30 giugno 2024

Parenti di sangue per l'87° distretto, Ed McBain


 

Arrivava correndo nella pioggia, scalza. Il riflesso liquido dell’insegna al neon e dei semafori schizzava via sotto i piedi in corsa. Lei e la sua immagine sull'asfalto bagnato fuggivano simile a gemelle siamesi unite in modo bizzarro, i piedi a contatto coi piedi riflessi su lucido asfalto bagnato, pozzanghere di rosso e di verde, di arancione e di azzurro che spruzzava in sua macchiare le gambe col fango della città.

Sanguinava.

Sanguinava da una ferita sulla guancia destra e sanguinava dai tagli alle dita e ai Palmi di tutte e due le mani. Il davanti del vestito era stato strappato, e mentre correva lei cercava di tenere accostati, a coprire il reggiseno, i lembi della stoffa.
Pioveva dalle dieci. Adesso la pioggia non era né violenta né fitta, si era trasformata in gocce minuscoli che facevano salire dalla strada una specie di nebbia leggera. In distanza i globi Verdi dell'87° Distretto brillavano tra la pioggia e la nebbia.

I gialli di Ed McBain che ho letto finora, scontando il peccato di aver trascurato per anni questo scrittore, non mi hanno mai deluso. Anche questo, “Parenti di sangue” (Blood relative il titolo originale, pubblicato nel 1975) conferma la regola: ci troviamo di fronte ad un delitto particolarmente cruento che viene raccontato, in presa diretta, con gli occhi degli agenti investigativi che dovranno seguire il caso.

C’è una ragazza che in una mattina di pioggia si presenta all’87 Distretto tutta insanguinata e col vestito strappato: si chiama Patricia, ha quindici anni al poliziotto che l’accoglie, Bert Kling, racconta di essere stata aggredita in un androne dove si era rifugiata per la pioggia, da un uomo che prima ha accoltellato la cugina e poi cercato di uccidere lei.

In parallelo, un agente di pattuglia mentre sta imprecando per quella pioggia che gli ha inzuppato le scarpe, nel suo giro scorge una mano che spunta da un androne. È una ragazza che, dai segni lasciati sul corpo, è stata uccisa a coltellate, il sangue è schizzato su tutte le pareti.
Ancora non lo sa, non può saperlo, che si tratta dello stesso delitto di cui Bert Kling sta raccogliendo le prime informazioni al distretto: così l’agente di pattuglia chiama il Distretto che assegna il caso a Steve Carella.

Al distretto arriva anche una telefonata della signora Liliam Lowery: la figlia e la nipote, Patricia e Muriel, sono andate ad una festa dovevano tornare alle dieci ma non sono ancora tornate a casa (siamo negli anni settanta e non c’erano i cellulari dei giorni nostri).
Una denuncia per violenze, un corpo di una giovane ragazza trovata morta e una madre preoccupata per la figlia e la nipote: i tre casi sono destinati a riunirsi in un’unica indagine, seguita da Steve Carella che si mette scrupolosamente ad indagare.

Prima la scena del crimine, la ricerca di impronte, dell’arma del delitto casomai l’assassino l’avesse gettata poco distante per sbarazzarsene; poi la raccolta del parere del medico legale (c’è stata anche violenza sessuale su quella ragazza?) che lascia all’agente il suo parere, tutte quelle coltellate, in quel modo furioso, sono opera di un sadico.

Infine, la testimonianza di Patricia, sopravvissuta all’agguato: il suo racconto è estremamente dettagliato, l’uomo – bianco – che le ha aggredite e che ha ucciso la cugina Muriel, era alto e aveva gli occhi azzurri.

C’è un primo indiziato, scoperto da altri agenti in pattuglia attorno alle strade dove è avvenuto il delitto: si tratta di un uomo che stava dormendo per strada e che di fronte alle domande degli agenti, cerca di aggredirli. Potrebbe essere il colpevole lui? No, è scagionato da un incredibile alibi, mentre Muriel veniva accoltellata, stava picchiando la moglie.. perché ogni tanto scappa, “sanguinava parecchio quando sono uscito di casa, ma non voglio guai con la legge.”
Non è un assassino, solo uno dei tanti, troppi, uomini violenti. Che andrebbero curati.
Il lavoro di indagine va avanti: l’autore ci racconterà di come procedono questo tipo di indagini passo dopo passo, portandoci dentro il distretto e perfino dentro la vita degli agenti, costretti a convivere con tutto il male del mondo, cercando di tenerlo fuori dalla vita privata.
Un altro passaggio fondamentali in casi come questi è sentire tutte le persone del Distretto condannate per reati di violenza contro le donne (o minorenni): questa procedura porta ad un altro possibile assassino, si tratta di un uomo bianco, con una condanna per violenza contro minori, che ha pure gli occhi azzurri.

L’uomo che la ragazza toccò su una spalla era un agente investigativo con diciassette anni di anzianità di servizio che era stato trasferito all’87 Distretto un mese prima.

Ma ancora una volta questa si rivelerà un buco nell’acqua: messo a confronto con Patricia, la testimone, per il classico “confronto all’americana”, quest’ultima riconosce un altro uomo. Un poliziotto che non ha niente a che fare con questa brutta storia..

Succede, coi testimoni: un poliziotto con qualche anno di esperienza sul campo, le sa queste cose. I testimoni, anche quelli che si dicono sicuri di saper riconoscere la persona, che dicono di aver visto tutti quei dettagli, poi alla prova dei fatti spesso si sbagliano.
Questo riconoscimento sbagliato però riduce la credibilità di Patricia, siamo sicuri che quella sera abbia veramente visto in faccia l’assassino della cugina? Il lampione davanti l’androne era rotto, quando è passato l’agente di ronda.

Nel frattempo, accadono diversi eventi che cambiano il corso delle indagini: per prima cosa viene ritrovato il coltello con cui sono state colpite Patricia e Muriel. E non si tratta di un coltello qualsiasi, non è stato comprato in un negozio. Sarà un primo tassello che metterà Steve Carella sulla pista giusta.
Poi è Patricia, che, come un fulmine a ciel sereno, decide di cambiare la sua deposizione. No, l’assassino non è più quell’uomo con gli occhi azzurri (ma allora, da dove ha preso l’ispirazione per questo finto assassino? Come mai ha scelto proprio quel particolare per quell’assassino?).

Infine, è sarà questa la scoperta più importante, frutto anche del caso, perché a volte per risolvere un caso serve anche un pizzico di fortuna: è la scoperta del diario di Muriel, ritrovato in una discarica dal Tom “il re del mondo”, un senzatetto che vive di quanto ritrova nell’immondizia che i suoi concittadini buttano via e che per lui costituisce una sorta di donazione.

.. si sedette su una poltrona sventrata, e alla luce del tardo pomeriggio cominciò a leggere un libro rilegato in pelle rossa.
Sulla prima pagina lesse le parole stampate che dicevano: “Questo è il diario di.” E sotto, scritto a mano sopra l’apposita riga punteggiata, lesse:
“Muriel Stark.”
Il nome gli suonò familiare. Muriel Stark. Senza dubbio era una sei suoi sudditi.

La lettura del diario, consegnato prontamente agli agenti dell’87 Distretto e poi all’agente incaricato, Carella, darà gli ultimi elementi per chiudere il caso.
E capiremo anche noi perché quel titolo, Parenti di sangue.

Dentro questo giallo c’è dentro il lavoro del poliziotto, non eroe o superman, ma un uomo che si affida al suo intuito, all’esperienza, per portare avanti al meglio il suo lavoro. Che è un lavoro che rischia di pesare anche nella vita privata, dentro le mura di casa.
Ed McBain ci mostra passo passo come funzionano questo genere di indagini, come si muovono i poliziotti, con i presunti responsabili (e i diritti che devono essergli riconosciuti), con le vittime che si porteranno sempre dentro il loro dolore, coi testimoni.
Perché ogni delitto, come questo di una ragazza uccisa in un androne di un palazzo in ristrutturazione, finita dentro un amore inseguito, poi diventato soffocante, racconta quanto può essere profondo e vicino a noi, il male.

C'è, a metà racconto, un passaggio interessante sul tema della libera circolazione delle armi in America, sulla presunta maggior sicurezza che deriverebbe dall'avere più armi e di come, invece, questo costituisca un problema a cominciare dai poliziotti stessi: 

 Nonostante quello che l'associazione nazionale armaioli proclamava sul diritto di ogni e qualsiasi uomo di possedere armi e di andarsene allegramente per i boschi e divertirsi cacciando, a Carella, come ogni altro poliziotto di quella città, sarebbe piaciuta, sopra ogni altra cosa, una legge che proibisse a ogni privato cittadino, di possedere o portarsi a spasso un'arma da fuoco di qualsiasi genere e per qualsiasi scopo. Ma i poliziotti non hanno gran voce in capitolo a Washington, anche se sono loro che quotidianamente raccolgono tempesta mentre i fabbricanti d'armi, che seminano vento, raccolgono invece grossi profitti.

Questo libro non si trova in vendita negli store online (almeno, io non l’ho trovato): potete trovarlo usato su Ebay

24 giugno 2024

La strage di Bologna, i mandanti di Paolo Morando


Questo breve romanzo del giornalista Paolo Morando è il secondo volume della raccolta "Terrorismo italiano" pubbicata dal Corriere della sera, curata da Barbara Biscotti.

L'autore ha scritto per Feltrinelli un saggio ben più corposo intitolato "La strage di Bologna - Bellini, i Nar, i mandanti e un perdono tradito" dove trovano spazio anche le storie dei primi processi che hanno portato alle condanne in via definitiva dei tre esponenti dei Nar, Mambro, Fioravanti e Ciavardini, come anche le storie delle vittime.

Famiglie distrutte (anche nel senso materiale del termine) da quella bomba esplosa nella sala d'aspetto della stazione di Bologna in una mattina del 2 agosto 1980.

In questo libro ci si sofferma sugli ultimi sviluppi emersi dal processo Bellini/mandanti che, con le sentenze di condanna emesse in primo grado, ci consente per la prima volta dopo più di quarant'anni di arrivare al livello superiore.

