Pensa beni a la morti.
Al mondo non c'è niente rimedio.
Averti chi ccà dunanu tratti di corda e...
Sta in cervellu chi ccà dunanu la corda...
Vi avertu chi ccà prima dunanu la corda...
Fu cuntu chi vinisti ora.
Innocens noli te culpare; Si culpasti, noli te excusare; Verum detege, et in D.no Confide.
Fari asino. Mors, ubi est victoria tua?
Innocente non accusarti; se ti accusi, non giustificarti; rivela la verità, e non confidare nel Signore.(Graffito scoperto da Giuseppe Pitré in una delle celle di Palazzo Chiaramonte-Steri, sede dell'Inquisizione di Palermo, e riportato nell'incipit dell'opera)
In “Morte dell'inquisitore”
Leonardo Sciascia affronta il tema della santa inquisizione in
Sicilia, nel XVII secolo quando era sotto il dominio della
cattolicissima Spagna: per questo lavoro ha consultato gli archivi
del Sant'Uffizio (gli atti del Sant’Uffizio siciliano vennero fatti
divorare dalle fiamme dal marchese Domenico Caracciolo, viceré di
Sicilia, il 27 giugno 1783) ricostruendo una storia lunga secoliche,
dal 1487 al 1782, portò sul rogo ben 234 persone, senza contare i
condannati a pene minori, gli inquisiti e tutti coloro che, per i
motivi più disparati, avevano avuto a che fare con gli inquisitori
cristiani.
Sciascia parte da un episodio storico:
la morte dell'inquisitore Giovanni Lopez de Cisneros, ucciso
in cella dal frate
Diego la Matina, racalmutese anche lui, mentre era ai ferri,
nelle celle dell'inquisizione per le sue idee, eretiche.
L'episodio da il la per raccontare cosa
è stata l'inquisizione in Sicilia, “un'offesa alla
ragione umana e al diritto”, per raccontare la storia di questo
frate entrato, dopo la sua morte, nelle leggende siciliane diventando
una sorta di Robin Hood, come tanti altri briganti che rubavano ai
ricchi per un desiderio di giustizia:
“Il fatto è che l'uccisione dell'inquisitore e l'identità dell'uccisore erano ormai entrati in una leggenda quasi clandestina: con quelle varianti, quegli stravolgimenti, quelle dispersioni di cui sono oggetto, nel trascorrere nel tempo, gli avvenimenti eccezionali. Nella fantasia e nel sentimento del popolo, fra Diego era diventato un brigante: calato nella serie che da secoli dura ininterrotta, fino a Salvatore Giuliano, uno di quegli uomini pacifici cui l'onore familiare o il bisogno arma improvvisamente la mano, e si levano alla vendetta”.
La Matina, agostiniano aveva avuto a
che fare con l’inquisizione siciliana in diversi momenti della sua
vita: arrestato la prima volta nel 1644, poi nel 1645, poi nel 1646.
Dopo pronuncia di abiura fu liberato ma tornò in galera nel 1648 per
restarci.
Giustizia, intesa come il desiderio
di un mondo più giusto: forse proprio questa
La colpa più grave che costò a frà
Diego La Matina i tanti processi, nasceva secondo Sciascia, da questa
sua idea di giustizia, intesa come il desiderio di un mondo più
giusto.
Questo faceva paura della sua parola,
il suo “tenace concetto” che
si riassume nell'idea di un Dio ingiusto, ma dove l'accusa non
è rivolta al Dio, ma è “ rivolta contro l’ingiustizia
sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei
diritti, egli sia pervenuto, nel momento in cui vedeva irrimediabile
e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio
destino con il destino dell’uomo, la propria tragedia con la
tragedia dell’esistenza, ad accusare Dio. Non a negarlo, ma ad
accusarlo”.
Non era un uomo rozzo il frate, la sua
eresia non era quella dell'ignorate:
“disputava coi primi teologi di Palermo; per mesi, per anni, tra le blandizie e sotto la tortura, respinse le loro persuasioni, rispose con le sue alle loro ragioni. E nelle ultime ore della sua vita ne straccò addirittura dieci: dieci dotti teologi, ristorati di tempo in tempo dalla cucina e dalla cantina dell'alcaide, furono straccati da un uomo il cui corpo e la cui mente avevano subìto per quattordici anni durissime e atroci prove; da un uomo che da mesi, e ancora in quel mo-mento, e fino alla morte per fuoco che tra qualche ora avrebbe avuto, stava legato con ceppi di ferro ad una forte sedia di castagnolo”.
Il suo rogo considerato dagli
inquisitori “spettacolo generale della fede” avvenne
nel 17 marzo 1658, al termine di un processo che concludeva anni di
prigionia e di tortura. Dopo la notte passata a sfidare i nove (o
dieci) teologi che si alternarono attorno a lui per stroncarne la
ragione.
Non nasconde Sciascia la sua
ammirazione nei confronti di questo frate: non un eretico dunque “..
noi abbiamo scritto queste pagine per un diverso giudizio sul nostro
concittadino: che era un uomo, che tenne alta la dignità dell'uomo”.
L'inquisizione ebbe
termine nel 23 marzo del 1782, per mano dell'illuminato vicerè
Caracciolo e l'anno successivo, nel giugno del 1783 a finire
sul rogo furono gli archivi stessi del Santo Uffizio (solo quelli
delle cause di fede):
“.. insieme a tutte le denunzie, i processi, i libri, le scritture dell'archivio propriamente inquisitoriale, cioè delle cosiddette cause di fede (mentre un secondo archivio, delle cause forensi, di materia civile o comunque non attinenti alla fede, veniva salvato nell'interesse del re). La distruzione dell'archivio, attesta un aristocratico cronista, incontrò il comune applauso, stante ché se tali memo- rie, che Dio liberi, fosser per avventura venute fuori, sarebbe stato lo stesso che macchiare di nere note molte e molte famiglie di Palermo e del regno tutto, cosi del rango de' nobili, che delle oneste e civili. E pare evidente che il cronista si preoccupasse più per i nomi dei denunzianti, che potevano venir fuori da quelle carte, che per quelli degli inquisiti: poiché il santo tribunale doveva aver avuto una così vasta rete di spie (tra i nobili, tra i civili, tra gli onesti) da fare impallidire al confronto quella dell'Ovra.”
Dunque, il sospetto è che più che a difendere questioni di fede, la
Santa Inquisizione fu piuttosto uno strumento politico, per bloccare
l'emancipazione intellettuale dell'isola, gli spiriti liberi, laici:
il Sant'Uffizio rappresentava “l'inflessibile ferocia di una
fede che proclamava di ispirarsi alla carità, alla pietà,
all'amore”.
E' un tema, quello dell'inquisizione, che ha molto interessato
Sciascia, tanto che nella prefazione del libro scrive che questo “è
un libro non finito, che non finirò mai, che sono sempre tentato di
riscrivere e che non riscrivo aspettando di scoprire ancora
qualcosa”.
Perché l'inquisizione non è finita col rogo del 1783: ancora oggi
(dove l'oggi di Sciascia era la fine degli anni '60) “appena si
dà di tocco all’Inquisizione, molti galantuomini si sentono
chiamare per nome, cognome e numero di tessera del partito cui sono
iscritti”.
Parole quanto mai attuali anche oggi, dove viviamo la politica come
un qualcosa di dogmatico o, peggio ancora, da tifo da stadio.
La scheda del libro sul sito di Adelphi
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