Il cielo sopra Palermo s’incupisce quando il corteo delle tre Croma blindate entra nella cittàà svuotata dalla calura della domenica estiva.
All’improvviso l’azzurissimo di una giornata splendida è sporcato da nubi inattese.
Le vetture, sulle quali viaggiano Paolo Borsellino e i sei poliziotti incaricati di custodirlo, attraversano incroci deserti, strade senza passanti. Giungono in via Sampolo, svoltano in via Autonomia Siciliana.
Sulla sinistra comincia via Mariano D’Amelio, palazzoni residenziali a uno sputo dalla Fiera del Mediterraneo abitati da una borghesia tradizionale.
La Croma di testa, condotta da Antonio Vullo, si ferma all’imbocco. Via D’Amelio è un enorme parcheggio di auto su entrambi i lati.
Vullo ha un soprassalto: né un cartello di sosta vietata né un cartello di rimozione forzata. Possibile?
Dall’eccidio del 23 maggio a Capaci, - in cui sono stati sterminati Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, tre agenti (Antonio Montinari, Rocco Di Cillo, Vito Schifani) - gli uomini delle scorte vivono con l’incubo degli attentati esplosivi, delle macchine imbottite di tritolo.
Attorno agli obiettivi piùù sensibili - le case, gli uffici, le sedi istituzionali - sono state predisposte zone estese di sosta vietata. In via D’Amelio, no, benché al 19 ci vivano la sorella Rita, sposata Fiore, e la madre di Borsellino, il procuratore aggiunto erede materiale e spirituale di Falcone, del quale ha raccolto il testimone dopo averne condiviso indagini, pericoli, polemiche.
Tutti a Palermo sanno che Borsellino, legatissimo alla mamma, si ritaglia appena può lo spazio per una visita.
E tutti l’hanno udito annunciare qualche sera prima, durante un affollatissimo convegno, di ritenersi un condannato a morte.
Allora che senso ha agevolare il compito ai macellai in agguato non tenendo lontano le auto da quel palazzo?
D’altronde, una settimana prima è dovuto intervenire il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, per imporre che la grande vetrata nell’ufficio di Borsellino venisse sostituita con una a prova di proiettili.
Vullo rivolge un’occhiata interrogativa al collega Claudio Traina, seduto accanto. Che facciamo?
Pochi secondi d’indugio, la Croma guidata da Borsellino li supera e si arresta fra il civico 19 e il civico 21.
Borsellino è venuto a prendere la madre per condurla alla visita cardiologica fissata da lì a un’ora.
La mossa del magistrato detta i tempi alla scorta, elimina ogni dubbio, ogni precauzione: Vullo affianca con la sua la macchina di Borsellino, balzano fuori Traina e il poliziotto sistemato dietro, Vincenzo Limuli, il più giovane, 22 anni, dei sei agenti.
Si fa sotto anche la terza Croma. Vullo porta avanti la propria: ha il compito di posizionarsi a un’estremità della strada per impedire l’accesso a ogni vettura.
Scopre che questa parte di via D’Amelio è delimitata da un muro e tira un sospiro di sollievo.
Butta l’occhio sullo specchietto retrovisore.
Dalla terza Croma stanno scendendo Agostino Catalano, l’esperto capo scorta, 42 anni, ancora provato dalla scomparsa della moglie; Claudio Walter Cosina, che dovrebbe essere di riposo, ma si è offerto di regalare un giorno in più di ambientamento al suo sostituto appena giunto da Trieste; Emanuela Loi, l’inconfondibile zazzera bionda: ha già annunciato l’imminente matrimonio, i colleghi hanno cominciato la raccolta dei soldi per il regalo.
In teoria Catalano, Cosina e Loi non dovrebbero trovarsi attorno a Borsellino.
Secondo gl’insegnamenti del corso, con la loro Croma dovrebbero chiudere la seconda estremità di via D’Amelio, qualcuno magari rimanere sull’auto, gli altri prendere posizione.
Ma Catalano è legatissimo al magistrato, gli cammina accanto nel desiderio di proteggerlo e Walter ed Emanuela gli stanno dietro con pistole, mitra dalla canna corta, gli occhi che roteano intorno alla ricerca del pericolo.
Vullo, quindi, non si stupisce di vederli dirigersi tutti assieme verso l’ingresso del palazzo: sei italiani perbene, il difensore della legge e i suoi angeli custodi.
Borsellino s’avvicina al citofono per avvertire i familiari che è giunto...