La strage non è più solo opera di quattro ragazzi autodefinitisi spontaneisti: ora abbiamo il livello superiore che dai Nar, il gruppo terrorista di estrema destra cresciuto a destra del movimento sociale e in rottura con i "tramoni" di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, sale su fino alla P2 di Gelli e a uomini dello Stato che pensavamo di aver sepolto nella nostra storia passata. Uomini come Federico Umberto d'Amato, a capo dell'Ufficio Affari Riservati, una sorta di servizio segreto del Viminale, uomo di cerniera tra l’Italia e la Nato, piduista. Il suo ufficio è stato ritenuto responsabile, tra le altre cose, dei depistaggi all'indomani della strage di Milano, il 12 dicembre 1969, con la falsa pista che incolpava gli anarchici e la velina che definiva perfino Yves Guerin Serac come anarchico.

Mescolare il vero e il non vero, in modo da rendere difficile se non impossibile risalire alla verità.

Tutto ruota attorno alle carte, alle sentenze, ai passaggi dell'ultimo processo, conclusosi nell'aprile 2023 in primo grado (e dei precedenti processi chiaramente): interi passaggi vengono riportati, in modo che anche il lettore possa rendersi conto di come i giudici e i magistrati sono arrivati a stabilire le responsabilità dei sogetti imputati. Ma va dato atto all'autore di essere riuscito a non essere "pesante" nel racconto: chi vuole farsi una conoscenza sui fatti di Bologna, sui depistaggi, sui perché dei depistaggi e, cosa ancora più importante, sul perché di questa strage, può partire da questo libro.

Non mi soffermo sulle responsabilità, ormai acclarate, chiare e definitive, dei neofascisti condannati per la strage: nonostante ancora oggi il fronte innocentista (che trova sponda anche nella maggioranza di governo) non si sia rassegnato alla definizione di bomba "fascista", le loro responsabilità sono oltre ogni ragionevole dubbio. Ancora una volta, se volete leggere un approfondimento sulle prove che hanno portato alle condanne di Mambro, Fioravanti (assieme a Ciavardini e Cavallini, condannati ma non ancora in via definitiva), potete leggere il capitolo su Bologna nel libro "La ragazza di Gladio" di Paolo Biondani.

I colpevoli sono loro. Punto.

Quello che mancava fino al 2023 erano i perché: era una sentenza monca, quella che ha condannato i Nar, terroristi contro il sistema ma in realtà, finanziati e aiutati da pezzi dei servizi e della massoneria deviata, altro che spontaneisti. Si ritiene, spiega Morando, che siano addirittura stati creati dai servizi, quella parte che viene definita deviata, ovvero al servizio di interessi al di fuori del dettato costituzionale.

Se siamo arrivati a questo è grazie al lavoro e all'impegno della Procura Generale di Bologna, che ha avocato a sé il processo dopo la richiesta di archiviazione della procura. Ma soprattutto dobbiamo dire grazie all'impegno delle parti civili, avvocati e familiari dell'associazione vittime di Bologna che non hanno mai smesso di cercarla questa verità, di proteggere le sentenze di condanna dai continui despitaggi, ancora oggi.

Depistaggi che non finiranno, perché quella di Bologna è una pagina nera della nostra storia che racconta della doppia fedeltà di pezzi delle nostre istituzioni, di come siamo stati (ma è giusto usare il passato?) un paese a sovranità molto limitata.

Anche a prezzo della vita di 85 persone.

Sono state le parti civili a far ritrovare il documento "Bologna", sequestrato in Svizzera a Licio Gelli, dominus della P2 e, secondo molti storici, dominus anche dei nostri servizi segreti a cavallo degli anni settanta e ottanta. Su quel pezzo di carta, ripiegato in quattro, c'era la scritta Bologna, poi una serie di cifre, movimentazione da un conto corrente della banca UBS (Bologna 525779 –X.S.).

Soldi, che si è scoperto poi, sono finiti su conti riconducibili ai Nar, al direttore dell'Ufficio Affari Riservati, un potente uomo dentro il mondo dei servizi e al giornalista Mario Tedeschi, senatore del MSI ma anche giornalista de il Borghese, giornale su cui vennero pubblicati articoli a sostegno della fantomatica pista palestinese, pista che tutte le sentenze hanno smontato pezzo per pezzo.

Se non sono stati i NAR, come mai i servizi, controllati dalla P2 di Gelli, si sono mossi sin da subito, per sviare le indagini e sostenere così la loro innocenza? Anche le sentenze di condanna a Gelli e a pezzi del Sismi (il vecchio servizio segreto militare) sono passate in giudicato: stiamo parlando dell'operazione "terrore sui treni" con cui furono fatti trovare, nel gennaio 1981, sul treno Taranto Milano delle bombe con la stessa micidiale composizione di quella di Bologna. Come facevano i servizi a conoscere la giusta composizione della bomba del 2 agosto, visto che i periti non avevano ancora depositato i loro risultati?

Quel documento, che Gelli conservava con cura nel suo portafoglio ripiegato in quattro, non era mai arrivato ai magistrati di Bologna: era stato inviato dalla Guardia di Finanza ai magistrati milanesi ma senza riportare l'intera scritta "Bologna" nonostante in quei mesi del 1987 il processo sulla bomba alla stazione fosse già in corso. Sciatteria, superficialità, oppure un altro tentativo di depistaggio?

Quel documento è arrivato ai magistrati di Bologna grazie al lavoro dell'ex magistrato Claudio Nunziata che ne trovò traccia in un libro dello scrittore inglese e lo riportò all'associazione vittime.

Il documento Bologna fa il paio con un altro, anche questo strategico per comprendere il ruolo e il potere di Gelli: si tratta del documento "artigli": si tratta di una nota scritta da un dirigente del Viminale, da inviare al ministro dell'interno (che nel 1987 quando fu redatta era Amintore Fanfani). In questa nota si riassume un incontro avvenuto al Viminale tra l'avvocato di Licio Gelli, in quel momento già sotto processo per la strage, e il capo della polizia Parisi (che era stato anche direttore del Sisde).

Cosa c'è scritto in quel documento, così segreto da non venire nemmeno archiviato (tanto che fu trovato anni dopo nell'archivio in via Appia del Viminale)?

Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha, li tirerà fuori tutti”.

Il messaggio, anzi, il ricatto che Gelli per tramite del suo avvocato, fa allo stato italiano, è questo: non fatemi domande scomode su Bologna, in particolare facendo riferimento al documento "Bologna" che gli era stato sequestrato, altrimenti tiro fuori gli artigli anche io.

Inizio a parlare - fa capire Gelli - dei miei rapporti con lo stato, coi servizi, magari tirando fuori altri elenchi compromettenti, come la lista completa degli appartenenti alla Loggia P2.

Gelli chiedeva solo di poter morire in pace nel suo letto, cosa che puntualmente avvenne nel 2015: per il depistaggio, per le sue responsabilità in questa strage (scoperte anni dopo, certo), Gelli non ha scontato un giorno di prigione in Italia. Il suo ricatto ha funzionato.

Ma adesso da questi due documenti sappiamo: sappiamo come è maturata questa strage e perché è stata fatta.

La corte di Assise d'Appello di Bologna ha riportato quasi completamente la memoria presentata dall'Avvocatura di Stato, che ha ricostruito il contesto di quegli anni: erano gli anni in cui l'esperimento del centro sinistra andava a morire, Gelli e la sua P2 era riuscito a tenere sotto controllo il caso Moro, mettendo davanti la ragione di stato e lo status quo alla vita del presidente DC.

Erano gli anni in cui i repubblicani si apprestavano a vincere le elezioni nel 1980, con Ronald Reagan e Bush sr alla Cia: da una parte Gelli comprende che per preparare il terreno a questa destra deve continuare la sua opera di destabilizzazione del paese, in modo da poter conquistare più potere nei confronti degli americani. E dunque i finanziamenti ai Nar, iniziati nel 1979, gli attentati, i delitti politici.

Dall'altra parte gli americani comprendono - continua la corte d'Assise nelle sue motivazioni - che Gelli va deposto, va messo fine al suo potere: inizia una campagna contro di lui, viene tirato fuori dai servizi (quelli che lui controllava) il dossier Cominform, dove Gelli è presentato come spia dell'est. Tutto falso, ma è uno strumento (in cui viene coinvolto il giornalista di OP Mino Pecorelli) utile a intorbidire le acque.

Scrivono i giudici nelle motivazioni:

«si può tuttavia già notare che la strage del 1980 non fu che la prosecuzione della strategia della tensione inaugurata nel 1969 in Italia e che non fu l'ultima tappa della violenza politica che continuò a funestare l'Italia».

Nell'ultimo filone del processo è stato condannato anche Paolo Bellini: è stato riconosciuto in un frame di un video girato da un turista tedesco nei momenti successivi alla strage: quel video, in VHS, fu inviato poi ai magistrati bolognesi, da questo furono estratte diverse foto. Solo nel 2019 un avvocato di parte civile si accorse che solo parte di quelle foto erano state analizzate dai giudici. Guarda caso mancava un pezzo dove all'improvviso compare un uomo, che somiglia molto a Paolo Bellini.

Strana figura, la sua: esponente di avanguardia nazionale, latitante dopo diversi omicidi per la ndrangheta, ritornato in Italia sotto falso nome.

Il padre era un fascista convinto che, dice Bellini figlio, lo voleva spingere per entrare nei servizi.

Entra però, come afferma la sentenza di primo grado, in questa strage, come entrerà anni più tardi nel periodo stragista della mafia (non come responsabile, ma per aver suggerito le opere d'arte come obiettivo di attentati), nel 1993 con le bombe a Firenze, Roma e Milano.

Ma questa è un'altra storia, o forse no.

