04 giugno 2017

Quando la mafia scoprì l'arte – da La strategia dell'inganno (Stefania Limiti)

Quello che rimase della torre dei Pulci, in via dei Georgofili

Le stragi di Capaci e via D'Amelio.
I delitti politici come quelli di Salvo Lima e Ignazio Salvo. E quelli minacciati ad altri esponenti ritenuti dalla mafia traditori, come il ministro Calogero Mannino.
I tentativi di golpe che riempivano le pagine dei giornali (anziché le piazze di carri armati) come l'assalto alla sede Rai di Saxa Rubra e il famoso golpe raccontato da Donatella de Rosa.
I partiti in crisi dalla fine dei vecchi equilibri (come il crollo del Muro e la fine della guerra fredda) e per le inchieste di Milano.
E, ancora, lo scandalo dei fondi neri del Sisde, il black out di Palazzo Chigi, la crisi economica...

Stefania Limiti racconta questi episodi nel suo libro “La strategia dell’inganno” (Chiarelettere editore): le autobombe, gli attentati, i delitti, il sangue,mettendoli uno in fila all'altro e legandoli assieme in una sola strategia di guerra non convenzionale.
Una guerra psicologica, come le “PsyOps”, le operazioni di guerra psicologica che tendevano a confondere l'avversario, per condizionarne l'azione. Una strategia nata dalla direttiva del National Security Council del 19 dicembre 1947.
Cosa è successo allora in Italia tra il 1992 e il 1993? Un periodo nero della nostra storia, la fine della prima Repubblica, vecchi partiti che spariscono e nuovi partiti che si affacciano sulla scena politica.

L'autrice, dedica un intero capitolo alle bombe mafiose, quelle per cui Spatuzza (il pentito che si autoaccusò della bomba contro Borsellino) disse: “Siamo andati in un terreno che non ci appartiene, quei morti non ci appartengono.”

Dopo le bombe contro i due magistrati Falcone Borsellino, la strategia della guerra della mafia allo Stato seguì una strada diversa. Non più solo omicidi mirati, ma atti di terrorismo contro luoghi d'arte.
Luoghi sicuramente ignoti a Bagarella e Brusca che, dopo la cattura di Riina nel gennaio 1993, presero in mano le redini di cosa nostra.
Perché quella scelta?
Chi indicò quei luoghi ai mafiosi?
E chi, materialmente piazzò gli ordigni?

