27 febbraio 2020

Il sangue dei padri di Giuseppe Fabro



Prologo 
29 giugno 1946 
Elvira apre le imposte e l’aria della notte rinfresca la stanza. Da via di Canneto il Lungo, nel cuore storico di Genova, sale un odore umido di pioggia e arrivano voci di grida lontane: contrabbandieri o giocatori di dadi, forse. Poi la donna torna accanto a Giorgia, le posa una mano sulla fronte e le asciuga il sudore. 
«Ma quando finisce!» geme Giorgia. 
E' in travaglio da ore e il dolore assomiglia a una cintura irta di spine che si conficcano nei fianchi.

Parte bene questo romanzo, una sorta di Romanzo criminale nei vicoli della Genova degli anni sessanta, tra biscazzieri, prostitute, ladri, un universo che De André ha raccontato nelle sue canzoni.
Qui sono cresciuti quei ragazzi nati alla fine della seconda guerra, tra le bombe e le violenze quotidiane del conflitto e che ora hanno fame di prendersi tutto.
Alcuni di loro sono proprio l'emblema delle cicatrici lasciate dal conflitto: il Moro ad esempio, il bambino che sta nascendo nel prologo del romanzo, è figlio di uno stupro subito dall'allora minorenne Giorgia da parte di un soldato di colore americano.
Moro, come il colore della sua pelle.

Altri invece la ferita se la porteranno sempre, anche se non si vede: Vittorio è figlio dell'amore nato tra una ragazza e un soldato tedesco, in quel tremendo inverno del 1944.
Il figlio del tedesco lui, una reietta lei, respinta dalla famiglia e lasciata sola col suo fardello.

Vittorio e il Moro sono i primi due protagonisti della storia, uniti entrambi da quel marchio che i rispettivi padri, che non hanno mai conosciuto, hanno impresso su di loro
Il primo è figlio della passione ricambiata di sua madre per un ufficiale tedesco, ucciso nell’attentato partigiano al cinema Odeon nel maggio del ’44. Il secondo è frutto dello stupro di un “liberatore” americano di colore.

Un padre lo ha avuto, invece, Caio. Si chiama proprio così, Caio Bianchi, il terzo protagonista del romanzo criminale: ma per lui sarebbe stato meglio non averlo.
Manesco, frequentatore delle bische clandestine, sin da piccolo Caio ha visto il padre mettere le mani addosso alla madre, Carla.
Fino al giorno in cui ha deciso di diventare grande e dare una lezione a quell'uomo e riprendersi tutto quello che la vita gli aveva tolto.
Caio e Pumas sono parte di un manipolo di ragazzi formatosi da meno di un anno. Hanno dimostrato l’un l’altro di essere audaci e aggressivi. Si sono giurati lealtà e tra loro si chiamano fratelli.

Assieme alla sua banda, che fino a quel momento si era dedicata a piccoli furti nei vicoli, decidono di fare un salto di qualità: taglieggiare le bische imponendo una sorta di pizzo e lanciarsi nelle rapine a banche e poste.
Un solo credo, fare soldi e diventare sempre più potenti: «Non credo in dio. Vedo la malvagità degli uomini» è quello che dice a don Andrea, una sorta di prete degli ultimi che aiuta i ragazzi di strada (e che ricorda da vicino don Andrea Gallo).
Sulla nave aveva conosciuto don Andrea, al tempo con funzione di parroco, che l’aveva preso a benvolere. Il sacerdote discuteva volentieri con lui e gli aveva insegnato a giocare a scacchi.

Il romanzo racconta le gesta criminali di queste due bande: quella di Vittorio e Moro che si dedicano a piccoli furti nelle case, finché il Moro non viene arrestato e condannato a qualche anno di carcere e spedito nell'isola di Capraia, la colonia penale
30 giugno 1965 Colonia penale di Capraia Carissimo Vittorio, mi ha fatto molto piacere ricevere la tua lettera. Come sai, sono su quest’isola da qualche settimana, e dovrei starci per un bel po’…

Dall'altra parte, le gesta sempre più estreme, sempre più violente, sempre più ardite, della banda di Caio, nella loro ascesa nel diventare la banda più importante di Genova.
Ma il crimine non è come il cielo, non è infinito e qualcuno, nelle forze dell'ordine, polizia e carabinieri, li stà già tenendo d'occhio.
E' come se leggessimo due storie di criminali che, per un destino strano e tragico, si riuniranno alla fine.

Forse poteva essere sviluppato meglio questo giallo in cui ritroviamo, in sottofondo alle storie, la Genova cantata da De André e in cui compare come cameo il grande Don Andrea Gallo: in particolare i caratteri dei protagonisti avrebbero potuto essere sviluppati meglio per renderli un po' meno scontati.
Non esprime nessun giudizio su di loro l'autore: non è questo un giallo con buoni e cattivi, sono tutti colpevoli di qualcosa e su tutti pende il confronto coi padri e con le loro storie.
Storie che affondano negli anni e nella violenza della guerra, nella guerra partigiana, nelle vendette contro i tedeschi e con chi collaborava con loro.

Non poteva che terminare con queste strofe, prese dall'album La Buona novella di Fabrizio De André
Non posso pensarti figlio di Dio, ma figlio dell'uomo, fratello anche mio”

La scheda del libro sul sito di Rizzoli
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