16 novembre 2010

Nel paese dei Moratti di Giorgio Meletti

Il merito maggiore di questo saggio è mettere assieme l'aspetto industriale-economico delle grandi imprese italiane, con una analisi sugli aspetti sociali culturali: come può cambiare un territorio dopo l'arrivo di una impresa che, con la promessa di portare sviluppo e posti di lavoro, alla fine si scopre che ha spazzato via parte dei settori economici locali, creato un danni ambientali e non ha portato alcuna emancipazione nella popolazione locale (maggiore livello di istruzione, posti di lavoro ben qualificati) ?

In questo lungo racconto, condensato in quei giorni di fine maggio 2009, protagonisti non sono solo i grandi capitalisti all'italiana, eredi delle vecchie famiglie imprenditoriali: Luca Cordero di Montezemolo, Lapo Elkann, Massimo e Gianmarco Moratti, Marco Tronchetti Provera e Franco Bernabè. Si parla anche dei banchieri e del loro rapporto - vogliamo dire poco trasparente? - con le grandi imprese italiane: tanto rigide nel concedere prestiti ai piccoli imprenditori, tanto pronte a concedere fidi ai grandi gruppi presso cui sono pure azioniste (nel duplice ruolo di creditrici e azioniste): Passera e Bazoli di Banca Intesa, Zalesky, raider di borsa che salvato dalle banche Perché “too big to fail”.
Fino ad arrivare all'immobiliarista Zunino, quello che con i soldi delle banche ha comprato le aree ex Falck a Sesto e S. Giulia a Milano e che proprio le banche han salvato dalla bancarotta.

Meletti da spazio alle riflessioni, i pensieri, a volte affidati alla bacheca di Facebook, dei dipendenti della Saras, degli abitanti di Sarroch: quale è il rapporto verso questa impresa che, anche grazie all'indotto, da lavoro a migliaia di famiglie? Un rapporto di odio-amore: se è vero che le speranze di un sarrochese di una volta erano solo di sentirsi alienato come pastore in mezzo alle pecore, è altrettanto vero che è altrettanto alienante passare le ore a stringere bulloni, con un contratto da precario, a poco meno di 1000 euro al mese.

Cosa ne sappiamo noi della realtà di Sarroch, e dei tanti che lavorano nelle tante imprese che lavorano in appalto, costretti a tenersi le lamentele per i turni pesanti, per le condizioni di sicurezza spesso mette in secondo piano, Perché fanno perdere tempo.
E alla Saras, come in tante altre imprese, il tempo è denaro.

Meletti non esita a chiamare modello coloniale, quello di cui racconta: il cordoglio manifestato dalla famiglia Moratti, dopo la notizia della morte dei tre operai, come fossero parte della loro famiglia; dolore usato per nascondere le responsabilità reali dell'incidente.
Perché si parla di colonialismo? Come per la compagnia delle indie, oggi le imprese sembrano più interessate a ricavare maggior profitto possibile dagli impianti e dalle persone che li fanno andare avanti.
Si calcola che in cinque anni (dalla quotazione in Borsa del titolo, su cui c'è il sospetto che le stime siano state gonfiate) Moratti abbia perso 800 milioni per l'Inter, ne abbia ricavati 229 come dividendi dalla Saras, e ne abbia guadagnati poi 855 dalla vendita delle quote di minoranza agli azionisti (il titolo, grazie alle indicazioni della JPMorgan, quotato inizialmente a 6 euro, è finito a meno di 2). Euro che sono stati usati per compensare le perdite dell'Inter?

E quanti di questo soldi, ricavati dal lavoro e dall'impegno delle “maestranze” sarde, è stato investito in sicurezza e formazione? Solo una trentina di milioni.
Perché la sicurezza costa e non da profitto, Perché seguire tutte le norme (come usare il vapore per pulire gli impianti e non l'azoto, che poi ha ucciso le tre persone) fa pendere la bilancia dalla parte delle perdite e non dai ricavi.
Allora gli operai diventano un costo, in generale nel sistema Italia: come gli esuberi della Telecom, annunciati in modo sottile dall'uscita di Passera sempre del 26 maggio “c'è ancora molto da fare”.
Un costo anche gli appalti e i subappalti: costo da limare al ribasso e cosa importa se poi si sacrifica formazione e professionalità.
Perché alla fine questo emerge: ad uccidere Daniele Melis, di 26 anni, Luigi Solinas, di 27, e Bruno Muntoni, di 52 è stata la fretta (Perché quando gli impianti sono in pulitura non si guadagna), la superficialità (il documento di sicurezza che non era ancora firmato dal delegato , ma si è proceduto lo stesso, l'azoto pompato dentro la cisterna senza alcuna segnalazione per il pericolo), le norme sulla sicurezza che nessuno verifica (nessuno di loro aveva in dotazione strumenti per misurare l'ossigeno, sarebbe bastato quello a salvare tre vite).
Certo potevano opporsi, potevano impuntarsi, attendere che tutti gli obblighi formali fossero rispettati: ma quando sei precario (e non vale solo per l'azienda di Sarroch), quando lavori in una impresa in appalto, quanto sei veramente libero di difenderti?