La storia dei processi sulla strage di Bologna ci da una lezione importante: sebbene molti dei responsabili siano morti, non è mai troppo tardi per arrivare ad una verità, per dare giustizia alle vittime e per inchiodare alle loro responsabilità i mandanti di queste trame nere che, ogni giorno, diventano sempre meno oscure, sempre prendendo spunto dalle motivazioni della sentenza

anche coloro che si resero verosimilmente mandanti e/o finanziatori della strage, pur senza appartenere in modo diretto a gruppi neofascisti, condividevano i predetti obiettivi antidemocratici di fondo ed ambivano all’instaurazione di uno Stato autoritario, nell’ambito del quale fosse sostanzialmente impedito l’accesso alla politica delle masse”.

Il link per ordinare il libro.

23 giugno 2024

Report - il senatore assenteista, Verona e la ndrangheta, l’inchiesta sulla Fondazione Milano Cortina, le analisi del sangue in farmacia

IL PORTANTINO EDITORE Di Luca Bertazzoni

Il senatore Angelucci è stato seguito, oltre che dalla scorta, dal giornalista di Report che ne ha raccontato la sua storia da portantino, fino a diventare un importante manager della sanità.
Oltre che senatore, da 16 anni, prima in Forza Italia poi Lega, sempre eletto in un collegio blindato, nonostante sua il prototipo dell’assenteista.
Senatore poco amichevole coi giornalisti che gli ricordano le assenze.
Ma è anche il senatore più ricco, per il vitalizio che gli riconosce il gruppo da lui fondato.
Queste società – spiega il consulente finanziario di Report Bellavia – fanno tutte capo ad una finanziaria, la Tosinvest, controllata da una società lussemburghese, la quale è a sua volta controllata da un’altra lussemburghese, ancora controllata da una nuova società in Lussemburgo. I tre livelli di controllo lussemburghese sono riconducibili a.. non lo possiamo sapere, ma quella in cima a tutto si chiamava Angelucci, poi ne hanno cambiato il nome, dunque probabilmente è di proprietà del senatore. Perché la scelta di società controllanti in Lussemburgo? Per motivi fiscali, continua Bellavia: gli utili degli ospedali degli Angelucci che lavorano in convenzione col pubblico finiscono in Lussemburgo: “concettualmente si, poi bisogna vedere come si muovono, come vengono distribuiti i dividendi, ma alla fine sono dividendi lussemburghesi dunque non tassati e stanno all’estero.”
Grazie ai guadagni dal campo sanitario Angelucci oggi può investire in una sua seconda passione, l’editoria: già proprietario di Libero, Il Tempo e il Giornale, il gruppo Angelucci ha messo gli occhi sulla seconda agenzia di stampa del Paese, l’Agi, di proprietà dell’Eni, controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze.
Vincenzo Vita è stato sottosegretario alle telecomunicazioni fino al 2001: “se una cosa esce in agenzia, c’è come un timbro, vuol dire che è una cosa seria, non è una fake e questo può dar luogo a chi fa il telegiornale di fare la sua scaletta.. la cosa che dice l’Agi merita di essere in testa”.
Se Angelucci dovesse prendersi l’Agi cosa potrebbe succedere?
“Angelucci avendo interessi in settori piuttosto delicati, le cliniche private, sarebbe una forma di pressione, un modo per fare intendere ai vari pezzi del potere che c’è eccome una presenza che vuole contare..”.
Questa proposta di acquisto ha suscitato le proteste dei giornalisti dell’agenzia Agi, scesi in piazza per dire no alla vendita di Eni della testata al parlamentare leghista: sui cartelloni era scritto “l’Agi non si svende” a difesa anche del pluralismo e della libertà dell’informazione, un valore nelle democrazie anche per noi cittadini. Libertà di informazione che sarebbe messa a rischio dalla vendita ad un editore-politico.
Lo spiega bene a Report Serenella Ronda, giornalista dell’Agi: “le agenzie di stampa sono una fonte primaria di informazione e per questo devono essere autonome e indipendenti”.
In piazza, il 3 aprile scorso, assieme ai giornalisti, erano presenti anche esponenti dell’opposizione, come l’ex giornalista Ruotolo e il deputato Fratoianni: l’ex segretario PD Bersani parla di un “segnale all’ungherese, qui si vuole prendere una agenzia e buttarla a fare un service di un gruppo di testate di destra in spregio ad ogni logica di conflitto di interesse ma anche, io credo, al comune senso del pudore.”
“In democrazia non dovrebbero succedere cose di questo genere” racconta ai giornalisti in piazza il segretario del M5S Conte “che una partecipata dallo Stato, controllata dallo Stato, offre a trattativa privata ad un parlamentare di maggioranza la seconda agenzia di stampa del paese.”
Dietro questa trattativa ci sarebbe Mario Sechi, ex portavoce di Meloni: questa voce la racconta una fonte interna ad Agi, Sechi ha lavorato per tutti e tre gli attori della vicenda, da Descalzi a Meloni ad Angelucci con Libero.
Descalzi era presente all’evento di FDI a Pescara, la conferenza per il programma del partito: dal punto di vista economico l’operazione fa acqua, allora perché la si fa?
Sechi, al telefono, ha smentito queste voci: però alla festa dei 50 anni de Il giornale, erano presenti tutti, gli Angelucci, Tajani e Sechi.
Bertazzoni è riuscito ad incontrare Angelucci a cui ha chiesto conto di questa operazione con Agi: cosa ci fare con Agi? “se anche fosse, ci divertiamo..”

La clinica di Velletri del gruppo Angelucci è stata chiusa dopo la fine dell’accreditamento: è stata scelta dal ministro Salvini per un evento del suo partito. Nell’evento il ministro si era speso per la riapertura della struttura.
C’è anche la storia della presunta corruzione dell’assessore D’Amato che però, spiega Angelucci, sarebbe avvenuta al contrario (era D’Amato che avrebbe chiesto soldi per le elezioni), il pm avrebbe anche chiesto l’archiviazione.
A Report, l’ex assessore D’Amato racconta una storia diversa, parla di 250mila euro se Amato avesse fatto dei favori ad Angelucci, tra cui la riapertura della struttura di Velletri.
L’ex assessore D’Amato si è opposto all’archiviazione e ora deciderà il GIP.

Nella battaglia per far riaprire questa struttura, Angelucci avrebbe coinvolto anche l’ex presidente Storace: secondo D’Amato, sarebbe stato Storace a chiamare l’ex assessore, per fare da mediatore col gruppo. Storace conferma l’incontro, in qualità di ex assessore voleva aiutare a trovare un accordo, “capire la ragione dell’accanimento contro il gruppo”, spiega a Bertazzoni.
Di fronte all’insistenza delle domande di Report, Storace sbotta “ma vuole essere proprio querelato?”

Quello che è vero è che i giornali di Angelucci iniziarono una campagna elettorale contro l’assessore D’Amato, in particolare Il Tempo: dopo la carota, il bastone – è stato il commento di D’Amato.
Angelucci come spiega la sua collezione di giornali? “Così… è una passione, poi vediamo: può darsi che ci stufiamo, li mettiamo insieme e li vendiamo”.
Secondo Angelucci, vorrebbe comprare anche La Verità del direttore Belpietro, che proprio dal manager della sanità è stato licenziato, per un contrasto causato da Renzi.
Report racconta di una trattativa tra la regione e Angelucci con mediatore Verdini, per delle fatture non pagate (dalla regione, targata PD): in questa mediazione Angelucci non voleva essere disturbato.

A vendere Agi ad Angelucci, sarebbe Eni, controllata dal ministro Giorgetti, collega di partito: in aula il ministro ha spiegato di non saperne nulla, ma stiamo parlando di una vicenda che ha dentro un conflitto di interesse e una concentrazione preoccupante dei mezzi di informazione.
Come la mettiamo con le regolamentazioni europee sull’informazione?
Gli affari ai giornali di Angelucci non vanno bene: guadagna bene con la sanità e bilancia per perdite. Il Tempo, Il Giornale, i giornali hanno una funzione diversa: racconta il servizio che si vuole avere una agenzia di stampa che faccia da megafono per la tua area politica, perché non si sa mai.
I media indipendenti sono un pilastro fondamentale delle democrazie – ricordano dall’Unione Europea. Lo sono indipendenti, i giornali di Angelucci?

Il nuovo presidente della regione Lazio è, dal 2023, Francesco Rocca, ex presidente della Croce Rossa (e nel passato ha lavorato in una clinica di Angelucci): “speriamo che Rocca abbia un occhio di riguardo, diverso da prima” racconta a Bertazzoni nell’intervista volante.
Rocca è stato presidente di Confapi, l’associazione delle cliniche private, ha scelto di tenersi la delega alla sanità: “Rocca è una persona capace e non quella persona di prima” è sempre Angelucci riferendosi a D’Amato.

Uno dei motivi degli scontri tra l’ex assessore e il manager è stata la questione della clinica di Rocca di Papa: era stata dichiarata covid free, così la signora Giovanna Boccardi aveva lasciato lì la madre nei mesi della pandemia, “ma ogni volta che arrivavo lì trovavo tre, quattro carri funebri e ho capito che c’era qualcosa che non andava..”.
Altra testimonianza è quella del signor Giacomozzi, figlio di un paziente di Rocca di Papa morto per covid: “io ho saputo del decesso dalle pompe funebri perché dal San Raffaele non mi hanno detto niente”.
Si parla di più di 170 contagi di cui la struttura aveva timore a raccontare, dal racconto della signora Boccardi “parliamo di qualcosa che non è stata gestita bene dall’inizio alla fine, io vedevo il personale entrare senza mascherine, senza guanti, ho chiesto se ci fosse un protocollo per evitare dei contagi e mi è stato risposto che non erano attrezzati per l’isolamento per cui i pazienti covid o no covid, con febbre senza febbre erano tutti quanti insieme.”
Stefano Giacomozzi ha presentato denuncia per capire cosa fosse successo alla madre, dall’ospedale abbiamo ricevuto due telefonate e basta e il certificato di morte.

