«Parlare di rimpasto è roba da Prima repubblica #chenoia. Vi prego: parliamo di #coseconcrete».Tweet di Matteo Renzi del 2014.
Si apre e si chiude
con questo tweet il secondo capitolo della storia del presidente del
Consiglio: un racconto che parte dalla guerra di logoramento a Letta
e che portò al suo siluramento e che finisce col pasticciaccio della
nomina mancata di Carrai come dominus della cyber security.
Perché Davide
Vecchi ha scelto proprio questo tweet, tra le migliaia che hanno
inondato l'etere? Perché descrive bene quello che è stato il prezzo
che Renzi ha dovuto pagare per la conquista e il mantenimento del
potere romano.
Quando uscì in
rete, nel gennaio 2014, era ancora il giovane segretario rottamatore
di un partito democratico in cui ancora pesava la mancata vittoria
delle elezioni del 2013: ad appena un mese dalle primarie vinte, così
rispondeva a Letta che in un'intervista faceva ventilare l'ipotesi di
un rimpasto nel governo, per far spazio ai giovani renziani. Che pure
nel governo Letta qualche posto lo avevano avuto (come il
sottosegretario Manzione).
Il racconto di
Davide Vecchi copre i due anni di governo Renzi e li racconta in una
angolatura diversa da quella della narrazione vigente: si parte dallaguerra a Letta e alla caduta di un governo (seppur di larghe intese)
attraverso un voto in una riunione di partito, non in Parlamento.
Di un segretario
che si propone come Presidente del Consiglio scavalcando le regole,
le prassi e presentandosi direttamente da Napolitano.
Perché è questo
che ripetono sempre i renziani al governo: si deve fare in fretta,
non si può aspettare i tempi lunghi della vecchia politica, gli
accordi, ascoltare le varie correnti.
Renzi e i suoi
vanno di fretta e in fretta hanno occupato tutte le poltrone che
potevano appena messo piede a Roma.
Siamo passati dalla
nomina (che sì, sarebbe stata rivoluzionaria) di Gratteri alla
giustizia, a vedere nominati come ministri la signora Guidi (e i suoi
conflitti di interesse), Poletti il signore delle Coop e Boschi
(ministro delle riforme).
E poi la
spartizione delle poltrone di Palazzo Chigi: “la prima viene
occupata da Antonella Manzione: a lei va il delicato incarico di
responsabile del dipartimento Affari giuridici”.
Renzi chiama a Roma
D’Angelis come sottosegretario di Stato del ministero delle
Infrastrutture, a capo struttura dell'emergenza idraulica e Filippo
Bonaccorsi che a Firenze aveva privatizzato l'azienda di trasporto
pubblico.
Anche le poltrone
nelle aziende di Stato servono per piazzare gli amici:
“nell’aprile del 2014, in un solo colpo, Renzi piazza il suo avvocato, il suo commercialista e il suo finanziatore storico: Alberto Bianchi all’Enel, Marco Seracini all’Eni e Fabrizio Landi in Finmeccanica”.
Così, in pochi
mesi si passa dal Renzi 1 al Renzi 2: a Palazzo Chigi e nei
ministero, nelle partecipate, nella Rai, inizia ad andare di moda
parlare toscano, alla faccia del merito e della trasparenza.
Trasparenza
di cui evidentemente è carente il presidente segretario se
consideriamo i soldi raccolti tramite le fondazioni, tanti soldi,
milioni di euro, con cui sono state pagate le campagne elettorali di
Renzi. Per il comune di Firenze prima, per la segreteria del Partito
Democratico.
Chi sono i generosi
finanziatori del rottamatore? Per la maggior parte rimangono anonimi,
grazie alla legge sulla privacy, principio che di fronte alla
trasparenza del potente potremmo anche sacrificare un pochetto.
Altrimenti sorge il
dubbio che questa mole di denaro (i cui custodi sono poi i suoi
esponenti più vicini del giglio magico, Marco Carrai, Marco
Seracini, Maria Elena Boschi …) serva solo per poi potersi sedere
alla tavola degli appalti pubblici, pretendere una poltrona in una
delle aziende di Stato.
La carriera
politica di Renzi si è realizzata in pochi anni, in modo
fulminante.
A volte ricorrendo
a metodi spicci: tante cose del vero carattere del Presidente del
Consiglio emergono dal libro di Vecchi.
Amici allontanati
perché oscuravano la sua stella. Come Lapo Pistelli, ex
esponente Dc, padre politico Renzi.
Avversarsi politici
messi in condizione di non presentarsi alle competizioni elettorali
perché fatti fuori da inchieste giudiziarie poi finite in nulla.
Graziano Cioni
costretto a non presentarsi alle primarie per l'accusa di
corruzione.
Massimo Mattei,
candidato mancato alle primarie poi vinte dal fido Nardella, perché
coinvolto suo malgrado nell'inchiesta sul sexygate fiorentino.
Scrive Davide
Vecchi:
“Le inchieste della Procura di Firenze su Cioni e Mattei di fatto liberano la strada al rottamatore e al suo erede sindaco Dario Nardella. Dopo otto anni, il 6 maggio 2016, Cioni è stato assolto dalla Corte di cassazione[..]Dario Nardella nel frattempo è diventato sindaco di Firenze e il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi è consulente di Palazzo Vecchio”.
C'è anche la
storia di Eugenio Giani, vicesindaco di Renzi, allontanato
dalle primarie con la promessa mancata di un posto a Roma e che alla
fine si deve accontentare di un posto come consigliere regionale.
