31 maggio 2009

I gabbiani di Montalbano

La danza del gabbiano di Andrea Camilleri, il libro apena uscito con protagonista il commissario Montalbano.
«Il romanzo inizia con la scomparsa, nientemeno, che del suo fido ispettore Fazio, che metterà il povero commissario in un gioco dannato. E poiché è avanzato con gli anni, si lamenta ed è stanco di lavorare, ma non potrà sfuggire al suo destino. Nemmeno a quello in cui lo induce l'ennesima donna tentatrice. Finché ce la fa». (Andrea Camilleri, da un'intervista a Gente in edicola il 4.5.2009)

L'incipit, preso dal sito di
Vigata

Fu verso le cinco e mezza del matino che non ce la fici cchiù a ristarisinni corcato coll’occhi sbarracati a taliare il soffitto.
Era ’na cosa che gli era principiata con le vicchiaglie: di solito, passata la mezzanotti, si stinnicchiava a letto, liggiva ’na mezzorata, appena che la vista accomenzava a fargli pupi pupi chiuiva il libro, astutava le luci del commodino, pigliava la posizioni giusta, che era di corcarisi supra al scianco destro, le ghinocchia piegate, la mano dritta aperta a palmo in su supra al cuscino e la guancia appuiata alla mano, ’nsirrava l’occhi e di colpo s’addrummisciva.
Spisso per fortuna annava avanti col sonno fino a matino, capace che se lo faciva in una sula tirata, ma inveci certi nuttate, come chista appena passata, fatte sì e no un dù orate di durmuta, s’arrisbigliava senza nisciun motivo e non c’era cchiù verso d’arrinesciri a ripigliari sonno. Una volta, junto allo stremo della disperazioni, si era susuto e sinni era ghiuto a vivirisi mezza buttiglia di whisky, nella spiranza che gli faciva calare sonno.
La conseguenzia era stata che s’era appresentato in commissariato all’alba e completamenti ’mbriaco. Si susì, annò a rapriri la porta-finestra della verandina.
La jornata che s’appresentava ’na vera billizza, tutta tirata a lucito, pariva un quatro ancora frisco di colore. La risacca assaccava però tanticchia cchiù forte del solito. Niscì fora ed ebbe un addrizzuni di friddo. Si era a mità majo e in altri tempi già ci sarebbi stato un cavudo squasi estivo, invece la jornata pariva ancora marzulina. Forsi si sarebbi guastata verso la fine della matinata. A mano dritta, da monte Russello, arrancava già qualchi nuvola nivura.

Trasì, annò in cucina e si priparò il cafè. Si vippi la prima tazza e si chiuì in bagno. Quanno niscì, vistuto, pigliò la secunna tazza di cafè e se l’anno a viviri assittato nella verandina. «Matutino è stamattina, commissario!». Isò ’na mano in signo di saluto. Era il signor Puccio che ammuttava la varca in acqua, ci acchianava, principiava a remare puntanno al largo.
Da quanti anni era che gli vidiva sempre fari gli stissi movimenti? Po’ si perse a taliare il volo d’un gabbiano. Oramà gabbiani sinni vidivano picca, va a sapiri pirchì avivano traslocato in paisi. Ma macari a Montelusa, a deci chilometri dalla costa, ci nn’erano a centinara, era come se l’aceddri si fossero stuffati del mari e sinni stissiro alla larga dalle onde.
Pirchì si erano arridotti a circare il loro mangiari nella munnizza citatina invici di annari a piscarisi pisci frisco? Pirchì si erano degradati fino a dovirisi sciarriari coi surci per una testa di pisci putrefatto? Ma si erano volutamente arridotti accussì o era cangiato qualichi cosa nell’ordine della natura? Tutto ìnzemmula il gabbiano chiuì l’ali e accomenzò a picchiare verso la spiaggia. Che aviva visto? Ma quanno arrivò a toccare col becco la pilaja invece di risollevarsi in aria con la preda, s’afflosciò addivintò un immobili mucchietto di pinni cataminate a leggio dal vinticeddro di prima matina. Forse gli avivano sparato, a malgrado che il comissario non aviva sintuto nisciun colpo di fucile. Ma chi era l’imbecille che potiva mittirisi a sparare a un gabbiano?

