Le prime righe
"E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters.
Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio."
Ho letto questo libro, l'ultimo scritto
da Kent Haruf, senza quasi fermarmi: non solo per la scrittura,
semplice e diretta, ma proprio per l'impossibilità nello staccarsi
dal racconto, pagina dopo pagina, giorno dopo giorno, della vita di
due persone anziane, Addie Moore e Louis Waters.
Due anziani come tanti, con alle spalle
una vita, un lavoro, un marito (per Addie) e una moglie (Louis) che
li hanno lasciati soli, alla loro quotidianità.
Una quotidianità che però, senza una
persona a fianco, può diventare un peso, una condanna, un qualcosa
che non si riesce più a sostenere. Da soli.
Anche se si hanno dei ricordi. Anche se
ci sono figli e nipoti, che riempiono la giornata, rendendola viva.
"Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me.Cosa? In che senso?Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare."
Ecco allora la proposta di Addie:
trascorrere la notte assieme, tu vieni da me e attraversiamo la notte
assieme, parlando, stando vicini, tenendoci la mano.
Cosa c'è di peggio che passare la
notte da soli?
E non stiamo parlando di sesso:
“Non parlo di sesso.Me lo stavo chiedendo.No, non intendo questo. Credo di aver perso qualsiasi impulso sessuale un sacco di tempo fa. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire. Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?”
Nella sua semplicità, la proposta di
Addie ha dentro tutto il senso della storia e anche delle nostre
storie, forse.
L'importanza delle relazioni sociali
tra le persone, di come sia complicato pretendere questa felicità,
questi bisogni in un paese dalla mentalità retrograda, antiquata,
come nella comunità (immaginaria) di Holt, in Colorado.
Dove in molti iniziano a fare battutine
sul fatto che Louis, ogni sera, attraversi il vialetto che separa la
sua casa da quella di Addie e si intrufoli in casa sua.
Cosa c'è di sbagliato nel non voler
star da soli, nel voler qualcuno a fianco con cui parlare, con cui
fare un picnic, andare a teatro.
Dove sta scritto che il diritto alla
felicità debba venir meno, ad una certa età?
Chi stabilisce che queste convenzioni
morali che ci siamo cuciti addosso, siano giuste?
Da questo punto di vista, Addie è una
donna coraggiosa, forte, decisa: decisa non farsi più influenzare da
quello che dice e pensano le persone, le piccole persone e la loro
piccola mentalità: quando Louis cerca di entrare dalla porta sul
retro, per non farsi vedere, gli risponde di passare dalla strada,
dalla porta principale:
“Ho deciso di non badare a quello che pensa la gente. L'ho fatto per troppo tempo – per tutta la vita. Non voglio più vivere così. Dà l'idea che stiamo facendo qualcosa di sbagliato o scandaloso, qualcosa di cui vergognarci.”
Un giorno dopo l'altro, seguiremo la
vita di queste due persone che iniziano a confidarsi il loro passato:
il matrimonio di Addie con Carl, i primi anni difficili per la
diffidenza dei genitori di lei. La morte della prima figlia Connie,
il rapporto difficile del padre nei confronti del secondo figlio
Gene.
E lo stesso fa Louis: le
racconta di quando tradì la moglie con una donna sposata e con un
figlio, il periodo separato dalla moglie e poi il riavvicinamento. Il
sentirsi solo un “mediocre insegnante di una cittadina
polverosa”.
Quell'insolita
relazione notturna, per le persone di Holt, diventa ogni giorno
qualcosa di più importante, per entrambi. Il parlare del passato, il
mettere a nudo i propri segreti, il semplice parlare durante la
notte.
È questa la
felicità, quel senso di soddisfazione che ti fa vivere la vita ogni
giorno in modo migliore:
“Adoro questa cosa. È meglio di quel che speravo. È una specie di mistero. Mi piace per il senso di amicizia. Mi piace il tempo che passiamo insieme. Starcene qui al buio di notte. Sentirti respirare accanto e me se mi sveglio”.
Un giorno, il
figlio di Addie si presenta a casa col nipote Jamie e le
chiede se può lasciare il nipote da lei per qualche tempo, per i
problemi che sta avendo con la moglie.
Nemmeno il figlio
vede di buon occhio questo rapporto, scandaloso ai suoi occhi.
Insieme a loro
però, Jamie, riesce ad uscire dal suo guscio, dal rintanarsi in
camera a giocare dal telefonino, solo: Louis lo porta a vedere i
topolini appena nati, rinchiusi in una scatola, gli prende un cane
per compagnia, perché "ha bisogno di qualcosa o qualcuno con
cui giocare che non siano il telefonino e due vecchi barcollanti".
La notte, quando si
trova a piangere, lo portano in mezzo a loro.
Assieme fanno delle
grigliate in campeggio, nei boschi, osservano le parate cittadine, la
partita di softball..
Sono gesti
semplici, di affetto, di voler prendersi cura delle persone, quelli
di cui il piccolo ha bisogno che, ora non è più un bambino
spaventato ma un bambino che si sente amato.
In questa storia,
oltre agli episodi che vengono raccontati, quello che contano sono i
dialoghi tra i personaggi: parole semplici in cui ci si interroga sul
tempo, sulla morte e sulla vita dopo la morte.
Sui propri peccati
e sulla redenzione da essi, cercando un riscatto anche ad un'età in
cui si ha paura di fare del male alle persone a fianco.
Perché non sempre
è possibile aggiustare le vite degli altri.
Ma nemmeno è
giusto inaridirsi, rimanere soli e ostaggio del volere degli altri, e
non cercare quella mano da stringere, nella notte, per non sentirsi
soli.
La
felicità sta nelle cose semplici:
l'odore degli aghi dei pini, il vento e la campagna, la pioggia che
bagna i tetti, le notti fresche...
Anche se il finale
tronca questa felicità, perché alla fine a vincere sono sempre i
pregiudizi, rimane l'insegnamento che ci lascia Kent Haruf.
Non rimanere
soli nel buio della notte.
La scheda del libro sul sito di
NNEditore
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