Quando i contagi per covid nella struttura di Rocca di Papa iniziano a crescere senza controllo, nell’aprile 2020 la regione Lazio e l’unità di crisi decidono di istituire una zona rossa attorno alla struttura: l’ex assessore D’Amato racconta a Report che quello è stato uno dei cluster più rilevanti in una struttura sanitaria “constatammo che non erano rispettati le condizioni di sicurezza in relazione alla suddivisione dei percorsi, dei dispositivi di prevenzione, a tutto ciò che andava messo in atto per limitare la diffusione del contagio.”
Si arrivò così alla revoca
dell’accreditamento al San Raffaele di Rocca di Papa: accreditamento poi ristabilito dalla nuova amministrazione di destra di Rocca.
Gli affari per il gruppo Angelucci sono in crescita, con la nuova amministrazione Rocca: al gruppo arrivano 19ml di euro in più, “io mi sono trovato nella situazione di dare un posto a tutti i disperati nei pronto soccorsi” ha spiegato il presidente.
Non un favore, dunque: vedremo se la nuova amministrazione riuscirà a far ripartire la clinica di Velletri.

Come mai è passato alla Lega?
“Ma non sono andato alle Lega per scelta – dice ancora Angelucci a Report – ma perché chiaramente in Forza Italia eravamo 94, con la nuova riforma (sul taglio dei parlamentari, ndr) erano 24. Tajani e devo dire tutti mi hanno detto: ‘Tonì, un posto per te c’è, non c’è problema’. Però ho detto: ‘non ve state a preoccupa’, magari datelo ad un altro’ perché io posso andare sia alla Lega sia a Fratelli d’Italia”.
Aho, comportate bene, l’ammonimento lasciato a Bertazzoni prima di andarsene.

NESSUN DORMA Di Walter Molino e Andrea Tornago


Le radici della ndrangheta hanno infestato anche i marmi dell’Arena di Verona, lo splendido anfiteatro romano conosciuto per il festival lirico che attrae cultori dell’opera e turisti da tutto il mondo. A montare e smontare palchi e scenografie è stata per anni una rete di imprese che, secondo la procura antimafia di Venezia, con un giro di fatture gonfiate, arricchiva le cosche Grande Aracri di Cutro e Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, tra le più potenti ndrine calabresi.
Nei magazzini della Eurocompany, nella zona industriale della città venivano conservate le scenografie della stagione lirica veronese. Sono 10mila metri quadrati che la fondazione Arena di Verona prendeva in affitto a carissimo prezzo dalla Eurocompany di Giorgio Chiavegato, una rete di cooperative di facchinaggio da 26,7 ml di euro di fatturato.

Chiavegato aveva iniziato a lavorare con la fondazione nel 2012: agli appalti partecipava solo la sua azienda, “perché era talmente complessa l’attività di smontaggio e montaggio, non era come montare un’impalcatura..” Ma di fatto oggi quel lavoro è fatto da altre imprese.
Oggi Chiavegato è in attesa di un processo dopo un anno ai domiciliari. È accusato di false fatturazioni e altri reati fiscali con l’aggravante di aver agevolato la ndrangheta.
Intorno alla società di Chiavegato giravano altre società che secondo la procura, riciclavano i soldi delle ndrine: a gestire queste aziende c’era il manager Domenico Mercurio, oggi diventato collaboratore di giustizia.
A Report Mercurio ha raccontato il sistema: l’imprenditore crotonese creava finte fatture, che poi Chiavegato pagava, una parte veniva tenuta per sé.
Mercurio offriva anche servizi ai politici, offrendo pacchetti di voti.

I soldi in nero di Chiavegato finivano alla politica e, secondo l’imprenditore della Eurocompany, finivano anche nelle tasche dei dipendenti della fondazione (nessuno dei quali risulta indagato).
Non tutti hanno voglia di parlare dell’indagine della Eurocompany, nemmeno la sovrintendente Gasdia, ex soprana, che negli anni non si era accorta di come venivano gestiti gli appalti della fondazione. E nemmeno il sindaco Tommasi sembra in grado di cambiare gestione (né cambiare sovrintendente), essendo finito in minoranza nella gestione dell’indirizzo, rimandando ai controlli del ministero e della corte dei conti.

Il servizio di Report racconta delle campagne pagate coi soldi del sistema Chiavegato, per politici poi eletti nel comune di Verona e poi in regione.
Domenico Mercurio parla dell’avvocato Stefano Casali, di un ex democristiano ancora potente a Verona (e vicino a FDI), Elio Nicito, l’ex sindaco Tosi e di altri candidati di Fratelli d’Italia.

Il sistema Verona di cui parla Mercurio è alimentato dalla ndrangheta: le sue dichiarazioni sono state ritenute credibili nei processi, si parla di appalti spartiti con aziende amiche della politica, con fatture gonfiate che vanno in una direzione e fondi neri che poi tornano indietro usati nelle campagne elettorale di Flavio Tosi (questo è quanto racconta Chiavegato).
Report ha cercato di sentire l’ex sindaco oggi deputato: Mercurio sarebbe inattendibile, mai avuto rapporti con Mercurio e nemmeno con Chiavegato.

Siete dei diffamatori” è la risposta finale del deputato.

FUORI PISTA di Claudia Di Pasquale

Il giorno dopo l’inaugurazione degli uffici della Fondazione Milano Cortina, la Guardia di Finanza ha perquisito i loro uffici, nell’ambito di una inchiesta su una presunta corruzione per la gestione degli appalti, quei lavori di cui si era occupata Report nel passato servizio, lavori scorrelati dalle olimpiadi, coi costi saliti alle stelle.
La procura di Milano ha aperto un fascicolo per abuso d’ufficio sulle assunzioni in Fondazione: tra le persone contrattualizzate
la nipote di Mario Draghi, il figlio di Ignazio La Russa e l’ex segretaria, Domenico De Maio legato all’ex ministro grillino Spadafora, Ursula Bassi, candidata nel 2019 col centro sinistra, Marco Francia, candidato fino al 2018 col centro destra a Torino. Poi Giorgio Pescante, nipote del più famoso Mario, ex numero uno del Coni, membro onorario del Cio ed ex deputato di Forza Italia. Poi Antonio Marano, eletto deputato nel 1994 con la Lega, ex direttore di rai 2 e presidente di rai pubblicità dal 2016 al 2021.
Marano ha le competenze per lavorare in quel ruolo, lo difende Malagò: ma se dovesse essere nominato (in quota Lega) nel cda Rai rimarrà nella fondazione dove dovrebbe occuparsi di acquisto di spazi pubblicitari per le olimpiadi? “Non lo so, penso che ci sia un problema, un problema di carattere giuridico, formale, magari qualcuno può scrivere due righe e dire che non c’è nulla di male, c’è un carattere estetico che sicuramente può rappresentare un problema.”
Ma come mai ogni volta questi enti devono diventare dei carrozzoni dove finiscono parenti, persone legate alla politica o segnalate dalla politica? “Lei fa il suo lavoro, però mi creda, non è assolutamente così correlato, scontato come sembra.. non è scontato che se una persona ha fatto politica abbia avuto dei privilegi..”
Ma sembra tutta una sceneggiatura già scritta, ha ribattuto la giornalista di Report Claudia di Pasquale: “noi c’abbiamo un sacco di problemi, come ce li ha il paese, altri soggetti che cercano di organizzare qualche cosa, non penso che questo sia il problema.”

Potrebbe però essere un problema per la magistratura, come anche i contratti con Deloitte: la società americana fornirà servizi alla fondazione per 176 ml di euro, sono servizi di sicurezza e in information thechnology.
Deloitte è partner del CIO – spiega Malagò – è una società di alto livello.
Ma
poi qualcuno dovrà pagare i debiti accumulati dalla fondazione: dall’ultimo bilancio emergono 107 ml di deficit patrimoniale e a contribuire a questo debito da una parte c’è il contratto con Deloitte e dall’altra le assunzioni. Nei documenti sta scritto bello in chiaro, la copertura del deficit è a carico degli enti territoriali, paga pantalone “è che, l’ha scoperto adesso che i soci sono enti locali..”

La Fondazione si comporta come un ente privato quando deve fare assunzioni e firmare contratti, ma quando emergono debiti paga il pubblico: troppo comodo, no?
Tanto è vero che il governo ha infiltato un articolo ad hoc in un DL sulle calamità, dove c’è scritto che la fondazione Milano Cortina è un ente di diritto privato. Un articolo fatto apposta per sottrarre la fondazione dai controlli della procura.

Ma quanto sono sostenibili queste olimpiadi? Il documento di valutazione ambientale era il cardine della candidatura di Milano, ma nel vas che viene presentato nei paesi dove sono aperti i cantieri si parla di altro, non delle opere realizzate e che rimarranno sul territorio.
Nel Vas presentato a Cortina dalla fondazione non si parla della pista da bob né del taglio degli alberi, delle variante in galleria fatta in una zona franosa, della nuova cabinovia.
La Vas della fondazione si occupa solo delle strutture provvisorie montate nei giorni delle gare, della gestione dei rifiuti, qualche raccomandazione (mangiare meno carne): e le opere che rimarranno sul territorio, come mai non ci sono accenni? Gli alberi tagliati, i 500 larici, erano alberi secolari, che nel progetto iniziale dovevano essere conservati.
Alla fine le gare di bob potrebbero essere poi spostate a Innsbruck, se la pista non dovesse essere pronta: in Austria i lavori di ristrutturazione dovrebbero terminare per agosto 2025.
Tenere in piedi una pista da bob ha un costo, si fa in perdita senza contributi pubblici: conviene tenere in piedi a Cortina una pista che si sa già sarà in perdita?
La regione Veneto ha fatto un accordo in cui si accolla il costo della pista al “fondo per i comuni confinanti” (sarebbero fondi per investimenti, non per spese comune), né la provincia di Belluno, né la regione vogliono metterci i soldi per la manutenzione della pista
(quasi 1,4 ml di euro l’anno), par di capire seguendo il servizio.
Zaia, di fronte a Report, spiega che ci metterà dei soldi, faranno la loro parte, ma non si impegna per una cifra stabilita.