Altro che
l'immagine del ragazzone simpatico e scanzonato che va in giro in
bici e che vuole cambiare le vecchie abitudini della politica:
“Il «nuovo» Renzi, dopo soli due anni a Palazzo Chigi, è un uomo di potere spregiudicato, rancoroso, vendicativo, che non si fa scrupolo di invadere financo la vita privata altrui” [dalla prefazione di Marco Travaglio].
Nel libro un
capitolo è dedicato alla vicenda della banca Etruria,
a cominciare dal decreto lampo che trasforma le popolari in società
per azioni, dopo un rapidissimo consiglio dei ministri, inizio 2015:
tra queste anche Banca Etruria di cui il padre del ministro Boschi è
stato vice presidente e prima ancora membro del CDA.
Nei giorni
precedenti la decisione, Consob rileva uno strano innalzamento del
titolo: forse che qualcuno ha fatto trapelare la decisione
dell'esecutivo fuori dal palazzo?
Tutti le banche
popolari soffrono anni di mala gestione, valori delle azioni
sovrastimate, manager che concedevano prestiti senza garanzie agli
amici e gli istituti di vigilanza che a parte qualche sanzione, non
sono stati in grado (o non hanno voluto fare altro).
Sull'Etruria in
particolare:
“Banca Etruria registra crediti dubbi alla clientela per 1,69 miliardi di euro, il livello massimo tra le banche popolari. Di questi, 770 milioni sono sofferenze.”
A fine 2015, prima
che entri in azioni il bail in (e con un ritardo colpevole che ha
impedito l'aiuto di Stato):
“il governo sa già che deve intervenire per evitare il fallimento delle quattro banche e tenere così in equilibrio – per quanto precario – l’intero mondo creditizio del paese.”
Si emana un secondo
decreto sulle popolari (il Salva banche) per salvare le banche
ma che in realtà scarica le colpe dei manager delle popolari sugli
azionisti e sui risparmiatori che sono stati costretti a
sottoscrivere delle obbligazioni subordinate: il messaggio che viene
fatto passare è che così si sono salvate le banche e i risparmi. La
realtà è diversa: molti dei risparmiatori si ritrovano con un pugno
di mosche in mano, risparmi di una vita azzerati. Il salvataggio
delle banche è pagato dai “431 milioni di euro dei clienti che
hanno investito, su proposta delle stesse quattro banche, in
obbligazioni subordinate”.
Su questa vicenda
cala un silenzio quasi totale della stampa: una delle poche voci
fuori dal coro che si permette di puntare il dito contro il ministro
Boschi e il suo conflitto di interessi è quella
di Roberto Saviano in un'intervista su Il post:
«Il conflitto di interessi del ministro Boschi è un problema politico enorme, dal quale un esponente di primissimo piano del governo del cambiamento non può sfuggire.»
Lo scrittore si chiede come si è arrivati a questa situazione con la paura di aprire un serio dibattito su questo governo. Perché “sotto Berlusconi non ci si limitava a distinguere tra responsabilità giuridica e opportunità politica”.
Come mai la stampa
(e di riflesso l'opinione pubblica) siano così indulgenti con questa
“nuova generazione di politici senza passato”.
Così il PD è
costretto a scaricare Roberto Saviano, dipinto dai tweet dei renziani
come un altro gufo, chiamato mafiosetto da l'Unità, uno che copia i
libri. Uno dei tanti prezzi per il potere.
Come si chiude
il libro?
Si chiude proprio
ripescando quel vecchio (anche se di poco meno di due anni prima) del
2014: siamo a gennaio di quest'anno con le due mozioni di sfiducia
contro la Boschi per la vicenda della Banca Etruria, e le fiducie per
la riforma costituzionale.
Voti fondamentali
su cui Renzi si gioca la faccia e per cui il ministro Boschi arriva a
chiedere l'aiuto della Lega. Nonostante l'aiuto di Verdini. Già
Verdini: che proprio in quel momento capisce l'importanza del suo
gruppo per la sopravvivenza del governo.
E così può
chiedere dei posti nel governo:
“Non passano neanche ventiquattr’ore dal voto che il premier restituisce la cortesia affidando a tre senatori di Ala una poltrona di vicepresidente di commissione parlamentare: Pietro Langella al Bilancio, Giuseppe Compagnone alla Difesa ed Eva Longo alle Finanze.”
Ma non è solo Verdini, il pluri-inquisito, che reclama posti di
governo al rottamatore: anche Alfano, il leader di un partito con più
poltrone che elettori, reclama il giusto.
Il 28 gennaio la squadra del governo sale da 56 a 64 membri, cinque
dei quali NCD (Dorina Bianchi, Federica Chiavaroli, Antonio Gentile,
Simona Vicari ed Enrico Costa).
Scrive
sempre, su twitter, Gotor: «Dal manuale Cencelli al
manuale Renzelli,[...] #rimpasto #todocambia».
Eccolo qua il
prezzo da pagare per rinsaldare la maggioranza: l'ingresso di
Verdini (a discapito dei voti della sinistra anche nelle elezioni
amministrative) e soddisfare la fame di poltrone di NCD.
Altro che il Renzi
rottamatore che scriveva:
«Parlare di rimpasto è roba da Prima repubblica #chenoia. Vi prego: parliamo di #coseconcrete».”
Il rimpasto è la "moneta sonante" per pagare il prezzo del potere.
Altri post sul libro
- “Il
prezzo di Verdini per il potere” (quando la Boschi cercò il
voto della Lega sulla sfiducia)
- L'articolo
di Roberto Saviano su Il post, sul conflitto di interesse del
ministro Boschi e sul silenzio complice dei media
La scheda del libro
“Matteo
Renzi, il prezzo del potere” (Chiarelettere)
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