Quanta uva c’è nel vino che produciamo in Italia? Il vino è considerato, non solo da questo governo di patrioti, una eccellenza del nostro made in Italy, siamo tra i più grandi produttori di vino al mondo del resto. Ma quanto di quello che c’è scritto sull’etichetta corrisponde al vero?
Nel secondo servizio Report tornerà ad occuparsi di Venezia e degli interessi del sindaco Brugnaro.
Quanta uva c’è nel vino?
Quanto è veritiera l’etichetta stampata su una bottiglia di vino, anche DOCG? Per ottenere l’Amarone della Volpolicella ci sono delle regole di produzione molto ferree, perché da queste uve pregiate si fa un vino famoso in tutto il mondo: durante la vendemmia i grappoli si scelgono uno ad uno per prendere solo le uve migliori, selezionando i grappoli senza chicchi marci, andando a palparli quasi, uno per uno. L’uva va poi raccolta in cassette da 6 kg e lo stesso giorno trasportata in un essiccatoio, un magazzino in cui grandi ventilatori regolano circolazione dell’aria e umidità. Qui dentro l’uva appassisce per tre mesi e solo a dicembre può essere presa e pigiata. Dal mosto viene fuori il vino che alla fine, in negozio, costa tra i 30 e i 150 euro a bottiglia, magari con la scritta DOCG, che sta per denominazione di origine controllata e garantita. Sono i vini che in media costano di più perché i produttori hanno più regole da osservare: per esempio il vigneto di Amarone non può produrre più di 90quintali di uva per ettaro, un vino generico può arrivare anche a 400 quintali. Tra il vino generico e la DOCG c’è la denominazione IGT, il vino ad indicazione geografica tipica e la DOC, denominazione origine controllata: la differenza sta nel disciplinare di riferimento, sono le regole che legano il prodotto ad una zona, codificando il metodo di produzione.
Il
disciplinare definisce il livello di zucchero che le uve devono
avere, il grado di acidità, l’odore e il sapore. Quando entra
nelle cantine per la pigiatura l’uva viene infatti analizzata,
misurando come prima cosa il tenore zuccherino. Se le uve all’origine
sono buone, i valori richiesti dai disciplinari sono soddisfatti, ma
è possibile intervenire su un mosto di bassa qualità e trasformarlo
in vino che può essere venduto con una denominazione ?
Lo
spiega un produttore: “io lo prendo, lo destrutturo, cerco
attraverso delle lavorazioni che diventano fisico chimiche di
levargli i difetti, quindi se devo levargli dell’acidità gliela
posso levare in tanti modi, compresa la filtratura con le bentoniti.
A questo punto riesco ad ottenere un liquido che ha una gradazione
alcolica, inserisco dei filtrati dolci che oltre a portarmi dello
zucchero mi portano anche enzimi, ci metto dentro questa roba,
ricomincio a lavorare coi fermenti alla fine riesco ad ottenere un
altro vino.. La sofisticazione esiste da quando esiste il mondo. ”
La scheda del servizio: Vino connection di Emanuele Bellano
Collaborazione di Chiara D’Ambros e Roberto Persia
Immagini di Chiara D'Ambros, Dario D'India, Alfredo Farina, Davide Fonda, Marco Ronca e Paco Sannino
I vini italiani si dividono in Docg, Doc, Igp e vino da tavola.
Quanto più sono in alto in questa classificazione a piramide tanto più stringenti saranno le regole che i produttori devono rispettare per produrli. Ogni tipologia di vino a denominazione è regolata da un disciplinare che fissa le caratteristiche che le uve devono avere, come devono essere coltivate e cosa è possibile fare e cosa no durante la vinificazione. Esiste però un grande numero di pratiche enologiche che permettono di migliorare i parametri di uve scadenti fino a farli rientrare in quelli previsti dalla norma e alla fine venderli anche come vini a denominazione. Proprio per questo produttori senza scrupoli acquistano sul mercato mosti e uve di bassa qualità o addirittura uva da tavola che costano molto meno, le sistemano artificialmente e poi le imbottigliano come vino. Il settore è controllato dalla Repressione Frodi del ministero dell'Agricoltura. Ma i controlli non sempre sono come dovrebbero essere: l'intreccio tra politica, grande industria del vino e dirigenti della Repressione Frodi può distorcere il meccanismo di controllo al punto da usare le indagini giudiziarie come un mezzo per colpire produttori scomodi.
