03 settembre 2013

L'ultima indagine del commissario, di Davide Camarrone

Ecco un libro che sarebbe piaciuto a Sciascia perché ricalca molto dello stile del maestro di Racalmuto: un caso di sparizione di un agente di pubblica sicurezza che finisce sulla scrivania di un commissario perbene, che rivela, man mano che l'investigatore si addentra nel caso, una verità scomoda, perché lega assieme mafia e politica.
Un'indagine che viene bloccata sia per pressioni dai piani alti, sia con minacce e violenze.
Fino ad arrivare all'amaro epilogo dove, appunto come nei romanzi di Sciascia, l'investigatore che ha cercato con coraggio e anche un pizzico di incoscienza di andare avanti per cercare verità e giustizia, viene allontanato.
In questo romanzo, la sicilianità viene raccontata dagli occhi disincantati del protagonista, il commissario Garbo, commissario di polizia a Palermo, separato in modo consensuale dalla moglie (da brevi accenni, si intuisce di religione ebraica).
Un popolo che si esprime più col non detto che con quanto si dice. Ostile alla vista delle uniformi, di qualunque colore, perché simbolo non di una giustizia a tutela dei più deboli. Ma della difesa degli interessi del più forte. E anche la mafia, che era una mafia rurale ma anche capace di fare impresa, per le sue capacità di attaccarsi al potere. Che sia quello dei Borbone, o anche quello del nuovo governo dei Savoia.

L'ultima indagine del commissario” è ambientata nella Palermo di inizio secolo, nel maggio 1911: siamo alla fine della bella Epoque, la fine di un epoca felice anche per Palermo, non più capitale del regno e su cui ora si vedono i segni dei tempi che cambiano.
Da una parte lo sfarzo dei palazzi legati ad una aristocrazia che fu, dall'altra la miseria della povera gente, che misera era col vecchio governo e povera rimane ancora col regno sabaudo.
Il cavaliere Garbo, una mattina si ritrova sulla sua scrivania il fascicolo riguardante la scomparsa dell'agente di pubblica sicurezza La Mantia, scomparso in una notte a casa sua a Monreale, dove viveva recluso da giorni, dopo un delicato incarico da infiltrato nel mondo della mafia.

"Il breve curriculum del La Mantia, tre pagine appena, era fitto di richiami ad indagini relative alla cosca mafiosa del monrealese: mafia di campagna e tuttavia pronta ad impegnare i suoi ingenti guadagni - frutto della rivendita dei feudi comperati ad un boccone da aristocratici in disgrazia - nella costituzione di società anonime di mutuo soccorso per l'emigrazione negli Stati Uniti d'America."

Il La Mantia era fuggito in America o era stato ucciso per vendetta dalla mafia?
Perché nel suo fascicolo non si faceva cenno a queste ipotesi?
Chi erano i due ufficiali della Questura che si erano presentati, prima della scomparsa, a casa sua?
C'è un collegamento tra la scomparsa dell'agente La Mantia e la morte (per un incidente, o forse per omicidio fatto passare come tale) dell'agente Agnello, che aveva fatto da guardia al procuratore Diotallevi, mentre questi stava seguendo una indagine sulle società anonime, che andava a toccare gli interessi della mafia e i suoi collegamenti con la politica?

"I crimini più odiosi si realizzano in silenzio tra un omicidio e un altro: le morti violente segnano la soluzione di complesse ostilità sotterranee tra chi comanda, i nuovi equilibri per il dominio dei commerci. Era proprio nei tempi di quiete che occorreva occuparsi di quelle ostilità e di quei commerci, se si voleva dare un senso al sangue che di tanto in tanto colava sui marciapiedi".

Questi commerci riguardavano il fiume di denaro che andava e veniva dall'Italia all'America, per i ricatti e le estorsioni e dalla compravendita di terreni e immobili sottratti con violenza, soldi che finanziavano la deportazione degli abitanti di interi quartieri poveri verso le due Americhe.
La storia, vera non frutto di una invenzione letteraria, è quella della ristrutturazione del centro, con la distruzione delle tracce del passato di Palermo e la modifica del tracciato di via Roma. Con la corruzione che ne derivò.

