19 luglio 2025

Borsellino, la lotta alla mafia e la normalizzazione della mafia

Immagine presa dal sito 19luglio

Oggi è il giorno del santino del giudice Paolo Borsellino, magistrato del pool antimafia di Palermo (e poi a Trapani per tornare ancora a Palermo), ucciso da un’autobomba davanti casa della madre in via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme alla sua scorta, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli.

Un attentato avvenuto a 57 giorni di distanza dall’altra bomba, quella che uccise a Capaci Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta (Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro ).

Perché il giorno del santino? Perché nelle celebrazioni che si terranno oggi in memoria si racconterà di un altro Borsellino, quello diventato appunto un’icona per la politica (e per i professionisti dell’antimafia di facciata): Borsellino l’eroe, Borsellino che, come Falcone, lavorava senza fare show mediatici. Borsellino emblema della lotta alla mafia.. l’attuale presidente del consiglio ricorda sempre di essere entrata in politico dopo l’attentato di via D’Amelio.

Ma dimentica tante altre cose: che il suo partito è andato al governo nel 1994, il primo della seconda Repubblica nata sul solco della stragi e della trattativa stato-mafia, assieme ad un partito fondato da un politico molto chiacchierato.

E, ma non solo Meloni, ci si dimentica dei tanti attacchi che il pool di Palermo e Falcone con Borsellino in primis, subirono da vivi. Questo è il destino riservato agli eroi nel nostro paese: il pool di Chinnici e Caponnetto poi furono attaccati dalla DC regionale perché si erano permessi di entrare nelle banche, perché volevano fare luce su quella zona di contiguità (perché complicità non si poteva dire) tra politica e mafia.

Perché finalmente si facevano indagini sui fratelli Salvo, gli esattori della tasse regionali grandi elettori della DC, su Vito Ciancimimo, il più politico dei mafiosi di Corleone (parole di Falcone), su Salvo Lima, il primo politico ad essere liquidato da Riina dopo la conferma in Cassazione del Maxi Processo, il 30 gennaio 1992.

La carriera di Falcone in magistratura fu bocciata più volpe per i tanti giuda presenti anche tra i colleghi e nel CSM. A Borsellino fu contestata la nomina a procuratore capo a Trapani da un “brutto” articolo di Leonardo Sciascia uscito sul corriere, quello dei “professionisti dell’antimafia”. Per fortuna poi lo scrittore e il giudice ebbero modo di chiarire quanto successo.

Oggi nelle tante celebrazioni si dirà che lo stato ha vinto: i responsabili di Capaci e i vertici dell’ala corleonese che hanno organizzato le stragi del 1992-1993 sono stati arrestati, molti di loro hanno scelto la strada della collaborazione, aiutando i magistrati a chiarire altri episodi di mafia.

Ma lo stato non ha vinto: è stata eliminata l’ala corleonese di cosa nostra, quelli per cui bisogna “Fare la guerra per poi fare la pace ”, come disse Riina ai suoi collaboratori.

Eppure in questi anni si è consentito a Bernardo Provenzano una lunga latitanza di 43 anni: lo stato poteva arrestato a Mezzojuso, grazie al lavoro del colonnello Michele Riccio, ma poi il Ros di Mario Mori decise altrimenti. Sono accadute strane cose nella guerra alla mafia: la mancata perquisizione al covo di Riina, la mancata cattura di Provenzano, la latitanza dorata di Matteo Messina Denaro (considerato l’ultimo padrino) durata quasi 30 anni. Arrestato nel gennaio 2022 mentre si recava in una clinica privata (sempre che vogliamo credere a questa versione..).

La trattativa stato mafia, gli incontri tra uomini delle istituzioni e portavoce dei boss, per mettere fine a queste bombe (quelle di Capaci e via D’Amelio, come anche gli omicidi dei politici che non avevano garantito l’impunità dei boss).

Oggi ci diranno che la trattativa non c’è stata, sono stati tutti assolti d’altronde gli uomini dello stato, gli ufficiali del Ros e i politici che erano stati chiamati a processo.

Certo, i contatti ci sono stati, c’è stato il papello, lo stato ha revocato il 41 bis a diversi boss sottoposti al carcere duro, come azione distensiva nei confronti di cosa nostra. Alcune delle richieste di Riina contenute nel papello sono diventate legge: lo smantellamento delle supercarceri, la riforma della legge sui pentiti..

Oggi, sotto i nostri occhi, sta avvenendo una riscrittura della lotta alla mafia: altro che pista nera, altro che entità esterne che hanno concorso ad organizzare le stragi (massoneria, ex esponenti di Gladio che non intendevano farsi mettere a pensione col crollo del muro di Berlino).

