23 aprile 2013

Sua Castità di Marco Travaglio


Dal Fatto quotidiano del 23-4-2013
Complimenti al regista, e anche allo sceneggiatore. Ieri, giorno III dell'Era Napolitana, l'Inciucio Day si è aperto di prima mattina nel supercarcere dell'Ucciardone (e dove se no?) con un sacrificio votivo sull'altare della Casta: un bel falò pirotecnico, non di agnelli o montoni o vergini inviolate, ma di nastri e bobine che immortalavano le quattro telefonate fra il capo dello Stato Giorgio Napolitano e l'indagato per falsa testimonianza Nicola Mancino, implicato nella trattativa Stato-mafia. Con mirabile devozione e scelta di tempo, la Cassazione partecipava festosa all'incoronazione di Re Giorgio rendendo note le motivazioni della sacra pira: intercettare l'indagato Mancino senza prevedere che avrebbe chiamato il Quirinale per ricattarlo e senza rassegnarsi all'idea che la legge non è uguale per tutti fu, da parte dei giudici di Palermo, “un vulnus costituzionalmente rilevante”. Non contenti, i supremi cortigiani hanno disposto l'ennesimo rinvio della decisione sul trasloco dei processi a B. da Milano a Brescia, facendo slittare sine die il processo Ruby e allontanando così il giorno della sentenza, onde evitare che il noto puttaniere subisse un altro vulnus mentre s'appresta al trionfale ingresso nel governo di larghe intese. Illuminato e circonfuso da quel fuoco purificatore, il nuovo Re Sole si è recato in quel che resta del Parlamento per il tradizionale discorso della Corona. E lì ha abilmente scudisciato la Casta di cui fa parte dal 1953, raccogliendo applausi, standing ovation e ola dai frustati medesimi, ben consci che il gioco delle parti imponeva l'esercizio sadomaso per il bene supremo della sopravvivenza, all'ombra del Santo Patrono e Lord Protettore della banda larga. Copiose le lacrime sparse da Sua Castità, nella migliore tradizione del chiagni e fotti. All'incoronazione seguirà – come da cerimoniale della Real Casa – la grazia del Re, onde evitare che i sudditi scoprano l’“orrore” (men che meno in “piazza”) di larghe intese con un condannato per frode fiscale, rivelazione di segreti ed eventualmente concussione e prostituzione minorile. Il quale saggiamente prorompe in un liberatorio “Meno male che Giorgio c'è”.

   Qualche irriducibile frequentatore di piazze o (Dio non voglia) della Rete avrebbe preferito vedere, al posto di Sua Castità, un uomo libero come Stefano Rodotà. Ingenui. Mai un moralista di tal fatta avrebbe potuto raggiungere lo scranno più alto di Montecitorio senza essere abbattuto a pallettoni dagli unici autorizzati rappresentanti della volontà popolare. Basti pensare che l'incauto giurista, nel 1991 quand'era presidente del Pds, osò financo apporre la sua prefazione a un libro, Milano degli scandali di Barbacetto e Veltri, che anticipava le indagini di Mani Pulite sulla corruzione trasversale Dc-Psi-Pds. Fu ipso facto deferito ai probiviri del partito su richiesta di alcuni protagonisti del libro, essendo venuto meno al dovere di omertà mafiosa verso i compagni che rubano. La procedura fu poi – per così dire – superata dagli eventi: i protagonisti del libro erano quasi tutti in galera e certi viri erano tutt'altro che probi. Ma il reprobo fu comunque punito come meritava: candidato del Pds a presidente della Camera, fu battuto da Napolitano, già protagonista di epiche battaglie contro la “questione morale” di Berlinguer e comprensibilmente leader dei miglioristi filo-craxiani, ribattezzati a Milano “piglioristi” per le mirabili arti prensili di alcuni di essi (il loro giornale, Il Moderno, era finanziato da Berlusconi, Ligresti, Gavio e altri gentiluomini). Pochi mesi dopo i magistrati di Napoli arrestavano per tangenti il manager Fininvest Maurizio Iapicca, sequestrandogli un quadernetto con la lista dei politici “vicini” al gruppo B.: tra questi campeggiava il nome di Giorgio Napolitano. Il che rende gli applausi, le standing ovation, le ola e i “meno male che Giorgio c'è” di ieri vieppiù meritati.

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