L’aceddro, che distava ’na trentina di passi dalla verandina, di certo era morto. Ma po’, mentri che Montalbano lo stava a taliare, ebbi come un fremito, si rizzò faticanno sulle zampe, s’inclinò tutto da un lato, raprì una sula ala, quella cchiù vicina alla rina, e si mise a firriare su se stesso, mentre la punta dell’ala gli addisignava un circolo torno torno e il becco stava isato verso il cielo in una posa innaturale che gli faciva il collo tutto storto.
Ma che stava facenno, abballava? Abballava e cantava. Anzi no, non cantava, il sono che gli nisciva fora dal becco era roco, dispirato, pariva che addimannava aiuto. E ogni tanto, sempri firrianno, addrizzava il collo tendendolo in alto fino all’inverosimili e col becco ora faciva avanti e narrè, parivano un vrazzo e ’na mano che volivano posari qualichi cosa in àvuto e non ci arriniscivano. Montalbano in un vidiri e svidiri scinnì supra la pilaja e gli arrivò a un passo.

Il gabbiano manco fici ’nzinga di averlo viduto, ma subito appresso il sò firriare principiò a farisi incerto, sempre cchiù traballiante e alla fine l’aceddro, doppo un sono altissimo che parse umano, perso l’appojo dell’ala, s’accasciò di lato e morì. «Ha abballato la so morti»—pinsò il commissario, ’mpressionato da quello che aviva appena viduto. Ma non voliva lassarlo ai cani, alle formicole. L’agguantò per le ali e se lo portò nella verandina. Anno in cucina e pigliò un sacchetto di plastica. Ci mise dintra l’aceddro e lo zavorrò con dù petre firrigne che tiniva ’n casa per billizza, si levò scarpe, pantaloni e cammisa, trasì a mare in mutanne, arrivò all’acqua al collo, fici roteare forti forti il sacchetto e lo lanciò più lontano che potè. Torno a la casa ad asciucarisi che era ’mbarsamato dal friddo. Per quadiadirisi, si fici un’altra cafittera e si vippi il cafè bollente. Mentre era in machina verso Punta Raisi, il pinsero gli tornò al gabbiano che aviva viduto abballari e moriri. Va a sapiri pirchì, aviva la ’mpressioni che l’aceddri erano eterni e quanno gli era capitato di vidirinni a qualcuno morto era stato sempri pigliato da ’na liggera maraviglia, come si prova davanti a qualichi cosa che non si pinsava che potissi succidiri mai. Era squasi certo che al gabbiano che aviva viduto moriri non gli avivano sparato. Squasi certo, pirchì forse l’avivano pigliato con un solo pallino che non gli aviva fatto nesciri manco ’na guccia di sangue, ma era stato bastevole ad ammazzarlo. Morivano tutti accussì, i gabbiani, facenno quella speci di balletto straziante? La scena di quella morti non se la potiva livari dalla testa. Appena ghiunto all’aeroporto, talianno il quatro elettronico dell’arrivi, ebbe la bella e prevedibile notizia che il volo che aspittava portava un’orata e passa di ritardo. E come ti sbagliavi? C’era ’na cosa che fusse ’na cosa che in Italia partiva o arrivava nell’orario stabilito?

I treni portavano ritardo, l’aerei macari, i traghetti ci voliva la mano di Dio a farli salpare, la posta non ne parlamo, l’autobus addirittura si pirdivano nel trafico, l’opiri pubbliche sgarravano di cinco- deci anni, ’na liggi qualisisiasi arritardava anni a essiri approvata, i processi ritardavano, persino i pogrammi televisivi accomenzavano sempri con una mezzorata di ritardo sul previsto...

Quanno principiava a raggiunari supra a ’sti cosi a Montalbano il sangue ci addivintava ’na pesta.
Ma non aviva nisciuna gana d’ammostrarisi di malo umore a Livia quanno sarebbi arrivata. Abbisognava passari quell’orata sbariannosi.
Il viaggio matutino gli aviva fatto smorcare tanticchia di pititto. Cosa stramma, datosi che non faciva mai colazioni. Annò al bar che c’era ’na fila da ufficio postali il jorno di pagamento delle pinsioni. Po’ finalmenti attoccò a lui.
«Un cafè e un cornetto».
«Cornetti niente».
«Sono finiti?».
«No. Stamattina hanno tardato a portarceli, li avremo tra ’na mezzorata».
Macari i cornetti portavano ritardo!

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