28 dicembre 2018

12 dicembre 1969 di Mirco Dondi (Laterza editore)


Fine decennio, punto di svolta 
Milano, Piazza Fontana, sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Alle 16,37 del 12 dicembre 1969 esplode un ordigno che provoca 17 morti e 88 feriti. È il più grave atto terroristico mai compiuto sino a questo momento nell’Italia repubblicana, un’estremità temporale che trancia un’epoca.

La perdita della nostra verginità, la madre di tutte le stragi: la bomba scoppiata nella Banca dell'Agricoltura il 12 dicembre 1969 è stata chiamata in tanti modi, tanto da ridurla ad una formula geografica, per semplicità, come tante altre storie del nostro paese. Piazza Fontana.
L'atto terroristico più grave, fino a quel momento, della nostra storia: una vicenda che ha portato ad una serie di processi che si sono chiusi solo dopo 30 anni, senza nessun colpevole per la magistratura.
Piazza Fontana è la storia delle vittime innocenti, 17 persone che si trovavano dentro l'atrio della banca per concludere delle transazioni che riguardavano terreni, animali o semplicemente per cambiare una cambiale.
Piazza Fontana è anche lo snodo di un'epoca che segna il passaggio da un prima e un poi: l'ambizione spezzata di un paese che chiedeva alle istituzioni maggiori diritti, meno rigidità, le casa per vivere, luoghi di lavoro sicuri dove non ammalarsi.

Il saggio di Marco Dondi si intitola semplicemente 12 dicembre 1969: l'autore racconta la vicenda partendo dalle vittime, chi erano e cosa erano venute a fare in quella banca. Il contesto in cui è maturata la strage:
La Banca Nazionale dell’Agricoltura non è una banca frequentata dalla borghesia agiata che abita nei palazzi circostanti [..] sono presenti tutte le figure che animano queste contrattazioni: fattori, mediatori, semplici agricoltori. Si commerciano bestiame e derrate alimentari,

Poi i nomi dei carnefici che, a più livelli, hanno ideato e realizzato la strage, depistato le indagini, portato l'opinione pubblica verso una certa direzione, proteggendo i responsabili. I neofascisti di Ordine nuovo e Avanguardia Nazionale, i nostri servizi segreti che controllavano e manovravano i neofascisti, (italiani e stranieri) su fino a salire al livello politico che era a conoscenza della verità ma hanno preferito tacere.
Una strage? Perché?”

Questo si chiedevano i milanesi che, con un contegno ammirevole erano tutti lì, raccolti silenziosi sul sagrato del Duomo per dare l'ultimo saluto ai morti.
L'autore lo spiega, quel perché: perché quella bomba, perché quelle morti (volute, chi ha messo la bomba cercava quelle morti), perché poi si seguì inutilmente la pista rossa, gli anarchici imputati inizialmente come responsabili e “il noto Valpreda” come mostro da sbattere in prima pagina sui giornali.

Erano i mesi dell'autunno caldo, dove le rivendicazioni degli operai si stavano saldando con le proteste degli studenti:
La stagione riformatrice, abortita nel 1964 con la minaccia autoritaria del Piano Solo, torna a manifestarsi sospinta dalla pressione popolare. La legge sul divorzio e l'attuazione dell'ordinamento regionale - due provvedimenti da sempre osteggiati dal fronte conservatore - sono in corso di approvazione così come i nuovi contratti di lavoro (quello dei chimici è firmato il 7 dicembre) sono ad un passo dalla chiusura.Si passa dal Sessantotto studentesco al Sessantanove operaio, un condensato di rivendicazioni che in Francia si racchiude nell'intenso maggio del 1968 mentre in Italia si spande nell'anno successivo con maggiore efficacia. L'attivismo della piazze è avversato, con varia intensità, dai principali giornali di informazione. La richiesta di maggiori diritti si innerva anche di aspirazioni rivoluzionarie, specie tra i gruppi giovanili e studenteschi.Il quadro sociale è fortemente polarizzato. Il fronte più conservatore, sfruttando i suoi rivoli interni alle istituzioni, è intenzionato a fermare questo processo non disdegnando soluzioni fuori dalla prassi democratica.D'altronde il contesto della guerra fredda consente informali spazi di azione oltre la legge, al fine di raggiungere un equilibrio politico gradito. E' questo lo scenario che si muove attorno alla strage di Piazza Fontana.