Ma nel libro c'è spazio anche per affrontare le responsabilità dei sindacati confederali, spesso troppo lontano e oggi pure divisi. Del mondo dell'informazione (legato a filo doppio, troppo spesso, con i salotti buoni) e del mondo della politica. Anche loro, troppo impegnati in convegni e esternazioni, e troppo distanti dai territori e dalle persone. Sicuramente dai lavoratori.

Ha scritto Michela Murgia, a proposito del clima attorno alla storia della Saras un bell'articolo:

In relazione a questo fatto quattro giorni fa la procura della Repubblica di Cagliari ha chiesto il rinvio a giudizio per omicidio colposo di tre dirigenti della Saras e del suo amministratore delegato, Gianmarco Moratti. Nessun giornale tranne Il Fatto Quotidiano ha dato questa notizia, perché evidentemente l’ufficio stampa della Saras fa bene il suo lavoro: la Saras non esiste, e se non esiste nessuno muore alla Saras e nessuno è responsabile di quelle morti. Chi prova a dire il contrario si trova davanti un muro impenetrabile di “vorrei ma non posso”. È successo l’anno scorso a Massimiliano Mazzotta, il regista che sulla Saras ha realizzato il documentario OIL, e che per quel film si è trovato ad affrontare lo stuolo di avvocati della famiglia di petrolieri che ne chiedevano il ritiro. Ai Moratti è andata male: il giudice non ha autorizzato il ritiro e il documentario lo abbiamo visto tutti. Ma la stessa cosa sta succedendo quest’anno a Giorgio Meletti, che per ChiareLettere ha appena fatto uscire un libro fondamentale per capire i silenzi della Saras. Si intitola Nel paese dei Moratti (Sarroch-Italia, una storia ordinaria di capitalismo coloniale) ed è un’inchiesta con un tale carico di informazioni e collegamenti che i Moratti devono averne proprio paura se in nessun giornale accettano di recensirlo o di parlare dei temi che solleva.

Qualcuno a parlarne però ci prova lo stesso. Per esempio va reso merito al Comune di Sarroch di aver organizzato proprio una presentazione di questo libro. Il direttore generale della Saras, uno dei quattro rinviati a giudizio per la morte dei tre operai, evidentemente non lo considera un merito, tanto che ha spedito a tutti i dipendenti della raffineria questa lettera sottilmente intimidatoria, che illustra chiaramente che cosa l'azienda si aspetta dal Comune di cui è primo contribuente e datore di lavoro monopolista:

Siamo venuti a conoscenza che il Comune di Sarroch ha organizzato un evento per la presentazione del libro di Giorgio Meletti “Nel Paese dei Moratti”. Consapevoli che questa recente pubblicazione ha suscitato qualche interesse e curiosità, desideriamo condividere un breve commento al riguardo. Ci interessa evidenziare che il libro, al netto di alcune inesattezze e dell'utilizzo strumentale di alcune informazioni, non rende soprattutto merito dell’impegno profuso e dei risultati che Saras ha conseguito in oltre 40 anni di attività a favore della crescita economica e sociale del territorio e dello sviluppo di una cultura industriale ed organizzativa di cui tanto il nostro Paese ha bisogno. Ci auguriamo che questo sia lo spirito che ha indotto il Comune di Sarroch ad invitare l'autore del libro per un pubblico dibattito. Tutti, anche coloro che gravitano a vario titolo intorno alla nostra realtà, dovrebbero infatti farsi interpreti della sfida che come impresa quotidianamente viviamo: essere un punto di riferimento come produttori di energia sostenibile che alimenti la vita delle persone”.

Sorvolando sul fatto risibile che il petrolio viene definito "energia sostenibile", immagino che non serva precisare che alla presentazione del libro non è andato nessun operaio della Saras. Se fossi un giornalista di un giornale libero sardo a questo punto chiederei una intervista al direttore generale della Saras e gli porrei queste domande: signor direttore, se non è vero niente di quello che c'è nel libro, perché inibirne la presentazione? Se si può dimostrare che Giorgio Meletti mente, perché non portare quanto può smentirlo?
Ogni tentativo di far tacere chi vuole scrivere o girare o parlare su quello che succede alla Saras dimostra solo una cosa: che le cose che scrive Meletti non possono essere facilmente smentite. Ecco perché è molto più conveniente che nessuno le senta ed ecco perché il direttore generale non mi rilascerebbe nessuna intervista.
L'ufficio stampa alla Saras funziona benissimo.

Il libro è dedicato a Pierluigi Solinas, Bruno Muntoni e Daniele Melis. Che non sono degli eroi: loro sicuramente avrebbero preferito rimanere vivi.

La scheda del libro sul sito di Chiarelettere
Il link per ordinare il libro su ibs.
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