Dal sito Antimafiaduemila, un brano del capitolo:
Strage Georgofili; e la mafia si scoprì esperta d'arte e cultura
27 maggio 1993, Firenze, via dei Georgofili, ore 1.02La potenza di fuoco degli stragisti proruppe nel mese più dolce dell’anno. Un furgone imbottito di esplosivo saltò in aria nel cuore della notte tra il 26 e il 27 maggio in una magnifica via di Firenze. Non colpì un nemico in carne e ossa, un giudice, un giornalista o un politico “traditore”: stavolta la cupola palermitana puntava a ferire il paese intero. “Non si va a Firenze così, non si va a Firenze per caso!” griderà il pm Alessandro Crini al processo per le stragi sul continente. Vero. Perché fu scelto il capoluogo toscano? Una risposta secca non c’è.Sappiamo che verso la fine del 1992 venne costituito un gruppo di fuoco, Riina decise di “tornare a stuzzicare lo Stato”, come ha raccontato Brusca, con un gesto dimostrativo: il collocamento di una bomba a mano agli Uffizi. “Poi in realtà l’azione la fece Santo Mazzei – ha spiegato – e mise un proiettile d’artiglieria a Boboli”, negli splendidi giardini meta di turisti e bambini. Tra i progetti dei quali discusse anche Brusca c’era quello di lanciare una serie di messaggi intimidatori (come le siringhe infette e le merendine avvelenate), “ma senza che ci fossero vittime: l’idea era di telefonare prima all’Ansa e avvertire tutti. Nel caso della bomba a mano, nella telefonata si doveva far riferimento a Pianosa e all’Asinara, così avrebbero capito che il messaggio veniva da noi e chi era dietro a Bellini l’avrebbe rimandato a cercare di fermarci”. Nell’autunno, quando venne messo il proiettile a Boboli, andò tutto storto: Mazzei, un malavitoso che era stato a lungo in carcere con Bagarella e che non era ancora “combinato” – solo nell’agosto del 1992 sarebbe entrato a far parte della mafia secondo i riti tradizionali –, era troppo concitato al telefono, parlava in dialetto siciliano molto stretto, il centralinista non capì una parola e riattaccò.Il proiettile fu ritrovato un mese dopo e agli inquirenti ci volle un po’ per riavvolgere il nastro e dipanare la matassa. Il messaggio d’allarme non scattò.Secondo Brusca era stato lo stesso Bellini a dare loro le idee sul tipo di azioni da compiere: Voleva farci rubare anche un’opera di enorme valore agli Uffizi, un quadretto piccolo che si poteva mettere sotto la giacca. Siccome non riuscivamo a trovare opere d’arte da scambiare con lo Stato, avevamo pensato di rubarne una. E fu sempre Bellini a spingerci verso Firenze e la Toscana per compiere questi gesti. In quel periodo c’era Spadolini presidente [del Senato, nda] e per Bellini era una persona molto sensibile a queste cose, avrebbe scatenato la guerra se succedevano fatti del genere. E un critico come Sgarbi avrebbe fatto la guerra allo Stato che non proteggeva i suoi beni.Sempre a Bellini, ha ricordato Brusca, sarebbe da ricondurre il progetto di un attentato alla Torre di Pisa: “Ma anche in quel caso doveva essere un atto dimostrativo. Pensavamo di mandare sulla torre qualcuno con dieci-quindici chili di esplosivo in uno zaino, poi avvertire giornalisti e forze dell’ordine per far allontanare tutti e farlo esplodere con un comando a distanza. Immaginate la figura che ci avrebbe fatto lo Stato?”.Di quella trattativa apparentemente non resta niente. Ma Gioè è morto e non sappiamo che fili si siano snodati. Appena si rese conto della fregatura, Giovanni Brusca, spinto dal suo pragmatismo, cercò il consenso di Riina per fare una minitrattativa, del tutto privata: aveva pensato di far rubare qualche quadro di valore in Sicilia per contrattare la libertà del vecchio Bernardo, suo padre. Bellini, che sosteneva di poter contare sull’appoggio di un generale dei carabinieri, offrì la concessione degli arresti ospedalieri al padre di Brusca in una struttura militare di Pisa, ma alla fine Giovanni non accettò. Non è facile stabilire se la vicenda sia una spia dell’arroganza di Cosa nostra che vuole trattare con lo Stato da pari a pari o, al contrario, dello sbandamento allucinato dei boss siciliani.Restano vere le parole del magistrato Crini: “Non si va a Firenze così!”. Una volta GiovanniBrusca, era il 1995, chiese a Matteo Messina Denaro in che modo avessero individuato gli obiettivi delle stragi e lui rispose che li avevano individuati “tramite le guide turistiche”. Brusca aveva quella curiosità perché non aveva mai sentito parlare, prima che si facesse da parte, di Georgofili o attentati simili, e si sentì rispondere proprio così: “Abbiamo deciso così e abbiamo individuato gli obiettivi tramite le guide turistiche, i dépliant”. Anche Gaspare Spatuzza ricorda i dépliant: a Santa Flavia c’erano Graviano, Francesco Tagliavia, Messina Denaro, Francesco Giuliano, Giuseppe Barranca e Cosimo Lo Nigro, il fido luogotenente di Graviano che lo avvertì dell’incontro. Spatuzza entrò nella villa dalla porta secondaria, Graviano gli disse che dovevano fare un attentato.Sul tavolo c’erano libri e figure di monumenti, fotografie, ma loro avevano già fatto dei sopralluoghi. Cioè Lo Nigro, Graviano, Tagliavia e Messina Denaro già erano stati lì.”Spatuzza racconta quel che vide. Ammette che “lui era solo un soldato, loro erano i capi”. Non prese parte alla nascita di un’idea. Dice solo che quelli sapevano già dove piazzare le bombe, ma non sa come abbiano deciso o chi glielo abbia suggerito.

Altri posti dedicati al libro di Stefania Limiti

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