PATTO DI SANGUE di Antonella Cignarale

Grazie all’accordo con le farmacie, per il progetto Farmacia dei servizi, si possono fare esami anche col SSN passando per le farmacie: tutto per aiutare la “signora Maria”, come spiega il sottosegretario alla Salute Gemmato, che per un esame non deve aver bisogno di un passaggio per andare in ospedale.
Ma ogni regione ha i suoi accordi per questi esami: alcune regioni richiedono la ricetta, in Piemonte alcuni esami si possono ripetere solo 3 volte. Ma perché tre volte? Non è un numero scientifico.

Nel corso degli anni i provvedimenti che estendono i servizi alle farmacie hanno creato malumori nelle associazioni di categoria: di mezzo c’è il Titolo V che concede autonomia alle regioni, i farmacisti non hanno responsabilità sugli esami svolti coi dispositivi, non ci sono obblighi comuni per eseguire gli esami. I farmacisti, al termine dell’esame non possono dare prescrizioni, il paziente deve andare dal medico di famiglia, ma c’è il rischio che il paziente sia influenzato dai cartelli coi nomi delle medicine.
Gli esami del sangue possono essere fatti in farmacia col prelievo capillare: il dispositivo rilascia uno scontrino senza firma del responsabile, anche il protocollo del prelievo non sempre viene rispettato.

Le procedure vanno standardizzate, ammette il sottosegretario Gemmato, ex farmacista: ma nelle leggi valide ad oggi non ci sono obblighi, come ha ripetuto il servizio, cosa che ha suscitato malumori sull’associazione dei poliambulatori.

Anche sulla qualità del prelievo in farmacia ci sono dubbi – continua il servizio: nei laboratori i risultati dei prelievi sono validati da un medico, i dispositivi sono monitorati a distanza periodicamente. Cosa diversa in farmacia: lo scontrino fatto in farmacia non ha firma e non ha valore legale, e nemmeno lo vogliono avere, spiega il presidente di Assofarma.

Questo punto, l’assenza di una firma, non è un fatto conosciuto dal ministro Schillaci che però, di fronte alle domande di Report, risponde che adesso verificherà.
L’ordine dei medici e dei biologi e dall’altra parte l’associazione dei farmacisti troverà probabilmente un accordo: si potrebbe arrivare ad un accreditamento tra le farmacie e i laboratori, le prime diventerebbero dei punti
di accesso (i campioni raccolti verrebbero poi analizzati nei laboratori), ma aspettano il via della politica.
Alla fine, spiega il conduttore Ranucci, sembra che ognuno voglia tirare acqua al suo mulino, farmacisti contro medici e contro i laboratori.


Anteprima inchieste di Report - il senatore assenteista, Verona e la ndrangheta, l’inchiesta sulla Fondazione Milano Cortina, le analisi del sangue in farmacia

Quanto è dura la vita del parlamentare Angelucci, il più ricco d’Italia. Poi un servizio sull’infiltrazione (ma forse si dovrebbe iniziare ad usare una diversa definizione) della ndrangheta dentro i lavori per l’Arena di Verona.

Il senatore editore-imprenditore Angelucci

Antonio Angelucci è il senatore più ricco del Parlamento con 6,3 ml di euro di patrimonio dichiarato nel 2023, battendo di poco Matteo Renzi. Una parte di questo patrimonio deriva dal vitalizio che gli riconoscere il gruppo da lui fondato, nel settore della sanità. Queste società – spiega il consulente finanziario di Report Bellavia – fanno tutte capo ad una finanziaria, la Tosinvest, controllata da una società lussemburghese, la quale è a sua volta controllata da un’altra lussemburghese, ancora controllata da una nuova società in Lussemburgo. I tre livelli di controllo lussemburghese sono riconducibili a.. non lo possiamo sapere, ma quella in cima a tutto si chiamava Angelucci, poi ne hanno cambiato il nome, dunque probabilmente è di proprietà del senatore. Perché la scelta di società controllanti in Lussemburgo? Per motivi fiscali, continua Bellavia: i soldi pubblici degli ospedali degli Angelucci che lavorano in convenzione finiscono in Lussemburgo: “concettualmente si, poi bisogna vedere come si muovono, come vengono distribuiti i dividendi, ma alla fine sono dividendi lussemburghesi dunque non tassati e stanno all’estero.”
A quasi 80 anni il senatore Angelucci non rinuncia a guidare la sua auto, potente, seguito dalla scorta – racconta l’anteprima del servizio di Bertazzoni: abruzzese di nascita ma romano di adozione, Angelucci ha sempre avuto una passione per la politica, è in parlamento da 16 anni, da 4 legislature dove si è distinto per essere uno dei parlamentari più assenti (col 99% di assenza). Passione sì, ma senza esagerare: i suoi giornali si erano scatenati nella guerra ai fannulloni del reddito di cittadinanza, gente che campa coi soldi degli italiani. Mica tutti sono senatori della repubblica.
Grazie ai guadagni dal campo sanitario Angelucci oggi può investire in una sua seconda passione, l’editoria: già proprietario di Libero, Il Tempo e il Giornale, il gruppo Angelucci ha messo gli occhi sulla seconda agenzia di stampa del Paese, l’Agi, di proprietà dell’Eni, controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Suscitando le proteste dei giornalisti dell’agenzia Agi, scesi in piazza per dire no alla vendita di Eni della testata al parlamentare leghista: sui cartelloni era scritto “l’Agi non si svende” a difesa anche del pluralismo e della libertà dell’informazione, un valore nelle democrazie anche per noi cittadini. Libertà di informazione che sarebbe messa a rischio dalla vendita ad un editore-politico.
Lo spiega bene a Report Serenella Ronda, giornalista dell’Agi: “le agenzie di stampa sono una fonte primaria di informazione e per questo devono essere autonome e indipendenti”.
In piazza, il 3 aprile scorso, assieme ai giornalisti, erano presenti anche esponenti dell’opposizione, come l’ex giornalista Ruotolo e il deputato Fratoianni: l’ex segretario PD Bersani parla di un “segnale all’ungherese, qui si vuole prendere una agenzia e buttarla a fare un service di un gruppo di testate di destra in spregio ad ogni logica di conflitto di interesse ma anche, io credo, al comune senso del pudore.”
“In democrazia non dovrebbero succedere cose di questo genere” racconta ai giornalisti in piazza il segretario del M5S Conte “che una partecipata dallo Stato, controllata dallo Stato, offre a trattativa privata ad un parlamentare di maggioranza la seconda agenzia di stampa del paese.”

Vincenzo Vita è stato sottosegretario alle telecomunicazioni fino al 2001: “se una cosa esce in agenzia, c’è come un timbro, vuol dire che è una cosa seria, non è una fake e questo può dar luogo a chi fa il telegiornale di fare la sua scaletta.. la cosa che dice l’Agi merita di essere in testa”.
Se Angelucci dovesse prendersi l’Agi cosa potrebbe succedere?
“Angelucci avendo interessi in settori piuttosto delicati, le cliniche private, sarebbe una forma di pressione, un modo per fare intendere ai vari pezzi del potere che c’è eccome una presenza che vuole contare..”

Ma torniamo alle cliniche private accreditate di Angelucci: Bertazzoni racconterà la storia di una signora vittima del covid, morta nella struttura di Rocca di Papa. Era stata dichiarata covid free, dunque la figlia Giovanna Boccardi aveva lasciato lì la madre, “ma ogni volta che arrivavo lì trovavo tre, quattro carri funebri e ho capito che c’era qualcosa che non andava..”.
Altra testimonianza è quella del signor Giacomozzi, figlio di un paziente di Rocca di Papa morto per covid: “io ho saputo del decesso dalle pompe funebri perché dal San Raffaele non mi hanno detto niente”.
Si parla di più di 170 contagi di cui la struttura aveva timore a raccontare, dal racconto della signora Boccardi “parliamo di qualcosa che non è stata gestita bene dall’inizio alla fine, io vedevo il personale entrare senza mascherine, senza guanti, ho chiesto se ci fosse un protocollo per evitare dei contagi e mi è stato risposto che non erano attrezzati per l’isolamento per cui i pazienti covid o no covid, con febbre senza febbre erano tutti quanti insieme.”
Stefano Giacomozzi ha presentato denuncia per capire cosa fosse successo alla madre, dall’ospedale abbiamo ricevuto due telefonate e basta e il certificato di morte.

Quando i contagi per covid nella struttura di Rocca di Papa iniziano a crescere senza controllo, nell’aprile 2020 la regione Lazio e l’unità di crisi decidono di istituire una zona rossa attorno alla struttura: l’ex assessore D’Amato racconta a Report che quello è stato uno dei cluster più rilevanti in una struttura sanitaria “constatammo che non erano rispettati le condizioni di sicurezza in relazione alla suddivisione dei percorsi, dei dispositivi di prevenzione, a tutto ciò che andava messo in atto per limitare la diffusione del contagio.”
Si arrivò così alla revoca dell’accreditamento al San Raffaele di Rocca di Papa: accreditamento poi ristabilito dalla nuova amministrazione di destra di Rocca.

Sul Fatto Quotidiano potete leggere una anticipazione del servizio:

Parla Angelucci: “I giornali? Se mi stufo li vendiamo. In Fi per scelta”

Nonostante sia il parlamentare più assenteista di tutti i tempi, i partiti di centrodestra se lo litigano. Del resto il re Mida della sanità privata Antonio Angelucci grazie ai guadagni delle 15 cliniche in convenzione può investire su un’altra grande passione: l’editoria. Dopo Libero, Il Tempo e il Giornale, ha ora messo gli occhi sull’agenzia di stampa Agi, di proprietà dell’Eni, controllata dal ministero dell’Economia. “Se fosse ci divertiamo” dice ai microfoni di Report (nella puntata in onda stasera su Rai Tre) Angelucci che conferma di aver messo nel mirino anche La Verità di Maurizio Belpietro che nel 2015, da direttore di Libero, venne licenziato dagli Angelucci interessati a non pestare i piedi all’allora premier Matteo Renzi. Ma a sentire Angelucci l’editoria è solo un passatempo, mica c’entrano gli affari. La collezione di giornali? “Così… è una passione, poi vediamo: può darsi che ci stufiamo, li mettiamo insieme e li vendiamo”, dice l’onorevole che dà la sua versione anche su un’altra vicenda su cui spera nel lieto fine ossia l’archiviazione: la presunta tentata corruzione di Alessio D’Amato (all’epoca responsabile del piano di rientro della sanità di regione Lazio) a cui avrebbe offerto 250 mila euro per ottenere una serie di benefici a partire dalla riapertura del San Raffaele di Velletri. 