Possiamo leggere il disegno della strage ricorrendo alla metafora dei cerchi concentrici: in mezzo i neo fascisti che attraverso le bombe della primavera estate del 1969, e quella di Milano, intendevano creare un clima favorevole per un colpo di stato analogo a quello avvenuto in Grecia.
In un cerchio più esterno il servizio militare, il SID, e quello del Viminale, l'Ufficio Affari Riservati, da cerniera tra la manovalanza nera e i riferimenti politici, a cui quelle bombe servivano per bloccare la contestazione, per attaccare le sinistre, per tenere fermo e ancorato il paese allo Status Quo e bloccare quelle riforme che avrebbero reso l'Italia un paese moderno.
Quelle persone, le 17 vittime (e gli 83 feriti, tra cui anche un ragazzino di 12 anni ragazzino di 12 anni, Enrico Pizzamiglio), erano solo un danno collaterale nel disegno cinico degli attentatori.
Disegno che era stato spiegato durante il convegno organizzato dall'istituto Pollio, dal giornalista del SID Guido Giannettini e dall'ordinovista Pino Rauti.
Fermate l'avanzata delle forze di sinistra con metodi non ortodossi:
L’inserimento di provocatori in gruppi scarsamente organizzati dell’estrema sinistra punta a spingere queste formazioni verso la violenza, per radicalizzare il quadro sociale

La pista rossa

Fin dalle prime ore gli inquirenti indirizzano le indagini in una direzione ben precisa: la pista rossa che porta ai gruppi anarchici già ritenuti responsabili delle bombe esplose a Milano nella primavera estate del 1969 (bombe di cui invece sono responsabili i fascisti di Ordine Nuovo, come emergerà dopo).
A Milano vengono portati in Questura gli anarchici del Ponte della Ghisolfa, il gruppo di Giuseppe Pinelli.
Ma l'obiettivo a cui puntano sembra ancora più preciso: Pietro Valpreda, ballerino e anarchico, cacciato da Pinelli dal suo gruppo e fondatore di un circolo a Roma, il XXII marzo.
E' lui la persona che ha messo la bomba: ne è convinta la squadra politica e c'è pure un riconoscimento fatto da un tassista milanese che avrebbe accompagnato una persona proprio davanti la banca per essere poi portato poco lontano.
In un riconoscimento poco rispettoso delle forme, Rolandi riconosce in Valpreda questa persona
«Ma mi hai guardato bene?». Rolandi è colto di sorpresa e risponde in milanese: «Se non è lui, qui non c’è». L’avvocato Calvi fa notare che il teste sta ritrattando. Occorsio però non raccoglie l’obiezione e insiste..

Valpreda è il mostro sbattuto in prima pagina.
Mentre Valpreda viene sbattuto in prima pagina sui quotidiani (alcuni dei quali bene informati sui fatti, come il Corriere su cui scrive Giorgio Zicari, pure lui legato al SID), in Questura avviene un episodio che avrà gravi conseguenze: Giuseppe Pinelli, interrogato ben oltre i termini stabiliti dal codice:

Pur di ottenere elementi di prova contro Valpreda, il capo dell’Ufficio politico della questura Antonino Allegra rivolge a Pinelli una pesante minaccia: «Ti darò la prova che tu hai messo la bomba all’Ufficio cambi» il 25 aprile 1969.

Pinelli muore nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, per un malore attivo dice la sentenza del giudice D'Ambrosio, anni dopo.
Forse. Di certo è morto mentre era nelle mani dello Stato, è stato accusato in modo vigliacco dal Questore come implicato nella strage. Pure lui è una vittima della strage.

Il 15 è anche il giorno del funerale delle vittime: la risposta dei cittadini milanese racconta dello sgomento, perché quella bomba. Ma la loro compostezza, il silenzio davanti al Duomo, sono una risposta del paese alle istituzioni.
«Ho voluto dire ai colpevoli che se hanno avuto intenzione di metterci paura, con me e con queste persone non ci sono riusciti», Alberto Grisolia un vecchio militante del Partito d’azione.