Il boato scuote mezza città.
Lo sentono all’Arenella e a Resuttana, lo sentono a San Lorenzo e a Cruillas, quartieri nei quali è stata scritta la cronaca più nera di Palermo; lo sentono al Parco della Favorita e in viale Regione Siciliana, nei cui pressi, dentro il complesso di via Bernini, conduce un’agiata latitanza Totò Riina, all’apparenza il capo indiscusso di Cosa Nostra.
Lo sentono i tanti mafiosi ai quali Riina ha garantito che sta per imporre le proprie condizioni allo Stato («Si sono fatti sotto, ci devono dare quanto vogliamo»).
Lo sentono i mille complici invisibili: bravi borghesi che si sono sottomessi, rappresentanti delle Istituzioni che con i mammasantissima preferiscono accordarsi anziché combatterli, politici affamati di potere.
Ciascuno insegue un polposo tornaconto. Che grondi sangue innocente è ritenuto un mero accidente della storia.
La Croma di Vullo è investita da una fiammata. L’auto viene sollevata dall’asfalto e rovesciata.
Vullo apre lo sportello ed esce prima che la macchina esploda.
Via D’Amelio è un susseguirsi di scoppi, di esplosioni.
Vullo estrae meccanicamente la pistola, procede barcollando tra fumo, macerie, pioggia di detriti.
Scorge un corpo dilaniato e bruciato, ma non riesce a riconoscerlo.
Aumenta l’andatura, avanza in mezzo a brandelli di carne, s’accorge di essere fermo sopra un piede amputato.
Dalla nebbia di polvere vede sbucare un poliziotto della prima volante che è accorsa, attirata dal boato.
Vullo sviene, si risveglierà in ospedale.
Sono le 16,58 del 19 luglio 1992.
La storia d’Italia cambia per l’ennesima volta in questo complicato mezzo secolo di Repubblica. E non è un caso che il primo dei cambiamenti sia avvenuto a cinquanta chilometri da qui. Quarto Mulino, frazione di San Giuseppe Jato: alle 17,17 del 2 settembre 1943 Salvatore Giuliano uccise il carabiniere Antonino Mancino per sfuggire a un posto di blocco. Era il suo primo omicidio, ma avrebbe mutato per sempre il destino della mafia e il nostro.
All’improvviso l’azzurissimo di una giornata splendida è sporcato da nubi inattese.
Le vetture, sulle quali viaggiano Paolo Borsellino e i sei poliziotti incaricati di custodirlo, attraversano incroci deserti, strade senza passanti. Giungono in via Sampolo, svoltano in via Autonomia Siciliana.
Sulla sinistra comincia via Mariano D’Amelio, palazzoni residenziali a uno sputo dalla Fiera del Mediterraneo abitati da una borghesia tradizionale.
La Croma di testa, condotta da Antonio Vullo, si ferma all’imbocco. Via D’Amelio è un enorme parcheggio di auto su entrambi i lati.
Vullo ha un soprassalto: né un cartello di sosta vietata né un cartello di rimozione forzata. Possibile?
Dall’eccidio del 23 maggio a Capaci, - in cui sono stati sterminati Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, tre agenti (Antonio Montinari, Rocco Di Cillo, Vito Schifani) - gli uomini delle scorte vivono con l’incubo degli attentati esplosivi, delle macchine imbottite di tritolo.
Attorno agli obiettivi piùù sensibili - le case, gli uffici, le sedi istituzionali - sono state predisposte zone estese di sosta vietata. In via D’Amelio, no, benché al 19 ci vivano la sorella Rita, sposata Fiore, e la madre di Borsellino, il procuratore aggiunto erede materiale e spirituale di Falcone, del quale ha raccolto il testimone dopo averne condiviso indagini, pericoli, polemiche.
Tutti a Palermo sanno che Borsellino, legatissimo alla mamma, si ritaglia appena può lo spazio per una visita.
E tutti l’hanno udito annunciare qualche sera prima, durante un affollatissimo convegno, di ritenersi un condannato a morte.
Allora che senso ha agevolare il compito ai macellai in agguato non tenendo lontano le auto da quel palazzo?
D’altronde, una settimana prima è dovuto intervenire il capo della Polizia, Vincenzo Parisi, per imporre che la grande vetrata nell’ufficio di Borsellino venisse sostituita con una a prova di proiettili.
Vullo rivolge un’occhiata interrogativa al collega Claudio Traina, seduto accanto. Che facciamo?