Gli affari del sindaco
Si
torna a parlare del Veneto, di Venezia, del
sindaco della città Brugnaro, che aveva definito Report lo
schifo d’Italia: Brugnaro
dal
2015 è proprietario di Umana, la più grande agenzia per il lavoro
italiana con sede a Venezia, possiede la Umana Reyer Venezia, una
delle più forti squadre di basket di serie A: nel dicembre 2017 per
far fronte al suo conflitto di interessi annuncia di aver affidato la
gestione delle sue aziende ad un fiduciario estero, l’avvocato
americano Ivan Anthony Sacks,
il primo blind trust mai costituito in Italia.
È una struttura
che prevede l’affidamento totale ad un terzo dei beni del soggetto
che vuole spossessarsene, il quale terzo non deve in alcun modo
comunicare al politico quello che fa, come lo fa – spiega il
consulente di Report Bellavia: “noi in Italia c’eravamo posti il
problema quando c’era Berlusconi, che aveva un conflittone di
interessi ..”
L’avventura politica di Brugnaro ha fatto bene
o ha fatto male alle sue aziende: “quando Brugnaro ha lasciato il
gruppo aveva già un’importante liquidità, stiamo parlando 7ml di
euro liquidi, aveva un grosso patrimonio netto, faceva 70 ml di
ricavi e guadagnava 10ml l’anno. Nel 2022 i 7 ml di liquidità sono
diventati 72ml, ha decuplicato i soldi liquidi, il patrimonio netto
da 60ml è passato a 380ml, i ricavi da 373ml sono triplicati ad
oltre 1 miliardo di euro .. chissà che parcella gli farà l’avvocato
americano. ”
Nel
precedente servizio Report aveva raccontato del conflitto di
interesse del sindaco, denunciato dal consigliere Gasparinetti,
capogruppo della lista civica Terra e Acqua. Sono così tanti i
conflitti di interesse del sindaco che ne ha fatto un mazzo di
carte.
A cominciare da T = trust: il trust a cui Brugnaro da le
sue aziende dovrebbe essere cieco, il problema è che quando i
consiglieri comunali votano sanno benissimo chi siano determinate
aziende, di chi sono le attività economiche della lista di cui porta
il nome. Così come gli imprenditori sanno benissimo, nel momento in
cui assumono un lavoratore stagionale, con Umana
SPA, portano soldi alle aziende del sindaco, sperando forse di
ingraziarselo, come una forma di captatio
benevolentiae,
che però funziona.
Forse
questo blind trust non è veramente cieco: il nuovo polo nautico di
punta San Giuliano è stato inaugurato pochi mesi fa da Brugnaro, i
lavori sono stati eseguiti a regola d’arte dalla Setten di Treviso,
fino alla scorsa stagione top sponsor della Reyer, la squadra di
pallacanestro di Venezia. È la stessa azienda che ha restaurato la
Scuola grande della Misericordia, palazzo storico del 500 dove si
tiene ogni anno il ballo del Doge, uno degli eventi più esclusivi e
costosi del carnevale. A gestire il palazzo fino al 2051 è la
società SMV del gruppo Umana confluito nel trust newyorkese.
Ma
questo trust è cieco o no? Lo spiega bene il consulente Bellavia,
più volte interpellato da Report per vicende analoghe: “il
proprietario è sempre Brugnaro, le sue azioni sono in affidamento
fiduciario, ma gli utili vanno sempre al fiduciario. Che lui sappia
cosa fa o cosa non fa la società non lo sappiamo, non si può dire
se sia completamente cieco o non cieco..”.
Il
servizio si occuperà poi dei terreni comprati da Brugnaro nel 2005
tramite la società “Porta di Venezia”: sono i terreni
contaminati
del porto di Marghera comprati a prezzi stracciati e che aveva
giurato di non toccare una volta sindaco. Invece subito dopo
l’acquisto comincia a trattarne la vendita con un magnate
cinese: in questa operazione era prevista la costruzione di
appartamenti, ville, l’ennesimo e immancabile centro commerciale –
racconta a Report Claudio Vanin imprenditore – poi un porto e un
palazzetto dello sport. Tutto doveva costare 1,3 miliardi: i terreni
erano stati valutati 70 milioni di euro, un bel guadagno per Brugnaro
che si sarebbe portato a casa anche un palazzetto per la sua
squadra.
