Alla fine persino per il depistaggio, il falso pentito Scarantino “inventato” dai poliziotti del pool La Barbera (l’ex Questore di Palermo morto nel 2002), nessuno sarà colpevole. La giustizia ha sì stabilito che quella pista, creata per sviare gli investigatori dai veri responsabili, i fratelli Graviano, era falsa. Ma non è certo che il depistaggio avesse favorito la mafia, dunque, via all’aggravante mafiosa.
E per quale motivo
allora pezzi dello stato avrebbero messo in piedi lo spettacolino del
pentito falso, ritenuto credibile da più gradi di giudizio?
È
l’ennesimo pezzo di verità che è destinato a rimanere opaco e che
si aggiunge, all’interno della strage di via D’Amelio, agli altri
pezzi di verità che mancano. L’agenda rossa da cui Paolo
Borsellino non si separava, il perché di quella strage a soli 57
giorni dalla bomba di Capaci in cui morì il giudice Falcone, la
moglie e la scorta. Perché quella stragi, così eclatanti, quasi a
voler lasciare un segnale. Chi c’è dietro, oltre a Riina e ai
vertici di cosa nostra? Chi sono i mandanti scoperti?
Nel trentennale delle stragi di Falcone e Borsellino sono sempre meno persone quelle interessate a queste verità, senza le quali un pezzo della nostra storia (politica anche), rimarrà opaco. Non solo la mafia è stata relegata tra i problemi di secondo piano, un passo alla volta l’abbiamo pure normalizzata. Abbiamo imparato a convivere, come sosteneva un precedente ministro della Repubblica, del partito di Forza Italia guarda caso fondato da un politico condannato per concorso esterno in mafia.
Alle passate
elezioni a Palermo è passato come se fosse una cosa normale
l’appoggio dato al candidato del centro destra (fino ad Italia
Viva) di ex politici come Cuffaro
e Dell’Utri.
Ma non è solo questo, Falcone e Borsellino
oramai sono stati trasformati in santini, eroi la cui memoria è
consegnata alle vuote parole usate nelle celebrazioni: gli eroi della
lotta alla mafia, quella dove lo stato ha vinto perché i
responsabili sono stati tutti presi e condannati..
Ma non è
così: oltre a tutti i punti oscuri di quegli anni, rimane aperto il
capitolo della trattativa stato mafia, quella che rimane presunta per
i garantisti all’italiana, nonostante le tante prove a supporto e
perfino la sentenza passata in giudicato contro il boss Tagliavia.
Non è solo un tema
di verità storica: la lotta alla mafia non è solo una questione di
repressione, di processi, di condanne. Si tratta di rescindere il
legame ancora stretto tra pezzi delle istituzioni e i capi di cosa
nostra: quei legami che, nelle intercettazioni fatte nel corso delle
indagini a Palermo, dicono che sono ancora forti. I candidati, per
prendere voti, chiedono ancora voti ai boss.
Finché non
rescinderemo questi rapporti, la Sicilia e lo stato italiano non
saranno mai liberi.
C’è un altro punto di cui si deve parlare e riguarda la memoria di quello che è stata in Sicilia la lotta alla mafia negli anni settanta ottanta: sono gli anni in cui cosa nostra uccide il prefetto di Palermo Dalla Chiesa, il presidente della regione Mattarella, il capo della Procura Costa, gli investigatori della Mobile da Boris Giuliano a Rocco Chinnici, il capo ufficio istruzione Rocco Chinnici e prima ancora Cesare Terranova, il segretario del PCI.
Sono gli anni in cui il pool di Palermo, pensato da Chinnici e realizzato dal successore Caponnetto, mette nero su bianco le condotte criminali di cosa nostra, grazie alle rivelazioni del pentito Buscetta.
Anni fa era uscito per editori riuniti il libro di Giommaria Monti Falcone e Borsellino – a calunnia, il tradimento e la tragedia: attraverso articoli di giornale, atti del CSM, testimonianze delle persone che erano state accanto ai due giudici, si ricostruisce il clima di quegli anni.
Clima di sospetto se non di calunnia, tanto per cominciare: il pool e l’azione dei giudici dava fastidio perché bloccava l’economia palermitana (dai diari di Rocco Chinnici), perché le sirene della scorta di Falcone disturbavano la brava gente che lavora (lettera pubblicata da Il giornale di Sicilia il 14 aprile 1985). Perché i processi per mafia non possono diventare un show mediatico (Vincenzo Vitale sempre su Il giornale di Sicilia). Perché in Sicilia si fa carriera grazie alle indagini sulla mafia, come scrisse – commettendo un errore grossolano – Sciascia sul Corriere il 10 gennaio 1987 dopo la nomina a procuratore capo di Paolo Borsellino a Marsala
I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di « magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia?
Sciascia non sapeva quanto avesse ragione: Borsellino e tutto il pool erano veramente dei professionisti tanto, per citare un episodio, dall’aver accettato di essere trasferiti a loro spese nel carcere dell’Asinara per scrivere la sentenza di rinvio a giudizio per il maxi (fatto che causò una malattia per la figlia di Borsellino).