La scheda del servizio: IL PORTANTINO EDITORE

Di Luca Bertazzoni

Collaborazione Marzia Amico

Antonio Angelucci è il parlamentare più ricco e assenteista di Montecitorio, ma anche il ras della sanità privata del Lazio convenzionata con il Servizio sanitario nazionale. Editore dei quotidiani Il Tempo, Libero e Il Giornale, Angelucci ha manifestato interesse per l’acquisizione dell’agenzia di stampa Agi. Report analizza i conti del gruppo Angelucci nelle attività sanitarie e editoriali, dimostrando che i guadagni derivano dalla sanità, mentre i giornali sono in perdita. L’inchiesta racconta anche la storia del San Raffaele di Rocca di Papa, struttura a cui nel 2020 è stato tolto l’accreditamento regionale a seguito dello sviluppo di un importante focolaio Covid all’interno della clinica. Il nuovo presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, ex presidente del Cda della Fondazione San Raffaele, ha ridato l’accreditamento alla struttura e in un anno di governo ha stanziato per le cliniche di Angelucci 19 milioni e mezzo di euro in più rispetto al budget ordinario.

La ndrangheta a Verona

Nessun dorma – canta il tenore nell’opera Turandot: eppure quando si parla di infiltrazione di mafia, specie al nord, pare che siano in tanti a dormire.
Le radici della ndrangheta hanno infestato anche i marmi dell’Arena di Verona, lo splendido anfiteatro romano conosciuto per il festival lirico che attrae cultori dell’opera e turisti da tutto il mondo. A montare e smontare palchi e scenografie è stata per anni una rete di imprese che, secondo la procura antimafia di Venezia, con un giro di fatture gonfiate, arricchiva le cosche Grande Aracri di Cutro e Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, tra le più potenti ndrine calabresi.
“Quando è successo io sono caduto dal pero” racconta a Report un responsabile delle
strutture usate nel teatro: nei magazzini della Eurocompany, nella zona industriale della città venivano conservate le scenografie della stagione lirica veronese. Sono 10mila metri quadrati che la fondazione Arena di Verona prendeva in affitto a carissimo prezzo dalla Eurocompany di Giorgio Chiavegato, una rete di cooperative di facchinaggio da 26,7 ml di euro di fatturato.
Chiavegato aveva iniziato a lavorare con la fondazione nel 2012: agli appalti partecipava solo la sua azienda, “perché era talmente complessa l’attività di smontaggio e montaggio, non era come montare un’impalcatura..” Di fatto oggi quel lavoro è fatto da altre imprese.
Oggi Chiavegato è in attesa di un processo dopo un anno ai domiciliari. È accusato di false fatturazioni e altri reati fiscali con l’aggravante di aver agevolato la ndrangheta.
Il sindaco Tommasi è stato messo in minoranza dentro la fondazione, la cui direzione è finita nelle mani del partito di Fratelli d’Italia. La soprano Cecilia Gasdia è stata nominata sovrintendente dell’Arena dal ministro Franceschini nel 2018 su proposta dell’allora sindaco Sboarina.
Report ha cercato di chiedere conto alla sovrintendente dell’inchiesta e su questa società, Eurocompany: il giornalista è stato malamente strattonato da un collaboratore della sovrintendente, evidentemente infastidita dalle domande ricevute.
Come mai Eurocompany vinceva tutti gli affidamenti?
Secondo la Guardia di Finanza prendeva tutti gli appalti anche grazie all’aiuto di Domenico Mercurio, imprenditore collegato alla ndrangheta che avrebbe emesso fatture inesistenti per l’importo complessivo di 24ml di euro.
Chiavegato parla anche del rapporto con la politica: aveva fatto campagna elettorale e distribuito volantini per Tosi e per la Lega, “la mia sensazione è che Tosi centri dappertutto”.


L’ex sindaco è oggi deputato e coordinatore veneto di Forza Italia: secondo Chiavegato sarebbe stato lui il vertice politico di questo sistema.
Tutte calunnie inventate – la risposta di Flavio Tosi su queste accuse: tutto quello che diffondete è falso e fazioso, è il punto di vista (al limite della diffamazione?) dell’ex sindaco, “vi conosco molto bene” [Tosi è stato condannato in primo grado per aver diffamato il conduttore Ranucci].
Le dichiarazioni di Mercurio? È un imprenditore bugiardo e inaffidabile secondo la magistratura – sostiene il deputato Tosi. Ma Mercurio è un collaboratore di giustizia considerato attendibile dai magistrati che l’hanno sentito nei processi.

La scheda del servizio: NESSUN DORMA

Di Walter Molino e Andrea Tornago

Le radici della ‘ndrangheta hanno infestato anche i marmi dell’Arena di Verona. A montare e smontare palchi e scenografie è stata per anni una rete di imprese che, secondo la Procura antimafia di Venezia, con un giro di fatture gonfiate arricchiva le cosche Grande Aracri di Cutro e Arena-Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, tra le più potenti ‘ndrine calabresi. Chi si è arricchito, e chi doveva controllare? C’è un livello politico interessato a questo sistema? Il racconto con documenti e interviste esclusive.

L’inchiesta sulle olimpiadi invernali

Report torna ad occuparsi delle olimpiadi di Milano-Cortina del 2026 con un aggiornamento legato alle ultime indagini della procura di Milano sulle nomine all’interno della fondazione: al momento il fascicolo è aperto senza indagati per il reato di abuso d’ufficio (il reato che poco piace a questa maggioranza e anche a pezzi dell’opposizione). Tra le persone contrattualizzate ci sono figli di e parenti di: la nipote di Mario Draghi, il figlio di Ignazio La Russa e l’ex segretaria, Domenico De Maio legato all’ex ministro grillino Spadafora, Ursula Bassi, candidata nel 2019 col centro sinistra, Marco Francia, candidato fino al 2018 col centro destra a Torino. Poi Giorgio Pescante, nipote del più famoso Mario, ex numero uno del Coni, membro onorario del Cio ed ex deputato di Forza Italia. Poi Antonio Marano, eletto deputato nel 1994 con la Lega, ex direttore di rai 2 e presidente di rai pubblicità dal 2016 al 2021.
“[Antonio Marano] si occupa di commerciale” spiega alla giornalista di Report Giovanni Malagò presidente del Coni “di attività di marketing”, e sulla sua scelta di ricandidarsi al CDA della Rai aggiunge “è una sua scelta..”
Ma se dovesse essere nominato (in quota Lega) nel cda Rai rimarrà nella fondazione dove dovrebbe occuparsi di acquisto di spazi pubblicitari per le olimpiadi? “Non lo so, penso che ci sia un problema, un problema di carattere giuridico, formale, magari qualcuno può scrivere due righe e dire che non c’è nulla di male, c’è un carattere estetico che sicuramente può rappresentare un problema.”
La questione di opportunità e di conflitto di interesse diventa, par di capire, una questione estetica che però si può risolvere con due righe.
Ma come mai ogni volta questi enti devono diventare dei carrozzoni dove finiscono parenti, persone legate alla politica o segnalate dalla politica? “Lei fa il suo lavoro, però mi creda, non è assolutamente così correlato, scontato come sembra.. non è scontato che se una persona ha fatto politica abbia avuto dei privilegi..”
Ma sembra tutta una sceneggiatura già scritta, ha ribattuto la giornalista di Report Claudia di Pasquale: “noi c’abbiamo un sacco di problemi, come ce li ha il paese, altri soggetti che cercano di organizzare qualche cosa, non penso che questo sia il problema.”
Dunque, ancora una volta cercando di interpretare il messaggio di Malagò, è un male necessario di certe organizzazioni, enti, legati a fondi pubblici.
Perché poi qualcuno dovrà pagare i debiti accumulati dalla fondazione: dall’ultimo bilancio emergono 107 ml di deficit patrimoniale e a contribuire a questo debito da una parte c’è il contratto con Deloitte e dall’altra le assunzioni. Nei documenti sta scritto bello in chiaro, la copertura del deficit è a carico degli enti territoriali, paga pantalone “è che, l’ha scoperto adesso che i soci sono enti locali..”
Per cui, pagheremo noi per i contratti di una fondazione che ora, per scappare dalle inchieste, il governo Meloni ha emanato un decreto in cui la si indica come fondazione privata.

Sul contratto con Deloitte, ne parla Lorenzo Vendemiale sul Fatto Quotidiano:

Cortina&Giubileo, la mano di Deloitte sui grandi eventi

PARTITA DOPPIA - Già monopolista dello sport, il colosso ha tra i suoi il potente Luigi Onorato, l’uomo che gestisce i rapporti con le società

C’è una società che ormai è un’istituzione. Un manager che siede al tavolo con ministri e dirigenti quando si parla di grandi eventi. Le Olimpiadi di Milano-Cortina, il calcio, l’atletica, il Coni: spunta fuori sempre Deloitte, la più grande fra le cosiddette “big four”, i quattro colossi mondiali delle revisione di bilancio innanzitutto, spesso e volentieri anche di consulenza.

Di questa presenza si è accorta la Procura di Milano, nell’inchiesta sulle Olimpiadi: Deloitte non è indagata, il faro è sui suoi contratti col Comitato organizzatore. Uno in particolare, il “progetto Pisa”, piattaforma digitale e di cybersicurezza che Deloitte Global ha in virtù della sponsorizzazione col Comitato olimpico internazionale (Cio): costo 176 milioni. Il dubbio è se questo accordo “imposto” dall’alto non abbia zavorrato i conti della Fondazione. Perciò il fascicolo rischia di imbarazzare addirittura il Comitato olimpico internazionale.