Ci sarebbe dietro un conflitto di interessi: “certo
che si” commenta il consigliere Marco Gasparetti “ma non ne
abbiamo mai avuto prova”.
Quei 44 ettari di terreno sono
contaminati da fosfogessi radioattivi e sono inseriti nel perimetro
del sito inquinato di interesse nazionale di Porto Marghera, per
bonificarli servono 160 ml ma non tutti sono d’accordo.
Sebbene
fosse chiaro che la bonifica andasse fatta prima di costruire, il
sindaco si oppose, citando come esempio il parco San Giuliano dove
sotto c’è una discarica – è sempre Vanin a parlare: “si
parlava di fare un sarcofago dove veniva sigillato tutto e sopra
costruito”.
È dal 2006 che il ministero dell’Ambiente intima alla società Porta di Venezia di mettere in sicurezza e bonificare l’area, il Brugnaro imprenditore ricorre al TAR per accollare il costo degli interventi allo Stato e così si scontra col ministero dell’Ambiente e il comune di Venezia che dal 2015 è rappresentato dal Brugnaro politico.
La scheda del servizio: C'era un cinese a Venezia di Walter Molino e Andrea Tornago
Immagini di Carlos Dias, Davide Fonda, Cristiano Forti, Andrea Lilli, Giovanni De Faveri e Paco Sannino
Ricerca immagini di Alessia Pelagaggi
Montaggio di Marcelo Lippi, Andrea Masella, Sonia Zarfati e Giorgio Vallati
Grafiche di Giorgio Vallati
Una storia di terre, palazzi e consulenze, ai danni di una delle città più belle del mondo.
Luigi Brugnaro è sindaco di Venezia dal 2015 ed è proprietario di LB Holding, una rete di imprese che nel 2022 ha fatturato 1 miliardo di euro. Nel dicembre 2017, per far fronte al suo conflitto di interessi, annuncia di aver affidato la gestione delle sue aziende a un fiduciario estero, l'avvocato americano Ivan Anthony Sacks. È il primo blind trust mai costituito in Italia. Ma l'avventura politica di Brugnaro ha fatto bene o ha fatto male alle sue vecchie imprese? L'inchiesta di Report affronta con documenti inediti il presunto conflitto di interessi di Brugnaro, tra progetti urbanistici su terreni inquinati e palazzi pubblici venduti a prezzi di saldo.
La tela di Sgarbi
A voler essere buoni la storia del quadro di Manetti, di proprietà del sottosegretario Sgarbi, getta imbarazzo sul famoso critico d’arte. A voler essere buoni..
Report con Manuele Bonaccorsi e al giornalista Fatto Quotidiano Thomas Mackinson, ha seguito e raccontato tutta la vicenda (semi oscurata dai Tg Rai).
8 dicembre 2021, Lucca: l’allora deputato Sgarbi
inaugura una esposizione “I pittori della luce” dove presenta
opere di Caravaggio e di altri suoi allievi, ma la novità
dell’esposizione è la presenza di una tela inedita di Rutilio
Manetti, un importante pittore caravaggesco. In questo caso Sgarbi
non è solo il curatore della mostra, perché l’opera è di sua
proprietà.
Un dipinto che appare del tutto identico è
contenuto all’interno della banca dati del nucleo di tutela dei
beni culturali dei carabinieri, ed esiste anche una scheda
dell’Interpol, perché l’opera risulta rubata.
Il servizio
si sposta a Buriasco, un paese vicino Pinerolo: qui sorge un castello
risalente al 1300: i giornalisti hanno contattato la proprietaria
Margherita Buzio, che conferma il furto della tela nel 2013. I ladri
agirono nella notte, indisturbati, alla fine attaccano alla cornice
una pessima fotografia dello stesso dipinto: “Era troppo pesante
portarlo via così, allora hanno tagliato, l’hanno arrotolata e
portata via” racconta ai giornalisti la signora Buzio.
