04 settembre 2016

La Milano dei mestieri (di una volta)

Milano 1953: l'ultima indagine del commissario Arrigoni ("Il mistero della giovane infermiera", Mondadori) riguarda la morte di una giovane (e molto bella) infermiera. Come negli altri romanzi di Dario Crapanzano, anche in questo c'è spazio per tuffarsi nella Milano che c'era, quella delle osterie dove servivano i sanguis o l'ossobuco col risotto.
E quella dei mestieri scomparsi, come quello del materassaio.
L'artigiano, seduto su uno sgabello, manovrava con movimenti ritmici la macchina cardatrice, dotata all'interno di un bilico chiodato, che aggrediva la lana industriale e spessa trasformandola in fiocchi soffici e leggeri, per far tornare il vecchio materasso un giaciglio morbido e accogliente. Terminata la cardatura, la fodera veniva riempita con il materiale rimesso a nuovo e cucito con grossi aghi in dotazione a questi benemeriti “amici di Morfeo”. L'abbandono della lana a favore di lattice, gommapiuma e materassi a molle avrebbe lentamente fatto sparire una professione che, oltre alla sua innegabile utilità, costituiva anche uno spettacolo, soprattutto per i più piccoli abitanti del caseggiato. Oltre a quello del materassaio, altre figure caratterizzavano la Milano dei mestieri, mestieri che sarebbero pian piano scomparsi dal panorama cittadino: bastava fare due passi in un quartiere per incontrare il mulèta (pronuncia: mulita), cioè l'arrotino, che, in sella alla bicicletta, offriva a gran voce le sue prestazioni sia lungo le strade sia all'interno dei cortili. Le donne scendevano da casa con forbici e coltelli dal taglio ormai problematico, che, dopo un trattamento sulla mola a smeriglio, tornavano perfettamente affilati. Altrettanto familiare era la figura dell'umbrelè, che riparava vecchi ombrelli rendendoli di nuovo in grado di proteggere dalla pioggia. O quella del cadregàtt, le cui mani sapienti ridavano vita alle sedie più malandate, dalle più comuni a quelle più pregiate. Raramente, ma ancora capitava, si poteva incrociare il carrettino dell'anciuàtt, il venditore di acciughe sotto sale, stivate in appositi barilotti.Ma la professione più pittoresca era forse quella dello spazzacamino, che, il viso affumicato dalla fuliggine, armato di scovoli e spazzole, ad alta voce propagandava la sua capacità di ripulire e scrostare le canne fumarie. Il lavoro non gli mancava, perché, in assenza di riscaldamento con termosifoni, le uniche fonti di calore erano le stufe che, alimentate a legna e a carbone, annerivano e incrostavano le canne fumarie che salivano fino al tetto.Curiosamente, lo spazzacamino è stato l'unico mestiere ad essere protagonista di una famosa canzone popolare, da tutti conosciuta e canticchiata. Nel testo, si illustra l'offerta dello spazzacamino a una giovane casalinga, con una serie di arditi doppi sensi (ad esempio: “E dopo aver mangiato/ mangiato e ben bevuto / gli fa vedere il buco / il buco del camin”) fino all'inequivocabile chiusa: “E dopo nove mesi / è nato un bel bambino / e assomiglia tutto / allo spazzacamino”. Perché sia toccato proprio allo spazzacamino l'onere di vedere esaltata la sua arte amatoria rimane un mistero. A proposito di combustibili, questi venivano venduti dagli sciustrè, i molti carbonai che popolavano Milano, in negozi che erano antri oscuri, dove a terra si accumulavano enormi cataste di legna e mucchi di carbone.Il mistero della giovane infermiera, Dario Crapanzano - Mondadori

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