Corruzione cui non era estranea la mafia:
"La mafia, intanto, prosperava: aveva resistito ad ogni dominio, sempre comperandosene un poco, evolvendo e pagando pegno ai tempi nuovi. Se fosse tornato Ferdinando, la mafia sarebbe stata con Ferdinando, così come ora stava col nuovo governo: il capo chino e un leccasapone sotto lo scapolare."

Quanti di quei soldi, la corruzione, i proventi delle società anonime, arrivavano a Roma? A uomini dello stesso partito di governo, di Giolitti ("che un libro aveva appena ribattezzato il ministro della malavita")?
Su questo scandalo, la speculazione nata a seguito dei lavori pubblici per il tracciato di via Roma, stava indagando il procuratore Diotallevi, che intendeva dopo i primi arresti, alzare il tiro.
Passare dai semplici mafiosi, i figuranti, ai primattori.

Diotallevi fu bloccato, da un vero (o presunto come dissero poi per calunniarlo) attentato. Sventato dai due agenti La Mantia e Agnello. Attentato che ebbe come conseguenza il suo trasferimento all'Aquila.

"Eroi erano i rari sopravvissuti a questa città, capaci come Ulisse di raggirare il nemico, di andare in battaglia e di tornare a casa, sia pure al prezzo di un temporaneo esilio[..]. I molti che cedevano, invece, per vanità di cose terrene, e s'affiliavano ai potenti, o che restavano sospesi in un purgatorio di incertezze, di paure, o che finivano dimenticati e uccisi: costoro erano tutti egualmente sconfitti. I peggiori, erano i pochi vincitori. Grassatori, ricattatori, assassini".

L'indagine quasi in solitaria, dell'onesto cavaliere Garbo, eroe malinconico di questa storia, si arresta sulla soglia che porta, a partire dalle carte della vecchia inchiesta di Diotallevi, verso un giro più alto d'affari e interessi.
Interessi che legano potere e mafia, usata dai potenti come agenzia del crimine.
Anche Garbo (come il professor Laurana, come il capitano Bellodi ..) si dovrà rassegnare alla sconfitta per la sua ultima inchiesta e alla giustizia di comodo cui approderà la sua inchiesta: una giustizia che non è il giusto risarcimento per un danno subito, ma bensì una giustizia ridotta ad una contrattazione tra opposti interessi, come dentro un mercato

"Diede ad ognuno, persino a se stesso, la verità che poteva essere tollerata e confidò che quella ristretta misura l'avrebbe salvato. Eccolo - si disse, sdegnato dalla sua stessa scelta, il cavalier Garbo -, quell'imprevedibile comporsi d'interessi e non di ponderate decisioni che era contrattazione, e non sanzione. La Giustizia, in altre parole."

Una storia del passato per raccontare la Sicilia che era, ma anche la Sicilia di oggi.
Difficile non fare il parallelo con la vicenda del fallito attentato all'Addaura, del 1989, destinato ad uccidere il giudice Falcone e i procuratori svizzeri che erano suoi ospiti.
Anche Falcone, che stava puntando sugli appalti pubblici finiti ad aziende mafiose (e alla mafia che era entrata in borsa) dovette lasciare la procura di Palermo per andare a Roma dopo gli attacchi subiti, anche dall'interno della magistratura, per le lettere del corvo, dopo l'attentato de l'Addaura. Anche per Falcone si disse quella bomba, frutto di menti raffinatissime, se lo era messa da solo.
Due angeli, che forse lavoravano per i servizi, ebbero un ruolo nello sventare l'attentato: erano Emanuele Piazza e Nino Agostino, uccisi dalla mafia, e forse non solo dalla mafia.
Da quella parte dello stato che non si vergogna di fare affari e ricorrere ai servizi della mafia.

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La scheda del libro su Sellerio.

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