Nel
giugno 2013 l’opera riappare: Gianfranco Mingardi è un importante
restauratore di opere d’arte, per vent’anni uno dei preferiti di
Vittorio Sgarbi: il deputato lo chiama perché deve portargli un
quadro, era una tela arrotolata “io non avrei mai pensato una cosa
del genere” spiega a Report, “che facesse grattare le opere
d’arte, lo vedi no? Lo vedi che è tagliata, no?”.
Mingardi
si preoccupa, teme che se il quadro risultasse rubato potrebbe
finirci di mezzo lui e allora chiama al telefono Sgarbi: “Vittorio
ascoltami, mi mandi la carta per cui il dipinto è tuo, così io
sono tranquillo, te lo faccio e basta. E lui mi ha narrato la storia
del dipinto che stava a villa Maidalchina ..”.
Si tratta di
una villa nella campagna di Viterbo che nel 2000 viene acquistata
dalla signora Cavallini, la madre del sottosegretario.
Un colpo
di fortuna dunque, la villa era vuota, ma dentro c’era una tela
preziosa: “lei questa cosa la preoccupa” è stata la risposta di
Sgarbi ai giornalisti di Report
- "Io compro una villa, per buco di c.. c'è dentro un quadro...Lei perché fa questa indagine? Per scoprire che io ho c..?".
- "E dove si trovava questo quadro"?
- Ma cosa gliene frega a lei, faccia di m..?!".
Thomas Makinson sul Fatto Quotidiano ha raccontato questa storia, di cui ora si sta occupando la magistratura:
LEGGI – Vittorio Sgarbi e il quadro che riappare nel 2021 con un ritocco: la tela seicentesca del Manetti rubata nel 2013 sembra proprio la sua
Per il sottosegretario Sgarbi sono tutte “coincidenze”. Per la signora Margherita Buzio, l’anziana derubata, è letteralmente uno choc: “Non avrei mai immaginato”. Nel frattempo, sullo scoop del Fatto Quotidiano del dipinto trafugato dal suo castello di Buriasco nel 2013, ma riapparso come “inedito” di Sgarbi nel 2021, si muove l’autorità giudiziaria. Seguendo le rivelazioni dell’inchiesta condotta insieme a Report, i carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Roma sono andati proprio a casa dell’anziana vedova, 85 anni compiuti.
Che sia scattata l’indagine lo conferma Carlo Marvella, il sindaco della cittadina in provincia di Pinerolo dove l’anziana vive e all’epoca sporse la sua denuncia. Oltre a quella, la signora conserva anche un lembo del dipinto originale del 600. Lo hanno rinvenuto sul “luogo del delitto” proprio i due cronisti pochi giorni fa quando, con comprensibile reticenza e fatica, ha aperto loro le porte della sua rocca: è un frammento di tela grande 7 cm per 5, ed era ancora attaccato al telaio originale lasciato sul posto dai ladri, quando tagliarono grossolanamente la preziosa tela e la sostituirono con una foto riproduzione su plastica per ingannare la proprietaria.
Il reperto potrà servire per confrontarlo con il dipinto custodito oggi nella collezione di Sgarbi, e verificare con prove scientifiche se sia lo stesso trafugato otto anni prima oppure no. Intanto, la versione del sottosegretario Sgarbi sembra farsi ogni ora più debole. Il Fatto e Report lo hanno raggiunto due giorni fa a Urbino, dove ha inaugurato una mostra dedicata all’incisore e pittore Luigi Bartolini.
Come
risponde il sottosegretario alle domande che emergono da questa
storia? Il mio è un altro quadro, non è quello rubato “siete come
sempre incapaci..”.
Come mai Paolo Bocelli, collaboratore e
amico di Sgarbi, è andato a vedere il quadro nel castello della
signora Buzio, pochi mesi prima del furto? Come mai Bocelli consegna
l’opera, arrotolata come un tappeto, al restauratore Mingardi,
pochi mesi dopo il furto?
Sono solo coincidenze? Come ha fatto
Mingardi ad avere la foto di un’opera rubata? Sarà un problema di
Bocelli e di Mingardi – è la risposta del critico ai
giornalisti.