In Parlamento nel frattempo la bomba fa discutere: si evoca il 1922, dove le sinistre ora sono simbolo della minaccia alla democrazia (mentre allora erano le squadracce fasciste, lasciate agire impunite).
L’obiettivo dei partiti conservatori e autoritari è saldare il conto con la conflittualità sociale, giudicata responsabile dell’innalzamento della tensione.«Autunno caldo» è definita, con tono allarmistico, questa stagione. I sindacati, supplendo ai partiti, divengono protagonisti, con la stipulazione di nuovi contratti di lavoro, di un'importante manovra di redistribuzione della ricchezza.
La forza della piazza traina verso politiche apertamente riformiste governi solitamente attenti a non perturbare gli equilibri di potere. Socialdemocratici, liberali e neofascisti del Msi accusano il governo di essere stato debole dinanzi alle rivendicazioni sociali ritenendo l'attentato il frutto delle conseguenze dei una situazione lasciata colpevolmente degenerare. E' una corrente di pensiero che va al di là della forza parlamentare di questi tre partiti ed è sostenuta da quasi tutte le testate di opinione, ad accezione di «Il Giorno» e «La Stampa», oltre ai quotidiani vicini al PCI come «Paese Sera» e «L'Ora».

A Roma, mentre in Parlamento si discute se limitare le libertà costituzionali per arrivare ad uno stato di emergenza, in altri uffici, al SID, si prepara il terreno per la pista rossa con prove false.
E' in questa direzione l'appunto del 17 dicembre che arriva ai magistrati dove si parla dell'agenzia Aginter Press, responsabile dei finti manifesti trovati a Milano a rivendicazione della strage.
Nell'appunto, falso, si indica questa agenzia di matrice rossa e si indica «l’anarchico Mario Merlino» come «esecutore materiale degli attentati dinamitardi a Roma».
Falso: si scoprirà poi come Merlino era un fascista legato ad Avanguardia Nazionale che era stato infiltrato nel circolo XXII marzo dai servizi.
La scia di sangue non si ferma con le 17 vittime della bomba: nei giorni successivi avvengono strani suicidi: l’avvocato Vittorio Ambrosini (che aveva scritto due lettere al ministro Restivo in cui si indicava la paternità fascista della bomba); il tesoriere del Fronte Nazionale di Borghese Armando Calzolari (suicida in un pozzo d'acqua di 80 cm). A settembre era morto in uno strano incidente il portiere di uno stabile a Padova, Alberto Muraro, che doveva testimoniare sugli strani incontri che avvenivano in un appartamento di Fachini (consigliere MSI) con gli ordinovisti ritenuti responsabili di una bomba scoppiata nello studio del rettore dell'università Opocher.

Le bombe dell'estate 69 e le bombe di Roma e Milano del 12 dicembre puntavano a creare nel paese un clima di tensione, che avrebbe dovuto portare poi ad una svolta autoritaria nel paese. A questo puntavano i gruppi fascisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Nel progetto ordinovista e missino la strage di Piazza Fontana deve culminare con un cambiamento degli equilibri politici”, doveva tutto culminare con la manifestazione del 14 dicembre a Roma.Si aspettavano infatti “la risposta delle istituzioni – già minate dallo choc di Piazza Fontana – avrebbe portato alla proclamazione dello stato di emergenza”.

Il termine “strategia della tensione” è coniato la prima volta dal periodico inglese Observer che in un articolo dl 14 dicembre: dietro alle bombe l'Observer vede gli eventi politico-sociali del periodo luglio-dicembre ’69.
Una violenza di stato, di cui parla Norberto Bobbio sulla rivista Resistenza, che doveva portare all'insurrezione, per arrivare a nuovi assetti politici.
Magari un modello presidenziale cui auspicava il presidente Saragat e altri esponenti politici socialdemocratici, presenti nell'esecutivo di governo: “progetto sul quale convergono Stati Uniti e Confindustria”.
Abbiamo rischiato un colpo di Stato in quei giorni di dicembre?

Forse anche grazie alla mediazione di Moro e alle incertezze del presidente del Consiglio Rumor, non viene applicato lo Stato di emergenza: verrà garantita la continuità istituzionale, nei limiti della guerra fredda, col pegno che le verità sulla strage arrivate al livello politico saranno tenute nascoste.
Ad intaccare la pista rossa arriva la deposizione del professor GuidoLorenzon, consigliere comunale della DC in un comune di Treviso: amico di Ventura, aveva raccolto le sue confidenze in cui si vantava delle bombe fatte scoppiare a Milano. E anche alla bomba scoppiata alla Banca dell'Agricoltura

Ventura è rivolto alle conseguenze degli attentati: «disse che se né a destra né a sinistra nessuno si fosse mosso bisognava fare qualcos’altro».

L’affermazione di una possibile espansione stragista spinge Lorenzon a rivolgersi al suo avvocato e al sostituto procuratore Calogero.
Da qui parte la pista nera: dal lavoro del giudice istruttore Giancarlo Stiz, dalle parole di Lorenzon e dal sostanziale fallimento della pista anarchica, che si era bloccata ai primi riscontri.