Contro
Falcone e Borsellino e tutto il pool piovvero polemiche e attacchi
nel tentativo in parte riuscito di diminuirne l’efficacia nella
lotta alla mafia: tutto cominciò quando qualche giuda tradì Falcone
per la nomina a capo dell’ufficio istruzione, nomina poi passata al
giudice Meli che di fatto spazzò via quell’esperienza incredibile,
costringendo ogni giudice non solo quelli del pool ad occuparsi di
mafia, spezzettando in tanti procedimenti le inchieste di mafia.
A
questo scempio Borsellino rispose con una intervista al giornalista
Saverio Lodato
“Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa Nostra passava sulla scrivania (di Falcone) e su quella di altri tre o quattro giudici istruttori (…). Solo così si è potuto creare il maxi-processo, solo così si è potuto capire Cosa Nostra ed entrare nei suoi misteri. Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent’anni fa (…). Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima (…). Ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro”.
In questo clima di
ostilità si devono ricordare gli
articoli pubblicati da Il giornale di Berlusconi in cui i giudici
del pool vengono sostanzialmente accusati di collateralismo con
i “comunisti”, che “mirano a controllare l’antimafia e
appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata
Falcone” (così Marco Ventura sul Giornale nel 1988).
In altri articoli il maxi-processo viene definito un “un
processo-contenitore abnorme… un meccanismo spacciato come
giuridico”, ma utilizzato ad altri fini “dai giudici capitanati
da Falcone”. I giudici del pool vengono indicati come artefici di
un “ormai diffuso clima maccartista” a Palermo, e per questo
costituirebbero “un lampante pericolo non solo di condizionamento
giuridico ma ancor più di condizionamento politico” (così
Ombretta Fumagalli Carulli sul Giornale nel 1988).
Falcone fu bocciato all’ufficio istruzione, fu bocciato al CSM, e alla fine anche come capo della nuova procura nazionale antimafia. Fu calunniato dalle lettere del corvo, che lo accusavano di aver usato il pentito Contorno come killer di stato, di tenere dei fascicoli nascosti nel cassetto per non inimicarsi certi politici.
Falcone
fu accusato di essersi messo la bomba all’Addaura,
per vittimismo e ottenere poi la promozione a procuratore aggiunto.
Attentato che Falcone commentò con la famosa definizione di "menti raffinatissime" col giornalista Saverio Lodato, confidandogli anche i suoi dubbi sul funzionario di polizia Bruno Contrada
Ma nonostante tutto andò avanti, andando a lavorare a Roma, chiamato dal ministro Martelli a capo dell’ufficio affari giudiziari, dove mise a frutto la sua esperienza nella lotta alla mafia con la creazione della DIA, la turnazione dei processi di mafia in Cassazione (per evitare che del maxi se ne occupasse ancora una volta il giudice Carnevale), la procura nazionale antimafia.
E poi il decreto Falcone che, tra le altre cose, prevede il 41 bis e il “doppio binario” che consente sconti di pena per i mafiosi solo in caso di collaborazione.
Dopo
la morte di Falcone, Paolo Borsellino, da vero professionista
dell’antimafia, non ebbe paura a farsi avanti: si rese disponibile
a farsi ascoltare dai magistrati di Caltanissetta (che non lo
convocarono mai), tornò a Palermo dove cercò di fare luce sulla
morte dell’amico e collega. Sapeva che l’esplosivo era arrivato
per lui, sapeva che doveva fare in fretta.
Giusto
in questi mesi si sta parlando di togliere questa norma, l’ergastolo
ostativo, anche grazie ad una sentenza della Consulta. I mafiosi,
come i fratelli Graviano (Giuseppe
Graviano mise incinta la moglie al 41 bis), potranno uscire senza
aver raccontato nulla dei segreti di cui sono a conoscenza.
Segreti
sulla latitanza di Matteo Messina Denaro, sui mandanti a volto
coperto delle stragi di Capaci e via D’Amelio, sui veri ideatori
delle bombe ai monumenti e a luoghi simbolici in continente nel 1993.
E su come mai questa strategia si interruppe a novembre 1993 o nel
gennaio 1994 (col fallito attentato allo stadio a Roma).
Falcone,
Borsellino, i tanti agenti, carabinieri, poliziotti, magistrati che
hanno fatto il loro dovere nella lotta alla mafia sono stati dei veri
professionisti. Molti di loro hanno pagato con la vita questo loro
essere professionisti: oggi (salvo rare eccezioni) la politica,
l’informazione, il mondo dei professionisti, il mondo
dell’imprenditoria (si veda il caso Montante, responsabile della
Confindustria siciliana) hanno scelto la strada dello struzzo. Non
vedere, far finta di nulla. La lotta alla mafia si fa solo a parole,
la parola mafia si celebra solo durante le celebrazioni. E poi si
mette nel cassetto. Come la coscienza di molti.
Noi non dimentichiamo, come nemmeno la famiglia del giudice Paolo Borsellino che oggi diserterà le celebrazioni ufficiali.
In memoria di Paolo Borsellino , Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.
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Mi raccomando, siate umani