20 luglio 2019

Depistato, di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco



Quella che state per leggere è la storia di una grande bugia di Stato, figlia di una colossale mistificazione che dura da ventisette anni. È una storia che nessuno racconta ..

La storia che nessuno racconta (o che al limite viene solo accennata) è la storia della più grande e grave menzogna della nostra recente: il depistaggio di Stato suiresponsabili della strage di via D'Amelio dove, il 19 luglio 1992, perse la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, Traina, Catalano, Li Muli, Cosina ed Emanuela Loi, la giovane agente che Borsellino considerava quasi come una figlia, troppo giovane per morire:
«Questa ragazza mi sembra un farfalla, potrebbe essere mia figlia. Non voglio morti così giovani sulla coscienza. Intesi, Catalano?»

La storia che i due giornalisti raccontano è la storia di un'indagine che sin dall'inizio è stata messa sui binari della messa in scena, per individuare un responsabile di comodo, Vincenzo Scarantino e per allontanare l'attenzione dai veri responsabili, dai veri mandanti.
In questa storia non ci sono buoni e cattivi, il confine è veramente labile: ci sono agenti in divisa come Gioacchino Genchi, che hanno cercato le tracce dei responsabili seguendo la pista dei cellulari clonati (pista che porta dentro al mondo dei servizi).

E ci sono agenti che hanno costruito un finto pentito, Scarantino, vestito come un pupo e istruito a suon botte e violenze psicologiche affinché imparasse la lezione.
Sono gli agenti della squadra messa in piedi dal Viminale attorno ad Arnarlo La Barbera e che oggi sono stati rinviati a giudizio per la loro condotta, si tratta di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei (La Barbera nel frattempo è morto).

Un'indagine che è nata attraverso una forzatura, l'assegnazione delle indagini da parte del procuratore Tinebra ad un funzionario del Sisde, Bruno Contrada.
E proprio dal Sisde arrivarono le prime veline su Scarantino e le sue parentele mafiose, che servivano a costruire il personaggio di rango mafioso.

Sembra di rivedere il film di Piazza Fontana e di altri misteri d'italia: solo che in questa storia, Scarantino è stato ritenuto credibile non solo dai magistrati di Caltanissetta (e anche da Ilda Boccassini, almeno nei primi mesi del suo pentimento, finché non parlo anche della strage di Capaci), ma anche dai giudici che ritennero vere le sue rivelazioni, in primo grado fino in Cassazione.

«Il lavoro di questa procura – dice la Boccassini – è stato possibile perché tutti i pezzi dello Stato si sono compattati. Il mio ringraziamento alla dottoressa Liliana Ferraro che non ha mai abbandonato Caltanissetta [..] Ringrazio il collega Di Maggio la cui esperienza, professionalità e il coraggio dimostrato [..]
Senza l’aiuto di Di Maggio, senza la collaborazione del direttore di Pianosa e di tutti gli agenti non sarebbe stato possibile gestire per la prima volta con Scarantino nel carcere di Pianosa gli eccellenti risultati che stiamo ottenendo».

Come è stato possibile?
Come è stato possibile credere che Riina affidasse ad un personaggio (che aveva alle spalle piccoli reati per spaccio) una strage così importante?
Importante per la fretta, per quei soli 57 giorni che la separavano dalla bomba di Capaci.
Eppure questo è successo: ancora oggi i familiari del giudice chiedono conto allo Stato, all'autorità giudiziaria, al CSM e alla Cassazione del depistaggio in atto.
I due autori riportano le dichiarazioni di questi giudici: prima enfatiche, per la soddisfazione di aver dato subito giustizia alle vittime, per il racconto di questo pentito che veniva considerato un novello Buscetta.
Dichiarazioni ai limiti dell'imbarazzo, poi, quando la menzogna venne svelata, dall'ennesima ritrattazione di Scarantino e dall'arrivo delle dichiarazione di Gaspare Spatuzza.
Il libro di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco racconta la storia assurda di questi processi, la pista seguita da Genchi sui cellulari clonati usati dai mafiosi, pista poi stoppata, dei rapporti tra Tinebra (il procuratore capo di Caltanissetta) e il Sisde, la pista scartata che portava a “faccia di mostro”, l'agente di polizia che per mesi si è ritenuto responsabile di diversi delitti eccellenti nell'isola (come quello dell'agente Agostino nel 1989).

Troppe domande rimangono ancora senza risposta, ancora oggi, quando sono passati 27 anni da quella bomba: la prima riguarda i poliziotti che hanno messo in bocca a Scarantino quella menzogna.
Difficile che agissero da soli, senza un input superiore. E dunque lecito chiedersi chi ha ideato il depistaggio che tra l'altro mescola anche pezzi di verità che dovevano arrivare da personaggi che hanno partecipato alla strage in prima persona (per esempio, la 126 imbottita di esplosivo, che esce fin da subito dai documenti degli investigatori).

Sia la versione di Spatuzza che quella di Scarantino convergono sulla centralità della mafia: Spatuzza ha raccontato un particolare che alza lo scenario ad altri partecipanti:
L’unico inquietante spiraglio aperto da Spatuzza su scenari inediti, quell’avvistamento nel garage di via Villasevaglios di uno sconosciuto che assisteva al «caricamento» della Fiat 126,

Molte testimonianze raccontano di personaggi dei servizi segreti presenti sulla scena della strage sin dall'inizio: come facevano ad essere presenti lì in così poco tempo? Qualcuno li aveva avvisati prima?
Lo racconta il vicesovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla sezione volanti: “il poliziotto nota un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa.”

Ecco dunque lo scenario che si apre a nuovi personaggi, come una macchina da presa che allarga l'inquadratura: non solo il piccolo criminale di borgata, non solo il mafioso di Brancaccio, il killer dei Graviano. Ma anche il mondo dei servizi deviati, per cui è lecito cosa cercassero tra le auto in fumo e i cadaveri carbonizzati: forse quell'agenda rossa dove Borsellino stava annotando tutte le sue scoperte, come quelle sulla strage dell'amico Giovanni Falcone?

Tutto questo ci conduce alla domanda più importante: perché? Perché quella strage, perché così in fretta?
Dopo via D'Amelio lo Stato e il Parlamento dovettero approvare il decreto Falcone che altrimenti sarebbe decaduto. Esso conteneva il 41 bis, una legge che a Riina non doveva proprio piacere.
Chi ha consigliato allora a zu Totò quella bomba?

Quello che Borsellino sapeva, quello che aveva capito, doveva essere messo a tacere per sempre. Per questo non bastava eliminare il giudice

Domanda che porta a quella convergenza di interessi tra boss mafiosi, non dell'ala militare di Riina, politici collusi con la mafia, servizi deviati all'interesse di quest'ultimi e, se vogliamo dare ascolto all'ex ministro Pomicino, anche servizi americani:
Non si può non rilevare, secondo Pomicino, che in quel momento c’è stata una «convergenza di obiettivi» tra Cosa nostra e i servizi segreti atlantici, per provocare in Italia un enorme scossone politico.

Dopo 27 anni, dopo quattro processi, è arrivato il momento di fare luce su tutti questi misteri, aprendo gli archivi della commissione antimafia e anche quelli dell'ex Sisde: dobbiamo pretenderla tutti questa verità, se vogliamo liberare la nostra democrazia da ricatti e segreti (da cui è nata la seconda Repubblica, a cominciare dal partito di Dell'Utri e Berlusconi) e “respirare quel fresco profumo di libertà”.

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