17 febbraio 2015

Armiamoci e partite



Che si debba fare qualcosa in Libia, e per fermare l'avanzata dell'isis è fuori dubbio.
Ma il punto è proprio cosa fare: sta qui la differenza tra chiacchiere da bar (andiamo a bombardiamoli tutti) e confronti su strategie e politica internazionale.
Per esempio, ad Otto e mezzo ieri sera, erano ospiti l'ex generale Arpini e i giornalisti Sallusti e Zucconi.
Non si capiva, ad ascoltare prima Sallusti poi Arpino, chi dei due fosse il militare: Arpino spiegava come su queste storie prima di parlare, prima di fare dichiarazioni, serva del tempo per ragionare, per capire, per conoscere.
Conoscere il territorio, l'avversario, la storia passata.
Purtroppo, vivendo in un epoca mediatica, dove si deve fare tutto in fretta, in uno stato da parenne campagna elettorale, tanti politici e tanti ministri si sentono autorizzati a lanciare subito una loro dichiarazione.
Guerra subito, o forse è meglio di no.
"Dobbiamo andare in Libia sapendo qual è l'obiettivo del dopo" continuava il generale: perché il prima è chiaro: si deve andar lì per fare la guerra, che va chiamata tale e non come le formule ipocrite di peace keeping.
"Mi dicono che bastano 60000 uomini per conquistare Tripoli" - Sallusti, il giornalista.
E poi? Cosa facciamo? Un nuovo Afghanistan, dove teniamo Kabul con le armi e poi il resto del paese è in mano delle bande?
In Iraq gli Stati Uniti avevano impiegato almeno 250000 militari. E la guerra è durata anni e tante morti, anche tra la popolazione civile.
Serve una strategia, magari comune tra i paesi europei.

Sembra che tutti abbiamo voglia di farla questa guerra. 
Soprattutto l'Isis stessa, con le sue continue provocazioni mediatiche. 
Forse, più che una guerra di terra, servirebbe una guerra alle risorse economiche che tengono in vita il califfato.

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