Servirà una perizia sull’opera che oggi è di
proprietà del sottosegretario che verrà poi comparata col lembo di
quadro rubato, quel poco che rimane,dopo che i ladri hanno tagliato
via la tela (rovinandola anche).
L’avvocato di Sgarbi ha scritto alla trasmissione intimandogli di non mandare in onda il servizio stasera:
“Tale inchiesta – si legge – risulta sub judice tanto che, stando a quanto scritto dal quotidiano, i Carabinieri del Nucleo tutela dei Beni Culturali di Roma hanno escusso sulla vicenda, quale persona informata sui fatti, il sig. Gianfranco Mingardi. Quindi, può dirsi tranquillamente che l’nchiesta di “Report” e del “Il Fatto” viola, allo stato, il segreto istruttorio, e precisamente gli artt. 114 e 329 c.p.p., e gli artt. 326, 379 bis e 595 codice penale”.
Per sostanziare la diffida, il legale evoca il precedente di un giornalista svizzero condannato dalle autorità giudiziarie elvetiche per aver pubblicato atti e documenti coperti da segreto istruttorio. Analogamente, scrive l’avvocato di Sgarbi, “la loro divulgazione in un articolo “orientato” potrebbe influenzarne l’esito a scapito della presunzione d’innocenza, dell’equo processo e della tutela della privacy dell’imputato. Lo Stato è, perciò, obbligato ad adottare misure dissuasive e restrizioni alla libertà di stampa per tutelare questi diritti fondamentali”.
Di fatto si sta invocando una restrizione alla libertà di stampa (e al cittadino di essere informato su fatti noti) per tutelare un segreto istruttorio di una indagine nata dagli articoli del Fatto Quotidiano e dal lavoro di Report. Ognuno tragga le sue conclusioni.
La scheda del servizio La tela di Vittorio di Manuele Bonaccorsi
Collaborazione di Thomas Mackinson, Federico Marconi
Immagini di Marco Ronca
Montaggio di Marcelo Lippi e Raffaella Paris
Grafiche di Michele Ventrone
8 dicembre 2021. A Lucca, in una mostra da lui curata, Vittorio Sgarbi presenta un’opera inedita di sua proprietà.
Si chiama La cattura di San Pietro, del pittore caravaggista Rutilio Manetti. Valore di mercato: alcune centinaia di migliaia di euro. Secondo il testo curatoriale, firmato da Sgarbi, l’opera proviene da Villa Maidalchina, una residenza nobiliare del viterbese, di proprietà del critico d’arte. Nessuno si accorge però che un’opera che appare del tutto identica risulta rubata. Il dipinto è contenuto nella banca dati del nucleo di tutela dei Beni Culturali, in seguito alla denuncia della signora Margherita Buzio. Nel febbraio 2013 la signora Buzio racconta ai carabinieri della Caserma di Vigone (TO) che ignoti si sono introdotti nel castello di sua proprietà e hanno ritagliato e asportato la tela di Manetti. Al suo posto hanno piazzato, con una spillatrice, una pessima foto dell’opera. La vittima del furto avanza anche dei sospetti: una persona di nome Paolo Bocedi, alcune settimane prima del furto, aveva visitato per due volte il castello, chiedendo di acquistare proprio quell’opera. Paolo Bocedi è uno storico collaboratore e amico di Vittorio Sgarbi. Proprio Bocedi, nella primavera del 2013, consegna per conto di Vittorio Sgarbi un’opera strappata e arrotolata al restauratore Gianfranco Mingardi di Brescia. Per Mingardi è proprio la Cattura di San Pietro di Manetti, la stessa opera rubata al castello di Buriasco ed esposta nel 2021 a Lucca. C’è solo una differenza: nel quadro esposto a Lucca in alto a sinistra appare una candela, che nell’opera consegnata al restauratore non c’era. Secondo Mingardi si tratta di un elemento aggiunto dopo il restauro, per rendere l’opera irriconoscibile. Per il resto l’opera di Lucca, spiega Mingardi, è identica a quella da lui restaurata. Sgarbi, interpellato da Report, ribatte che il dipinto si trovava a Villa Maidalchina, è stato rinvenuto dal critico dentro un interstizio. Ma l’ex proprietario, Luigi Achilli, lo smentisce: la villa da lui ceduta a Sgarbi nel 2000 era abbandonata e completamente spoglia. Il testo curatoriale della mostra di Lucca spiega anche che la presenza dell’opera nella villa Maidalchina sarebbe certificata da un atto notarile del 1649. Ma Report ha verificato all’archivio di Stato di Viterbo: l’atto seicentesco non fa alcuna menzione dell’opera.
