: dal voto per Ruby nipote di Mubarak ai canguri per approvare la legge elettorale (ne parla Silvia Truzzi sul FQ di oggi).
Ma cosa può proporre al paese?
Un esecutivo Draghi appoggiato da PD e a quello che rimane di Forza Italia?

Questo governo sta in piedi per convenienza di entrambi i soci, ma ora inizierà ufficialmente la campagna elettorale e capire come evolverà la situazione è cosa ardua.
Se è solo questione di convenienza ed opportunità, potrebbero durare a lungo. Alla faccia del popolo.

21 dicembre 2018

Pacco di Natale

Immagine presa dal seguente link

I parlamentari della Repubblica italiani hanno saputo che la direttiva Bolkenstein sarà rinviata a data da destinarsi (un regalo ai signori dei mercatini perché le licenze non saranno messe a gara) dal post su facebook del ministro della Repubblica Di Maio.

La prima manovra di un governo della Repubblica italiana di origine extraparlamentare, secondo la calzante definizione del senatore PD Marcucci, su cui l'opposizione in Parlamento non può in alcun modo interferire, analizzare, discutere.
Manovra che oggi passerà al Senato con voto di fiducia, stesso copione si ripeterà settimana prossima alla Camera. 

Manovra che si basa sulle due promesse del contratto di governo: il reddito di cittadinanza che non è un reddito di cittadinanza ma un welfare integrativo che da solo servirà a poco (senza una riforma delle agenzie per il lavoro) e la quota 100 (che non smantella la riforma delle pensioni dell'ex ministro Fornero).
L'importante è sbandierare le due promesse sui social (e se c'è tempo anche in Parlamento, ma niente domande).
Come l'importante è che passi nella manovra come emendamento anche l'autonomia delle due regioni del nord care alla Lega (perché va bene essere sovranisti, ma i voti li ha presi soprattutto al nord).
Un'autonomia che consisterà nel fatto che le regioni del nord ricche potranno tenersi più soldi da poter sprecare in modo clientelare.

Un bel pacco di Natale, non c'è dubbio.

20 dicembre 2018

Il silenzio e l'onore di Gianni Mattencini


Incipit
Il caposquadra cercava di muoversi leggero.Si vergognava dello scricchiolio feroce delle scarpe da lavoro sul pietrisco tagliente. Si vergognava della tuta sudicia di grasso e limatura di ferro, del pregno nella stoffa del fumo greve del carbon coke.Oppure era un odore che gli s'era appiccicato sotto la pelle e che nessun sapone e nessuna brusca gli avrebbero mai tolto di d'addosso. Più ancora si doleva della faccia mal rasata.
Dei capelli arruffati dal sudore e dalla polvere. Teneva il capo scoperto, per rispetto.E stringeva il basco nella mano sinistra martoriando con rancore verso sé stesso, per essere in quello stato.Tutto, però, era accaduto in fretta.Camminava, dunque, il caposquadra Gennaro Loiacono, con quel goffo incedere danzante sulle punte sperando che dalle suole non sprizzassero sassi.

Siamo in Calabria, in un piccolo borgo che si affaccia sul mar Ionio, nel novembre 1924.
Il noir di Gianni Mattencini comincia con una marcia: un gruppo variegato di persone che cammina su un sentiero dentro boschi, lungo il corso del fiume.
C'è il caposquadra di un gruppo di operai che sta lavorando alla costruzione di un ponte di ferro che passerà sopra il fiume Crati, per portare quel po' di progresso ad un borgo composto da anziani, pastori, gente che passa la giornata a vedere passare treni e discutere di donne nell'osteria.
C'è poi una donna, che l'autore descrive come magra, asciutta, vestita come una donna di città con un tailleur che le stringe le gambe e che la fa muovere con difficoltà. Ma che, nonostante le difficoltà del percorso, continua ad andare avanti.
Infine una persona anziana, don Adriano, che chiude il gruppo continuando a chiedere al caposquadra “quando, allora, Gennaro?”.

Dove stanno andando queste persone, perché non si fermano a riposare?
Stanno raggiungendo il luogo di un delitto, lungo i binari della ferrovia, dove giace il corpo senza vita dell'ingegnere Alessi, chiamato a dirigere i lavori per la costruzione del ponte.
E' stato trovato da un altro operaio, durante una passeggiata solitaria: ucciso con la gola squarciata e coi pantaloni abbassati. E con una mutilazione evidente in mezzo alle gambe.
Un delitto che è anche carico di un significato preciso.

Come di un uomo che non aveva saputo trattenere la sua virilità, contenerla nel talamo nuziale: perché quella donna del corteo, Giorgina, è la giovane moglie.
Ma l'ingegner Alessi era uomo che andava dietro alle sottane e, si dice, che anche qui a Borgodivalle avesse una donna che soddisfacesse le sue voglie. Una donna pastora, Concia, promessa sposa ad un abitante del borgo, latitante per una fucilata sparata contro il fidanzato della sorella.

Di quel delitto si occupa il brigadiere dei carabinieri Maisano.
Maisano pativa di un tic all'occhio sinistro.In un istante, le palpebre si stiravano di lato e si chiudevano per metà in un occhietto ammiccante che sembrava a volte assentire a volte contrastare l'interlocutore..

Ma l'indagine sul morto è cosa difficile: difficile perché in quel novembre freddo e piovoso che non regala ad operai e militi della benemerita nemmeno qualche sprazzo di sole nell'estate di San Martino, muoversi in quel bosco per trovare tracce è compito arduo e sgradito.
Perché in quel paese nessuno parla volentieri, se non per allusioni.
Ma forse il movente di quell'omicidio è semplice: se l'Alessi, che si è detto era uno che non si soddisfaceva da una sola donna, ha cercato di insidiare il pollaio di qualcun altro, qualcuno come Giasino Corrano, latitante e persona sanguigna, forse poi il latitante gli ha restituito il maltolto.

