Immagine presa dal profilo di Simona Zecchi su FB |
42 anni fa le BR facevano trovare il
cadavere del presidente della DC, Aldo
Moro, in via Caetani, nel centro di Roma: i 55 giorni di
prigionia trovavano la conclusione con l'immagine di quel corpo
piegato all'interno della Renault 4.
L'altra sera, il giornalista Andrea
Purgatori nel corso della trasmissione Atlantide faceva un
parallelo, secondo me un po' ardito, tra quei 55 giorni in cui le
istituzioni e il paese rimasero quasi bloccate da quel rapimento, e i
55 giorni del lockdown in cui oggi il paese è rimasto bloccato.
Certo, ci sono le immagini dei
controlli delle auto, le istituzioni che sembravano impotenti
nell'affrontare la crisi, quel nemico invisibile che sembrava
invincibile ..
Ma le similitudini si fermano qui: il
rapimento di Aldo Moro (con tutti i buchi nella ricostruzione
ufficiale, dall'agguato in via Fani, alla sua prigionia, la storia
del falso comunicato numero sette) segnò la fine del tentativo di
sbloccare il paese, politicamente, rendendo il partito comunista una
reale alternativa di governo.
La fine del lockdown è solo una data
sul calendario, decisa dopo tanti compromessi dal governo: sì, siamo
stati in casa per tutti questi cinquanta giorni, i morti sono in
diminuzione, è diminuita la pressione sugli ospedali. Ma questo
nemico invisibile non è stato sconfitto: oggi abbiamo molte più
informazioni su di esso, sappiamo come curarlo, è forse meno
pericoloso.
Pericolosità dovuta anche
all'impreparazione che avevamo agli inizi, alla sua sottovalutazione,
agli errori fatti qui in Regione Lombardia (la delibera sulle RSA, il
non bloccare certe zone per non intralciare gli interessi degli
industriali).
Di questo virus sentiremo parlare
ancora, così come il terrorismo rosso fece altre vittime negli anni
successivi: alla sua fine si è arrivati perché quella scintilla che
doveva bruciare la prateria, come era nelle menti di Curcio e
Franceschini, per arrivare ad una rivoluzione proletaria, non prese
forza.
Le istituzioni tennero, non ci furono
derive autoritarie, i sindacati non persero forza, la morte dei
cinque agenti della scorta fecero comprendere alle persone il vero
volto, folle, dei brigatisti.
Forse, un altro parallelo di queste due
storie è la forte “mediatizzazione”: il virus ha riempito le
prime pagine (e giustamente) dei giornali, con messaggi spesso in
contraddizione e non sempre con l'obiettivo di fare informazione.
La stesso avvenne 42 anni fa,
cominciando dalla scelta delle BR con l'agguato in via Fani (Moro
poteva essere rapito in modo meno cruento in altri luoghi che
frequentava), con le lettere di Moro e i comunicati delle BR usati
per lanciare messaggi da una parte e dall'altra.
Metteremo da parte anche il
coronavirus, senza averne imparato la lezione, così come abbiamo
messo da parte la vicenda Moro con tutti i misteri?
Un mistero che oggi, grazie alle
rivelazioni di un pentito, non lo è più è quello della morte di
Peppino Impastato:
giornalista e tante altre cose che fu ucciso dalla mafia la notte
del 9 maggio 1978, delitto su cui, anche per colpa di lacune
investigative (o peggio) fu montato un depistaggio.
Impastato era morto mentre preparava un
attentato.
Non era vero: la mafia, Tano
Badalamenti, non accettava più le sue denunce contro il boss, Tano
seduto, contro la giunta comunale (mafiopoli,
la chiamava).
Con Aldo Moro (e in parte con Peppino Impastato), lo stato ha dimostrato di non voler processare sé stesso.
Farà lo stesso anche col coronavirus?
Con Aldo Moro (e in parte con Peppino Impastato), lo stato ha dimostrato di non voler processare sé stesso.
Farà lo stesso anche col coronavirus?
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