Oggi la nuova commissione antimafia gestita dal partito di destra di Meloni sotto l’influenza di Mario Mori ci dice che Falcone è stato ucciso perché era nemico della mafia. E che dietro la strage di Borsellino c’è il rapporto mafia-appalti.

Per credere a queste fandonie basta dimenticare tutti i pezzi che mancano, tutte le cose che non tornano dietro alle verità ufficiali.

Le deposizioni del collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero che parla della presenza di Stefanao Delle Chiaie a Capaci presumibilmente per preparare la strage (La pista nera di cui ha parlato Report in diversi servizi).

Del falso pentito Vincenzo Scarantino, un pupo vestito ad arte da uomini dello stato, il capo della mobile La Barbera: come mai lo stato ha costruito questo falso pentito per inventarsi una falsa pista dietro via D’Amelio?

LA vera domanda è, come mai questa seconda strage, a soli 57 giorni da Capaci? Dopo la seconda bomba il parlamento fu costretto ad approvare il decreto Falcone (che era rimasto fermo) che conteneva il carcere duro.

Cosa spinse la mafia e Riina a questa accelerazione?

Chi era il giuda, il falso amico che aveva tradito Borsellino (fu una delle ultime confidenze fatte a due suoi collaboratori)?

Serviva dare un altro colpetto a questa seconda repubblica e ai suoi partiti (alle prese anche con le inchieste sulla corruzione) per preparare il terreno all’uomo nuovo, ad una seconda repubblica dove tutto cambia per non cambiare nulla (per citare il Gattopardo)?

È uscito recentemente per Paper First un libro scritto dal procuratore Luca Tescaroli, “Il biennio di sangue” che ripercorre le bombe successive, quelle fatte scoppiare a Roma, in via Fauro il 14 maggio 1993 contro il giornalista Maurizio Costamzo.

A Firenze alla torre dei Pulci in via Georgofili il 26 maggio 1993. La bomba a Milano il 27 luglio 1993 in via Palestro.

Poi le due bombe fatte scoppiare a Roma, sempre nella notte del 27 luglio, davanti le chiese di san Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro durante la notte delle bombe che fece pensare, all’allora presidente del consiglio Ciampi, che si stesse preparando un colpo di stato.

Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".

Il colpo di stato non è avvenuto. Ma la normalizzazione della mafia, si quella c’è stata. La lotta contro la mafia (non solo l’ala militare, ma anche la mafia imprenditoriale, la mafia dei camici bianchi, la mafia del cemento, la mafia dei supermercati, dentro la finanza..) si è via via depotenziata.

È solo bastato aspettare. Governo dopo governo. Con gli attacchi ai pochi magistrati che si ostinano a fare il loro dovere contro la criminalità organizzata.

Tagli alle intercettazioni, riforme in senso garantista che limitano l’azione giudiziaria e il diritto ai cittadini ad essere informati.

Qualche ministro arriva persino a pensare che si debba tornare a fare le indagini come una volta, coi pedinamenti.

Dimenticandosi di quanto è successo 33 anni fa.

Riprendiamo dal libro di Luca Tescaroli, “Il biennio di sangue”

Il retroterra stragista degli anni Settanta e Ottanta e il momento di massimo pericolo per la democrazia nel nostro Paese

Lungo il sentiero del tempo che attraversa gli anni Settanta, Ottanta e Novanta, membri appartenenti alla destra eversiva e all’associazione mafiosa denominata Cosa nostra incisero profondamente nella vita democratica della nostra Nazione con il ricorso a dirompenti ordigni esplosivi che hanno prodotto plurime stragi, seminando panico, distruzione, lutti e una diffusa insicurezza nella collettività. Alle bombe nere dei neofascisti degli anni della strategia della tensione [..] si affiancarono le stragi volete ed eseguite dai corleonesi giunti alla guida di cosa nostra, nel quadro delle ipotizzate convergenze di interessi con soggetti esterni alla stessa organizzazione.

Per poi proseguire:

Nella fascia temporale che ha preceduto l’esecuzione di queste otto stragi [quelle del 1993 e il mancato attentato allo stato di Roma nel gennaio 1994] sono affiorati e, comunque, sono rimasti sullo sfondo rapporti tra esponenti della destra estrema, come Paolo Bellini risultato in contatto con il mafioso Antonino Gioè, che riportavano alla mente le stragi neofasciste degli anni Settanta e Ottanta.

L’aggressione rappresentò il momento di massimo pericolo per la nostra democrazia, che venne profondamente ferita, e l’attacco più grave posto in essere da Cosa nostra.

Finché ci racconteremo la storiella dei santini, la verità di comodo sulla morte di Falcone e Borsellino (e di tutte le altre vittime innocenti), la nostra democrazia sarà ancora sotto ricatto.

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