Sul delitto investiga anche il caposquadra Gennaro Loiacono. A modo suo e perché costretto da una specie di ricatto, una sorta di trappola che gli era stata tesa e a cui non aveva saputo rifiutare.
Insomma chi? Chi e perché?” tornava a chiedersi il caposquadra Loiacono, e non si dava pace per la risposta che gli aveva suggerito Spanò, mentre i militari ricomponevano il corpo nella cassa spedita per l'autopsia.

Chi poteva aver avuto validi motivi per uccidere l'ingegnere Alessi, figlio di Don Adriano con cui Gennaro aveva negli anni costruito una sorta di confidenza. Tanto da renderlo partecipe di uno dei segreti del morto.
Un segreto che riguardava l'Alessi e un altro membro della sua squadra.
Una squadra affiatata composta da tanti padri di famiglia, un ragazzo giovane con in testa la Torre Eiffel, Giosuè il gigante e infine Onofrio, cacciatore e socialista.
Ma forse quell'essere socialista è bene che sia tenuto nascosto: perché siamo nel 1024 e il partito Fascista ha appena vinto le elezioni, nel modo che conosciamo tutti.
Una legge vergogna. Le manganellate e le violenze delle squadracce, tollerate da polizia e carabinieri.
E poi c'era stato il delitto Matteotti e la successiva scoperta del cadavere:

Prima di quel 10 giugno se sembrava che si potesse ancora ragionare di politica. Persino contestare il risultato delle elezioni di aprile, in occasione delle quali le squadre di Cesare Rossi avevano fatto volteggiare assai più di qualche manganellata per orientare al voto degl'incerti. 
Dopo 16 agosto, no. S'era fatto tutto più chiaro.
Chiaro che i Dumini si sarebbero moltiplicati e affrancati da responsabilità. Anzi avrebbero preso a mostrare la loro inquietante presenza nei palazzi del potere dai quali, pur essendo omicidi e criminali, sarebbero stati lautamente stipendiati. Chiaro che anche i giornali, dopo il decreto di luglio, avrebbero raccontato soltanto favole belle, rischiando altrimenti sequestri e confische.
E poi, l'idea politica di Onofrio non era una vera passione. Era piuttosto un trasporto, se così si può dire. Una simpatia. La caccia, quella sì, era passione, per lui. Per un'avventura di caccia ne avrebbe affrontati di sacrifici.
 
L'idea socialista, invece, la poteva tenere segreta. Come una voglia di vino sulla pelle in un posto nascosto del corpo, come una famiglia di verruche sul petto un'altra cosa così. C'è ma non va mostrata. Figurarsi farne la propaganda.
Della caccia si poteva parlarne. Di Bossoli, specchietti per allodole, polveri gelatinizzati e senza effetto di fumo, pallini e cartucce, sì. Certo che sì.
Erano tempi quelli in cui contavano i sentimenti e comportamenti virili. La caccia, dunque, andava bene. E dopo la caccia, la cerca dei funghi, magari.
E poi le donne. Oppure in ordine inverso. Ecco, sì. Questi erano argomenti da mettere in piazza. Il socialismo era meglio lasciarlo in segreto.

Quello imbastito dal magistrato Gianni Mattencini è un giallo che si muove su ritmi lenti, naturali verrebbe da dire, come lo scorrere del fiume.
Un giallo che ha al centro la descrizione dei personaggi, che vengono raccontati attraverso le loro parole e i loro pensieri. Pensieri che spesso sono un peso sulla loro coscienza.
Al centro, dell'indagine, del delitto, dei pensieri silenziosi, il concetto dell'onore.
L'onore che può essere salvato solo col sangue, se non c'è giustizia a cui appellarsi. Perché si era in un mondo in cui le differenze sociali erano ancora più nette di oggi, i cafoni da una parte e i signori dall'altra, cui tutto era concesso.
La città con le sue luci, le sue comodità, il progresso.
E il borgo, la campagna, quel posto forse dimenticato da Dio, visto che anche il prete scendeva solo una volta a settimana per dire messa. Borgo dove il progresso arrivava con la ferrovia.

Quella che ci racconta Mattencini è una storia di inganni e meschinità, di silenzi e di onore da difendere, di segreti che pesano sulla coscienza e che dunque non possono essere raccontati a nessuno.

"Calabria, 1924. Il progresso ha il sapore del sangue".

La scheda del libro sul sito dell'editore Rizzoli e il pdf col primo capitolo
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

Hanno vinto tutti

Alla fine tutti possono dirsi vincitori da questo braccio di ferro Italia Europa sulla manovra.
Il presidente del Consiglio Conte che ha ha portato avanti la trattativa evitandoci la sanzione.
I due vicepresidenti del consiglio che hanno visto confermate i loro cavalli di battaglia reddito di cittadinanza e quota 100 (sulla carta).
L'Europa che evita di aprire un altro fronte caldo, dopo i problemi in Francia.
L'opposizione che può rinfacciare al governo le promesse non mantenute.

Tutti vincitori.
Rimangono le clausole, rimangono i tagli, rimane il fatto che se fossimo partiti con meno strafottenza forse ci saremmo evitati lo spread, la diffedenza dai paesi del nord e, soprattutto,  avremmo perso meno tempo.
Ora ci troviamo con una manovra che si basa su una previsione di crescita tutta da veriricare e su promesse di introiti a cui non crede nessuno (la vendita degli immobili).
Come cambiamento, pochino.
Ma sui social come siamo forti!