I beni della curia in gestione ai privati
Un anno fa Giorgio Mottola aveva raccontato di come venivano gestiti, male, i beni della curia di Napoli, dati in concessione ai privati.
Chiese
storiche su cui erano stati fatti dei lavori abusivi, che erano
diventate sedi di mostre dal tema poco religioso.
Report
torna ad occuparsi di questi beni, tra cui risulta una chiesa
occupata da una famiglia: sostengono di aver avuto nel passato un
contratto con la curia, l’hanno anche richiesto ma non sarebbe
stato concesso, “perché si dice che queste case non si sa di chi
sono.. come non avessero padrone, però noi per vent’anni a chi
l’abbiamo pagato (l’affitto)?”.
Chi dice la verità? Un
contratto con qualcuno lo avevano firmato, ma con chi? Lo ha alla
fine rivelato l’onorevole Borrelli – deputato dell’Alleanza
Verdi e Sinistr - proprio in diretta televisiva: “noi dobbiamo
liberare da una famiglia di criminali che non paga, o meglio
all’inizio ha pagato al parroco, solo che poi la curia stessa ha
disconosciuto quei pagamenti. La domanda è, a che titolo prendeva
quei soldi? E perché non li ha restituiti? Perché non c’è un
intervento nei confronti di una persona che, anche se un prete, si è
messo a prendere dei soldi da criminali noti.. Se non fosse stato per
Report non avremmo saputo niente o poco.”
Mottola ha chiesto
conto di questa storia al nuovo procuratore di Napoli Gratteri: la
storia “della canonica di una chiesa del 500 occupata da
pregiudicati e di un prete che avrebbe preso soldi all’insaputa
della curia.”
Gratteri ha risposto che, pur non potendo
parlare di indagini, ma in procura hanno seguito la trasmissione,
“che ci ha abbastanza colpito negativamente.. abbiamo pensato di
firmare un protocollo per fare sinergia tra Chiesa, Procura e
Sovrintendenza e capire se questi beni sono stati distratti,
occupati abusivamente, se sono stati danneggiati, adattati, fatte
delle aggiunte abusive.”
La
musica è cambiata? “Sono fiducioso che nel futuro le cose che ci
avete fatto vedere non si ripetano o siano grandemente ridotte.”
La scheda del servizio: Abbiate Cur(i)a di noi di Danilo Procaccianti
Collaborazione di Goffredo De Pascale
Immagini di Carlos Dias e Andrea Lilli
Montaggio e grafica di Monica Cesarani
Dopo un anno di ricerche la proprietà della chiesa di San Biagio ai Taffettanari resta ancora da definire.
Un anno di ricerche negli archivi non ha prodotto nulla: la proprietà della chiesa di San Biagio ai Taffettanari in pieno centro storico a Napoli resta ancora da definire; intanto una famiglia di pregiudicati dispone a suo piacimento del tetto della chiesa e della canonica, un edificio di quattro piani dove alcuni di loro hanno scontato anche i domiciliari. Eppure, qualcuno della Curia partenopea un contratto di locazione sembra averlo firmato con quella famiglia. Chi? E a quale titolo? Le difficoltà da parte della Curia nella gestione dell’immenso patrimonio artistico e architettonico non finiscono qui, una delle più evidenti è il balcone abusivo costruito decine di anni fa sulla facciata di un’altra chiesa cinquecentesca, quella di Sant’Arcangelo a Baiano. Inserito in una lista del Comune di 30mila interventi di abbattimento grazie alla tenacia della Soprintendenza, il balcone che deturpa il monumento è al numero 1340. Se si considera che la polizia municipale effettua una quarantina di abbattimenti l’anno, fra 33 anni lo scempio sarà rimosso. La Curia e il Comune si sono messi l’anima in pace? Il turismo culturale a Napoli è anche questo.
Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.
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