La scheda del servizio: FUORI PISTA

di Claudia Di Pasquale

Collaborazione Giulia Sabella, Norma Ferrara

Lo scorso 21 maggio la Guardia di Finanza ha perquisito la sede della Fondazione Milano Cortina 2026 che si occupa dell'organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2026. Il focus delle indagini è la gestione opaca dell'ente, a partire dall'affidamento dei servizi digitali fino alle assunzioni. Ma qual è la vera natura giuridica della fondazione? E’ un ente di diritto privato come loro rivendicano di essere o è un organismo di diritto pubblico? Su questo assunto si gioca il futuro dell'organizzazione delle Olimpiadi. L'Italia se l'è aggiudicate con la promessa di organizzare dei Giochi sostenibili dal punto di vista economico e ambientale. La promessa era quella di fare una Valutazione strategica nazionale di tutte le opere, non è stata fatta neanche quella. Mentre l'impianto più discusso, la nuova pista da bob di Cortina, ad oggi non ha ancora trovato chi è disposto a pagare le spese di gestione e manutenzione, che potrebbero arrivare a un milione e 400 mila euro l'anno. Insomma, a meno di due anni dalle Olimpiadi i punti interrogativi sono ancora tanti.

Analisi in farmacia

Le analisi del sangue in farmacia si possono fare solo sul sangue capillare, senza siringhe, il campione viene analizzato da un dispositivo che man mano da anche le informazioni su come procedere al farmacista e poi da un esito con uno in scontrino dove sono riportati i valori. Né sul foglio né sullo scontrino c’è la firma di un responsabile.
“Ma la firma non ci deve essere” risponde il presidente di Assofarma “il valore legale di quello fatto in farmacia non c’è, è pacifico e nemmeno lo vogliamo avere..”
Ma per la federazione dell’ordine dei medici la firma sotto il valore delle analisi fa la differenza: il presidente Filippo Anelli ha chiesto che si apra un tavolo di confronto anche con loro per stabilire regole valide con tutti, anche a garanzia del paziente.
Quella firma è una garanzia – spiega di fronte alle telecamere di Report, manca lo stesso peso di garanzia tra l’analisi fatta in farmacia e quella fatta nelle strutture accreditate o pubbliche.
Report ha interpellato il ministro Schillaci che, però, sembra non essere al corrente del fatto che le analisi fatte in farmacia non sono accompagnati da una firma.
Del fatto che quella mancanza di una firma rappresenti una mancanza di garanzia: “nessuna analisi è fatta senza una firma, abbia pazienza, se si fa un prelievo ci deve essere la firma di qualcuno che testimonia che il prelievo è fatto bene..”
Siamo in Italia, inutile meravigliarci: il ministro, però, vuole rassicurare, “adesso vediamo, adesso ne parleremo con l’associazione dei medici, non abbiamo interesse a far fare ai cittadini analisi di non qualità.”
Adesso verificheranno dal ministero, dopo che glielo ha spiegato Report come stanno le cose.

La scheda del servizio: PATTO DI SANGUE

di Antonella Cignarale

Collaborazione Paola Gottardi, Raffaella Notariale

Con il progetto della Farmacia dei servizi sono state ampliate le prestazioni effettuabili in farmacia, sia in regime privato sia in convenzione con il Servizio sanitario nazionale. Le fasi di sperimentazione realizzate dal 2018 a oggi sono state messe in piedi con un finanziamento pubblico di 111,9 milioni. Per il sottosegretario alla Salute Gemmato la farmacia potrebbe diventare un centro diagnostico per patologie semplici, per il ministro Schillaci potrebbe garantire una maggiore sanità di prossimità ai cittadini, assicurando qualità e garanzia. Gli interessi in gioco sono tanti, così come le opposizioni tra i professionisti del settore; ma intanto oggi un’analisi in farmacia che valore ha?

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

20 giugno 2024

La ragazza di Gladio di Paolo Biondani

 


Prefazione di Benedetta Tobagi

«Follow the money», segui il denaro, era la raccomandazione del giudice Falcone per condurre le indagini su Cosa nostra nel modo più efficace come bussola per addentrarsi nel labirinto dello stragismo, Paolo Biondani ha la felice intuizione di mettersi sulle tracce di qualcosa di altrettanto concreto: i depositi di armi e di esplosivi.

Dalle soffitte di Castelfranco Veneto [il deposito delle armi di Ventura, esponente di Ordine Nuovo, tra i responsabili della strage di Milano, assolto nei processi] a quelle in Toscana [come il deposito nell’appartamento del capocentro del Sid Mannucci Benincasa], ai loculi interrati – e violati – dei cosidetti «Nasco»di Gladio in Friuli, ricostruisce la trama fitta e talvolta sorprendente che segue in filigrana quella dei cosiddetti «misteri d’Italia», che poi misteri non sono affatto.

Un libro prezioso, questo La ragazza di Gladio del giornalista Paolo Biondani, per comprendere quella parte della nostra storia che viene generalmente racchiusa nella definizione “anni di piombo”, il periodo che va dalla strage di Milano del 12 dicembre 1969 e che arriva fino al dicembre del 1984 con la bomba fatta esplodere sul rapido 904, la “strage di Natale”. Gli anni delle delle bombe fatte esplodere nelle piazze, come a Brescia il 28 maggio 1974, nelle stazioni, come a Bologna il 2 agosto 1980, sui treni come a Gioia Tauro, sul treno Italicus. Attentati caratterizzati da fattori comuni: prima di tutto i depistaggi organizzati da uomini dello stato (dai servizi militari, dagli stessi investigatori) che hanno reso difficile l’individuazione dei responsabili e arrivare a sentenze di condanna. Poi quella che viene considerata la matrice: sono tutti attentati realizzati da estremisti di destra, di quell’arcipelago nero a destra (e contigui) al Movimento Sociale, con l’obiettivo di creare terrore, alzare il livello di tensione in un paese che, a fine anni sessanta, voleva togliersi di dosso finalmente tutto il vecchiume che arrivava dal regime fascista. Sono gli anni in cui si saldano le proteste degli operai per l’autunno caldo con quelle degli studenti. Sono gli anni in cui si teorizza l’uso delle operazioni coperte, operazioni sporche, per ostacolare l’avanzata delle sinistre, per bloccare il baricentro politico di questo paese attorno al polo di centro destra, col partito della Democrazia Cristiana bloccato al governo. Tutto questo è stato tradotto, prendendo a prestito una formula usata da un quotidiano inglese nei giorni successivi la strage di Milano come “strategia della tensione”: infiltrarsi nei gruppo di protesta della sinistra, alzare il livello dello scontro, organizzare attentati da far addossare alle sinistre, agli anarchici.

Paolo Biondani ha avuto il pregio, in questo romanzo, di raccontare tutto questo usando un linguaggio comprensibile e chiaro, non sono presenti citazioni da atti della magistratura, se non indispensabili al racconto ma, come spiega l’autore nel primo capitolo, qui dentro troverete atti e ricostruzioni che sono state ritenute vere dai giudici

Premessa Questo non è un romanzo. È un libro che racconta solo fatti certi, documentati e comprovati da sentenze inoppugnabili.
E le sentenze, a saperle leggere, mettendole assieme cercando di legarle assieme seguendo un unico filo, parlano: “non è vero che le stragi sono un mistero. C’è un minimo di verità giudiziaria che i cittadini hanno diritto di conoscere”.
Vi assicuro che è assolutamente così: smettiamo di parlare di misteri d’Italia, è vero che non sappiamo ancora tutto sui responsabili delle stragi (a livello politico, intendo, ma poi ci arriveremo), ma sappiamo già molto e tutto questo ci è di aiuto per comprendere la nostra storia di ieri.
E, come spiegherà l’autore negli ultimi due capitoli, anche la storia di oggi, dove troviamo al governo gli eredi di quel partito fondato nel 1946 da ex repubblichini di Salò.
Biondani ha la felice intuizione di raccontare tutto
questo seguendo due tracce abbastanza inedite: la prima è la testimonianza importante di una ragazza che è stata testimone dei preparativi della strage di Brescia del 1974. La seconda è la storia dei depositi delle armi, i Nasco, ad uso della rete di Gladio, la struttura italiana della rete Stay Behind, concepita in ambito Nato a fine anni 50, che doveva attivarsi in caso di invasione dell’esercito del patto di Varsavia.

La ragazza di Gladio

«la ragazza di Gladio» del titolo è una testimone chiave di un nuovo processo sulla strage di Brescia che si è aperto nel 2024.

Stiamo parlando della fidanzata di Silvio Ferrari, il ragazzo morto mentre preparava un attentato, forse addirittura ucciso dai suoi camerati, era un esponente di Ordine Nuovo (la formazione politica nata da una scissione del Movimento Sociale), che non si fidavano più di lui.
Ai magistrati di Brescia, che oggi stanno celebrando il processo su altri responsabili della strage di Piazza della Loggia e sui livelli superiori ha raccontato una verità incredibile: gli incontri tra questi neofascisti e uomini dello stato in una caserma dei carabinieri a Verona. Incontri in cui esponenti di ordine nuovo e carabinieri, tra cui il capo centro del sid di Verona e il capitano Delfino, parlavano di bombe, di attentati, di violenza.
Tutto il racconto fatto dalla ragazza è stato riscontrato dai magistrati, compresi gli incontri fatti da questi ragazzi appena maggiorenni nella base Nato di Verona dove venivano accolti, oltre che dal capitano Delfino, da un ufficiale americano. Le parole della ragazza di Gladio cambiano completamente il racconto fatto fino ad oggi delle stragi: i fascisti vengono relegati a mera manovalanza, forse qualcuno di loro veramente pensava che si sarebbe arrivato ad una dittatura in Italia, come in Grecia. Ma erano solo pedine nelle mani di pupari ben più abili: alzando lo sguardo verso i livelli più alti, possiamo includere tra i manovratori di questa strategia terroristica ed eversiva pezzi dei servizi, ufficiali Nato e ufficiali dello Stato Maggiore fino ad arrivare ai referenti politici e a quegli imprenditori che li finanziavano.
Tutti questi avrebbero dovuti essere portati a processo per le loro colpe, a partire dagli ufficiali del Sid e poi del Sismi che erano venuti a conoscenza delle stragi, per esempio grazie a quanto raccontava loro Maurizio Tramonte, la fonte Tritone, ma vale lo stesso per Bologna, per Peteano, per i presunti assassini “spontaneisti” dei Nar (l’intelligence dell’esercito sapeva del furto di bombe a mano di Fioravanti, armi usate in successivi attentati). Informazioni mai condivise con l’autorità giudiziaria.