Pochi secondi d’indugio, la Croma guidata da Borsellino li supera e si arresta fra il civico 19 e il civico 21.
Borsellino è venuto a prendere la madre per condurla alla visita cardiologica fissata da lì a un’ora.
La mossa del magistrato detta i tempi alla scorta, elimina ogni dubbio, ogni precauzione: Vullo affianca con la sua la macchina di Borsellino, balzano fuori Traina e il poliziotto sistemato dietro, Vincenzo Limuli, il più giovane, 22 anni, dei sei agenti.
Si fa sotto anche la terza Croma. Vullo porta avanti la propria: ha il compito di posizionarsi a un’estremità della strada per impedire l’accesso a ogni vettura.
Scopre che questa parte di via D’Amelio è delimitata da un muro e tira un sospiro di sollievo.
Butta l’occhio sullo specchietto retrovisore.
Dalla terza Croma stanno scendendo Agostino Catalano, l’esperto capo scorta, 42 anni, ancora provato dalla scomparsa della moglie; Claudio Walter Cosina, che dovrebbe essere di riposo, ma si è offerto di regalare un giorno in più di ambientamento al suo sostituto appena giunto da Trieste; Emanuela Loi, l’inconfondibile zazzera bionda: ha già annunciato l’imminente matrimonio, i colleghi hanno cominciato la raccolta dei soldi per il regalo.
In teoria Catalano, Cosina e Loi non dovrebbero trovarsi attorno a Borsellino.
Secondo gl’insegnamenti del corso, con la loro Croma dovrebbero chiudere la seconda estremità di via D’Amelio, qualcuno magari rimanere sull’auto, gli altri prendere posizione.
Ma Catalano è legatissimo al magistrato, gli cammina accanto nel desiderio di proteggerlo e Walter ed Emanuela gli stanno dietro con pistole, mitra dalla canna corta, gli occhi che roteano intorno alla ricerca del pericolo.
Vullo, quindi, non si stupisce di vederli dirigersi tutti assieme verso l’ingresso del palazzo: sei italiani perbene, il difensore della legge e i suoi angeli custodi.
Borsellino s’avvicina al citofono per avvertire i familiari che è giunto...
Il boato scuote mezza città.
Lo sentono all’Arenella e a Resuttana, lo sentono a San Lorenzo e a Cruillas, quartieri nei quali è stata scritta la cronaca più nera di Palermo; lo sentono al Parco della Favorita e in viale Regione Siciliana, nei cui pressi, dentro il complesso di via Bernini, conduce un’agiata latitanza Totò Riina, all’apparenza il capo indiscusso di Cosa Nostra.
Lo sentono i tanti mafiosi ai quali Riina ha garantito che sta per imporre le proprie condizioni allo Stato («Si sono fatti sotto, ci devono dare quanto vogliamo»).
Lo sentono i mille complici invisibili: bravi borghesi che si sono sottomessi, rappresentanti delle Istituzioni che con i mammasantissima preferiscono accordarsi anziché combatterli, politici affamati di potere.
Ciascuno insegue un polposo tornaconto. Che grondi sangue innocente è ritenuto un mero accidente della storia.
La Croma di Vullo è investita da una fiammata. L’auto viene sollevata dall’asfalto e rovesciata.
Vullo apre lo sportello ed esce prima che la macchina esploda.
Via D’Amelio è un susseguirsi di scoppi, di esplosioni.
Vullo estrae meccanicamente la pistola, procede barcollando tra fumo, macerie, pioggia di detriti.
Scorge un corpo dilaniato e bruciato, ma non riesce a riconoscerlo.
Aumenta l’andatura, avanza in mezzo a brandelli di carne, s’accorge di essere fermo sopra un piede amputato.
Dalla nebbia di polvere vede sbucare un poliziotto della prima volante che è accorsa, attirata dal boato.
Vullo sviene, si risveglierà in ospedale.
Sono le 16,58 del 19 luglio 1992.
La storia d’Italia cambia per l’ennesima volta in questo complicato mezzo secolo di Repubblica. E non è un caso che il primo dei cambiamenti sia avvenuto a cinquanta chilometri da qui. Quarto Mulino, frazione di San Giuseppe Jato: alle 17,17 del 2 settembre 1943 Salvatore Giuliano uccise il carabiniere Antonino Mancino per sfuggire a un posto di blocco. Era il suo primo omicidio, ma avrebbe mutato per sempre il destino della mafia e il nostro.
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Mi raccomando, siate umani