Romanzo di santi e di delinquenti.
Prologo.
Il 15 agosto 1938 don Quinto Magnanelli lasciò presto la canonica. Aveva finito di dire la prima messa e appena terminato di fare colazione.
«Vado giù al paese vicino, al mio paese» disse alla Perpetua. «Oggi là c'è la festa, sepete.»La Perpetua borbottò qualcosa di assenso. Lo sapeva, era tradizione che don Quinto, ogni anno, per la grande festa patronale del paese vicino vi si recasse, celebrasse la messa solenne cantata con il locale parroco don Enrico e si fermasse là a mangiare, invitato a pranzo dal collega.
Sceso in paese, don
Quinto si imbatte in una persona dall'aria familiare: un uomo con una
barba scura che gli copriva il volto e con due occhi di un azzurro
intenso.
«Eppure quel viso e quegli occhi
...».
Ambientato tra la fine dell'800 e gli
anni precedenti la seconda guerra mondiale, Macaronì è il
primo romanzo della serie letteraria inventata dalla coppia Guccini
Macchiavelli, col maresciallo Benedetto Santovito, nato in
Campania ma trasferito per punizione (per episodi del passato non del
tutto chiari) su un paesino dell'appennino Tosco-Emiliano.
Un paese tranquillo, uno dei tanti
paesi dove è stata forte l'emigrazione verso l'estero (specie in
Francia), per colpa della miseria e la gente è abituata a vivere con
poco perché è la stessa terra che da poco.
Tanta neve d'inverno, acqua in
primavera e poco sole, strozzato dalle montagne che lo circondano:
“Il paese è chiuso a levante e ponente , fra due montagne. Così c'è solamente uno spicchio di cielo che, in inverno, il sole attraversa in poche ore. Sotto, nella parte più bassa della gola, l'acqua scorre in mezzo ai massi, sbattendo contro le rive, rimbalzando sulle rocce, trascinando, schiumando”.
Paese tranquillo,
dicevano i superiori del maresciallo, che però se poi si trova
invischiato in una catena di delitti, di due compaesani che però
venivano da fuori il paese, ma che in realtà inizia proprio col
parroco che abbiamo incontrato nel prologo e prosegue col suo
predecessore, il maresciallo Bargellaux, trovato morto per un colpo
di fucile, dentro un rovo.
Ma forse, a voler
ben vedere, la scia di delitti inizia da ben prima, dai tempi di
Spirito, così veniva chiamato Prosperi Gaetano, uno
dei tanti figli di quella terra dimenticata magari non da Dio, ma
dagli uomini e dal re sicuramente. Uno di quelli che d'inverno, per
guadagnare qualcosa doveva scendere in paese ed adattarsi ai lavori
più faticosi, che quando si ha moglie e figli, il più piccolo di
pochi anni, si fa questo e altro. Ma se non si è disposti a
tollerare soprusi, la vita diventa difficile ..
Ucciso dalle
guardie del re, davanti l'aia di casa, davanti gli occhi del figlio
più piccolo, chiamato Ciareìn per i suoi occhi azzurri. Un
brigante, uno che fiutava le guardie a naso, che sapeva sparire
quando lo cercavano, come uno Spirito appunto.
Romanzo di santi e delinquenti …
Macaronì è
un romanzo che parte raccontando due storie, all'apparenza disgiunte,
tra passato (i fatti a seguire il 1882) e il presente narrativo (il
1939), che poi si fonderanno in un punto di incontro.
La prima storia
è una storia di povertà ed emigrazione: quella di Ciareìn,
scappato dal paese e dal quel
cognome ingombrante, per emigrare in Francia, dove sulla sua pelle
vive tutta la trafila odiosa vissuta dagli italiani andati all'estero
per lavorare. Ragazzi, spesso minorenni, sfruttati da caporali
italiani come loro, ma senza nessun segno di solidarietà.
Prima di aprire il tegame che il caporione consegnava alla partenza, i ragazzi già sapevano cosa ci avrebbero trovato dentro: maccheroni, sempre. Neppure la gioia della sorpresa. Maccheroni poco o niente conditi e stracotti e impastati tra loro.Se mangiavano in fretta restava un po' di tempo per chiacchierare. Per risentire la loro voce e una parlata comprensibile. Poco tempo e poi:«Allez, allez, macaronis! Au trvail, vite, vite.»
Macaronì, così venivano chiamati con disprezzo dai
francesi, che li guardavano e li trattavano con disprezzo.
Briseurs, perché accettavano senza protestare tutti i
lavori che i francesi non volevano più fare, con paghe inferiori a
quelle francesi.