Ma sarebbe alquanto difficile: non siamo riusciti a condannare tutti i fascisti responsabili di quelle bombe allora, figuriamoci cosa potremmo fare oggi dove molti dei protagonisti di queste vicende o sono molto anziani o sono morti.

Nemmeno il colonnello Amos Spiazzi, reo confesso dell’essere appartenuto ad una struttura segreta che organizzava attività illegali anticomuniste: su di lui scrive Biondani “ci vogliono giudici veramente eccezionali per assolvere uno che ha confessato”.

Dovremmo allora avere il coraggio di riscrivere la nostra storia recente, ma non nel senso innocentista come vorrebbe l’attuale maggioranza di destra, ma iniziare veramente a raccontare al paese, non solo alle vittime delle stragi, del doppio stato, della doppia fedeltà di molti uomini delle istituzioni, dei tanti compromessi che abbiamo accettati in nome di Yalta, del mondo diviso in blocchi, della ragione di stato.

I Nasco – violati – di Gladio

I Nasco dovevano essere strutture nascoste dove nascondere armi ed esplosivi, tenuti in involucri sigillati, da usare in caso di invasione dall’altro fronte del blocco.
Chi avrebbe dovuto usare queste armi erano militari e civili dentro Gladio, la struttura italiana della rete Stay Behind, una struttura così nascosta da non essere rivelata nemmeno a tutti i presidenti del Consiglio.
Gli italiani ne sono venuti a conoscenza dopo che il presidente Andreotti ne diede notizia , in due comunicazioni alla commissione stragi e alle camere, nel 1990
(dopo il crollo del muro): ma a costringere l’allora presidente a parlare di Gladio furono le inchieste di Venezia che finalmente avevano portato a galla una verità diversa. Gladio era una struttura a due volti: c’era un volto ufficiale, sebbene tenuto nascosto, ma c’era anche un volto segreto e molto più pericoloso.
I gladiatori e, soprattutto, i depositi di armi, furono usati nelle operazioni sporche durante la “strategia della tensione”: come racconta Biondani, molti Nasco furono violati da mani ignote che prelevarono parti di micce ed esplosivi poi usati in attentati.
Dopo che, casualmente, uno di questi arsenali venne scoperto, ad Aurisina, i servizi iniziarono a trasferire le armi nei depositi delle caserme dei carabinieri o in case di civili: sono quei famosi depositi di armi militari scoperti a volte casualmente a volte nel corso di indagini, in cui i proprietari si sono difesi sostenendo di essere collezionisti. E arrivando perfino ad essere creduti dalle corti.
La bomba che uccise i tre carabinieri a Peteano, nel 1972, era stata innescata da un accenditore a strappo, proveniente proprio da un Nasco di Gladio, come racconta l’allora giudice Felice Casson: «Per la bomba di Peteano i terroristi di Ordine nuovo hanno usato un innesco uscito illegalmente da un arsenale di Gladio»..
La strage di Peteano ci è utile per chiarire tutto il disegno: carabinieri erano i tre morti, come carabinieri erano gli ufficiali che hanno depistato le indagini

Dal processo emerge che gli ufficiali erano stati manovrati da un generale molto potente e molto reazionario, Giovanni Battista Palumbo [..] una quinta colonna della P2 all’interno dell’Arma.
Ma c’è di peggio: la macchina saltata in aria a Peteano era stata colpita da proiettili sparati da una calibro 22. Quella pistola, hanno ricostruito le indagini, porta direttamente a due ordinovisti: il primo si chiama Vincenzo Vinciguerra, dopo anni da latitante ha deciso di consegnarsi allo stato per raccontare delle trame nere di Ordine Nuovo, orchestrate dalla P2 di Licio Gelli.
L’altro ordinovista
si chiama Carlo Cicuttini ed era segretario del movimento sociale, che lo aiutò ad espatriare e sfuggire dalla giustizia.

Ma ancora meglio, per raccontare in filigrana queste trame, meno oscure di quanto si pensi, è la bomba alla stazione di Bologna: in questa storia troviamo tutti i protagonisti negativi questa storia, dai terroristi neri, i finti spontaneisti neri dei Nar, Mambro e Fioravanti, e la loggia P2 di Gelli, che a fine anni settanta controllava un pezzo dell’editoria, parte della finanza, i vertici dei servizi e delle forze armate. Le ultime indagini, nate in questi anni dalla scoperta del documento Bologna sequestrato a Gelli in Svizzera e rimasto colpevolmente nel cassetto per anni, gettano una nuova luce sugli organizzatori della strage (perché su chi ha messo la bomba dubbi non ce ne sono):

Perché Licio Gelli, che nel 1980 aveva in mano tutti i servizi segreti, si espone personalmente per fermare le indagini sui giovani spontaneisti armati romani? La spiegazione secondo i magistrati della procura generale di Bologna è chiara: perché era stato proprio il capo della P2 pianificare la strage e a pagare quei terroristi.
Gelli ha finanziato i Nar sin dal 1979 per questa strage, per depistare le indagini ha coinvolto direttamente i suoi referenti nel Sismi (e bloccato le indagini del Sisde, il servizio interno appena nato), orchestrando per tramite del giornalista Tedeschi una campagna stampa a sostegno della pista straniera, quella che oggi chiameremo fake news.
Ma di fake news, di despistaggi, è piena la nostra storia: dalla finta pista anarchica costruita dall’ufficio affari riservati per piazza Fontana, alla finta pista che incolpava i fratelli Papa per la bomba di Brescia, per arrivare al finto anarchico Bertoli per la bomba alla questura di Milano. Fino ad arrivare al finto pentito Scarantino, costruito e istruito dalla squadra di La Barbera per spostare le indagini sulla strage di via D’Amelio, dove fu ucciso il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta.

Ma cosa c’entrano le stragi di mafia con le stragi fasciste degli anni di piombo?

La responsabilità politica di quelle stragi - oggi

Se i primi capitoli sono preziosi perché aiutano a comprendere i fatti, le stragi che hanno insanguinato l’Italia tra il 1969 e il 1984, altrettanto importanti sono gli ultimi capitoli, per un duplice motivo: prima di tutto perché raccontano parti della nostra storia sufficientemente recente, che non abbiamo ancora del tutto dimenticato.

Parlo delle stragi di mafia avvenute tra il 1992 e il 1993, la morte dei giudici Falcone e Borsellino, le bombe che colpirono i luoghi d’arte, l’essere arrivati ad un passo da un colpo di stato.
La nascita della seconda repubblica.

Il secondo motivo è perché si parla della responsabilità politica di quanto successo in Italia: oggi in Italia siamo abituati a contestare le sentenze della magistratura (cosa legittima, se si contesta partendo da motivazioni oggettive), figuriamo se a livello politico c’è la volontà di assumersi delle responsabilità politiche, specie su fatti particolarmente infamanti.
Ma ancora una volta sono i fatti a parlare: oggi si parla di stragi fasciste, delegando le colpe ai soli esponenti di ordine nuovo, come se questo fosse un movimento a sé stante.

Scrive Biondani:

..le stesse sentenze definitive fanno notare che ordine nuovo non era un'organizzazione occulta era una corrente del movimento sociale Italiano. Le brigate Rosse, prima linea e le altre bande criminali terroristi di sinistra erano gruppi armati clandestini che agivano segretamente fuori e contro tutti i partiti rappresentanti in Parlamento a cominciare dal PC di Berlinguer, che loro accusavano di aver tradito il comunismo.
Il terrorismo nero invece è nato dentro
il partito ufficiale della destra italiana. I suoi leader migliori [Almirante] se ne sono resi conto purtroppo solo tra il 1973 e il 1974 dopo cinque anni di bombe sui treni e nelle piazze e i loro eredi non ne parlano.
Nel libro vengono citate le storie del senatore Abbatangelo, coinvolto nell’inchiesta sulla strage del rapido 904, di Carlo Cicuttini per Peteano, di Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi, quest’ultimo dirigente del MSI fino al 1973.
Non è un anno casuale, il 1973, è l’anno dove a Milano, in un corteo del movimento sociale viene lanciata una bomba a mano contro un agente di polizia, Antonio Marino, che muore per l’esplosione. I militanti missini avevano pronte delle finte tessere del pci, che sarebbero servite per addossare le colpe alla sinistra.

La verità giudiziaria sulle stragi in Italia ricostruita in tutte le sentenze più importanti è la storia della corrente di un partito. Ordine nuovo nasce nei primi anni cinquanta come ala di estrema destra del movimento sociale Italiano.

Il famoso album di famiglia andrebbe sfogliato anche a destra dunque: finché non lo faremo, continuerà a mancare un pezzo di verità al racconto della nostra storia. Un pezzo di verità che le istituzioni di questo paese, di qualunque colore, devono avere il coraggio di andare a ricercare e raccontare e questo vale per la bomba scoppiata in piazza della Loggia fino alle bombe che sono scoppiate nel nostro paese nel biennio dello stragismo mafioso 1992-93: tante analogie le legano le une alle altre, troppe.

La campagna di attentati sanguinari che ha colpito le nostre città tra la fine del 1992 e l'inizio del 1994, nei mesi che hanno cambiato il sistema di potere in Italia, nascondeva una nuova strategia della tensione.

In questa trama c'è un disegno di stampo terroristico, sicuramente organizzato ed eseguito dai boss di cosa nostra. Ma probabilmente non è solo mafia.

Altri articoli sul libro

- La ragazza di Gladio - come mai le stragi nere in Italia

- La ragazza di Gladio - le coperture dello Stato ai fascisti

- La ragazza di Gladio - la fidanzata di Silvio Ferrari

- La ragazza di Gladio - la strage di Bologna, la manovalanza di destra, Gelli, P2 e i servizi


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