Come il lavoro nelle vetrerie:
“uno dei più faticosi e pericolosi. Bruciature quando il vetro debordava dal cannello nel quale scorreva dopo la fusione; dolorose fitte dentro, forse ai polmoni; maltrattamento degli operai francesi che scaricavano su quei ragazzi la loro stanchezza ... D'estate era l'inferno. In vetreria e nel capannone. Prima di aprire il tegame che il caporione consegnava alla partenza, i ragazzi sapevano già cosa ci avrebbero trovato dentro: maccheroni sempre ... ”.
Ritals, perché considerati come dei ladri, gente, anzi
animali venuti nella loro terra a rubare lavoro e a violentare le
loro donne.
Certo,
nemmeno Ciareìn è
uno stinco di santo: da quel ragazzo sveglio che è ha capito subito
l'arte di arrangiarsi, così passa da un lavoro all'altro, arrivando
anche a trafficare con i napoletani che sbarcano i clandestini (altri
macaronì come lui) sulle spiagge di Marsiglia.
Ma
deve scappare ancora, per sfuggire alla malavita. Intanto in Francia
il clima si fa sempre più difficile per gli italiani, accusati di
rubare il lavoro ai francesi, di accettare paghe misere: in una
taverna, Ciareìn
colpisce un francese durante una rissa, ed è ancora costretto a
scappare. Trova lavoro in una miniera, al nord a Villerupt,
dove incontra addirittura altri paesani che lo ospitano. Ma anche
qui, il destino, ha stabilito che non ci possa essere pace ....
Il secondo
filone narrativo parte invece nel 1939, quando il maresciallo
deve investigare su due omicidi, avvenuti a distanza di pochi giorni,
che riguardano due estranei arrivati da fuori e qui stabiliti.
Il francese, una
persona anziana che passava le serate ad ubriacarsi ad un tavolo
accanto a quello chiamato “del maresciallo”, dove costui
giovava le sue partite a tressette assieme ai compagni di gioco Bleblè della Ca' rossa, il Ligera e Nasone.
Il secondo morto è
un anarchico, Libero Guidotti, scappato dalla guerra in Spagna e
anche dal regime fascista.
Tutti e due uccisi
in malo modo, col cranio fracassato, mentre salivano alla Mezzacosta,
verso la casa della contessa, una signora su cui girano tante voci in
paese...
E' in questo clima
che il maresciallo deve portare avanti le sue indagini, tenendosi
alla larga dalle dicerie e alle leggende, ma dovendo affrontare anche
una certa ostilità dai suoi stessi compaesani, anche quelli con cui
è più in confidenza: l'oste e la moglie Parsues e Serafina, Ble Blè
(perché inciampa sulla c..), il parroco don Enrico, il vecchio
Tripoli che sa in anticipo quando cambia il tempo.
Sente che tutti in
paese gli nascondano qualcosa attorno a quei due morti, che
sicuramente sono legate ai due vecchi omicidi, il parroco don Quinto
e il maresciallo Bargellaux sparato alle spalle.
«No, non li ho ancora capiti, Bleblè. Questi tuoi paesani sono gente chiusa, difficile. Spiegameli tu» dice fra i denti. [..]
«C'è poco da spiegare. Hanno paura della legge, quella che dovrebbe essere uguale per tutti e che da queste parti non lo è mai stata. Una paura che viene dai padri, dai nonni e chissà da quante generazioni.»
Dovrà fare quasi
tutto da solo, il maresciallo, andando su è più dal paese alla casa
della contessa, fino al comando di Legione a Bologna, a fare domande
scomode cui nessuno ha voglia di rispondere, stando attento anche al
federale (cui le domande ai camerati non vanno proprio giù), ma
saprà ricostruire questa storia di violenze e trovare il movente di
questa catena di delitti.
Un romanzo giallo
dall'intrigo perfetto, dove a fianco dell'indagine trova spazio il
racconto del dramma dell'emigrazione, la nostra emigrazione, che oggi
ci siamo dimenticati di aver vissuto sulla nostra pelle.
E il racconto di un
mondo antico carico di tradizioni e leggende, di quelle che si
narrano attorno ad un tavolo d'osteria, con una bella bottiglia di
vino per riscaldarsi e passare la serata.
Tradizioni di gente
che ha ostilità sia dei preti che dei carabinieri, perché come si è
detto qui la legge non è uguale per tutti e su tutti grava un
destino carico di ingiustizia e di sofferenza.
“È sempre più convinto di avere poco in comune con i luoghi e la gente di qui e che non ci sia nulla da fare per cambiare le cose: non arriverà mai neppure a cominciare a capirli. I luoghi e la gente.
Fra quei monti e quei dentro quei boschi che non lasciano passare lo sguardo, si nascondono il passato, il presente, il futuro e i misteri che sfuggono giorno dopo giorno, fino a quando il tempo non li avrà cancellati e nessuno ne conserverà più la memoria”.
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