La pista nera e le coperture dei fascisti

Valpreda era sotto osservazione fin dal settembre 1969.
Il gruppo XXII marzo era infiltrato dal SID e dall'UAARR.
Come è possibile che abbiamo allora organizzato e portato a termine quegli attentati?

Quando si cercarono i primi riscontri alla pista anarchica, emersero i primi dubbi: come avrebbe fatto Valpreda a portare due bombe nelle due banche milanesi? Perché prendere un taxi e farsi così riconoscere?
I magistrati non solo erano stati imboccati verso una pista falsa: a loro erano stati sottratti pure delle prove (frammenti della borsa della banca commerciale contenenti esplosivo erano portati via da Russomanno) o non erano arrivate le testimonianze come quella del negoziante di borse che avrebbe venduto le quattro borse Mosbach-Gruber a Padova.

La pista nera parte dal lavoro del giudice Giancarlo Stiz che si basa sulle dichiarazioni di Lorenzon e dalle registrazioni dei suoi incontri con Franco Freda e Giovanni Ventura.
Viene scoperto poi un arsenale in una casa a Castelfranco Veneto nel novembre del ’71 e infine la scoperta di una cassetta di sicurezza, riferibile a Ventura, contenente dei rapporti informativi di Guido Giannettini del SID, in pratica l’anello di congiunzione tra lo Stato e la cellula ordinovista.
Chi sono questi neofascisti? Come hanno potuto agire così indisturbati?
L'analisi delle relazioni esistenti tra Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale da una parte e i servizi dall'altra porta in evidenza una ragnatela inquietante: inquietante per i stretti rapporti tra neofascisti e uomini dello Stato, inquietante perché non si capiva chi controllava chi (i servizi i neofascisti o cosa?).
Digilio, armiere di Ordine Nuovo, era anche una fonte CIA col nome di Erodoto.
Tramonte, sempre ON, era un'altra fonte del SID.
Ci sono i rapporti rivelati da Paolo Signorelli, un alto dirigente di Ordine nuovo, tra Rauti (fondatore di ON) e l'ambasciata americana, il suo ruolo di mediatore per la vendita di armi italiane verso i regimi autoritari di Spagna, Portogallo e Grecia.
Gianni Casalini, “fonte Turco”, dal 1972 al 1975 riferisce al Sid vicende sulla cellula padovana, ma Maletti non trasmette le sue informazioni alla magistratura.

Non solo: sono provati i rapporti tra Ordine Nuovo e lo Stato Maggiore dell'esercito, i servizi americani e l'Aginter Press, l'agenzia di stampa che diversi collaboratori di giustizia indicano come la “centrale nera” dietro a tutte le stragi del 1969-74.
Stragi che, ripetiamo, avevano come obiettivo non un vero e proprio colpo di Stato, ma “un più sensibile spostamento del quadro politico”, mantenendo la fedeltà atlantica.
È proprio la funzione di Giannettini, quale agente del Sid, che induce Franco Freda e Giovanni Ventura a sentirsi coperti dalle conseguenze della loro azione”.

Freda, Ventura e gli altri neofascisti si sentivano così tranquilli per i loro rapporti stretti con Guido Giannettini, l'agente dei servizi “bruciato” da una intervista di Andreotti nel giugno 1974, quando il processo di Catanzaro iniziava a toccare il livello politico.
Fino a questo momento si è parlato di magistrati, investigatori, spioni: ma delle bombe e dei veri responsabili quanto ne sapevano i politici di governo?
Al processo [di Catanzaro] va in scena lo scarico di responsabilità tra il potere militare e il potere politico, ma è l’imbarazzo dei politici ad assumere pubblico dominio.”

Se i servizi sapevano (addirittura Maletti racconta, ora, non ai tempi del processo, di essere stato a conoscenza della provenienza americana dell'esplosivo), sapevano anche i vertici dell'esecutivo a cui i generali del SID rispondevano.
Come il ministro della difesa Tanassi
Tanassi ha avallato tutte le decisioni prese dal Sid (sempre che non ne sia stato l’ispiratore) per coprire o far sparire uomini accusati di essere coinvolti in una strage.”

Andreotti che, come si è detto, diede il nome di Giannettini in pasto alla stampa (confermandone il ruolo di agente), quando al processo di Catanzaro sono tirati in ballo i politici.
Si è detto di Saragat e di Moro, che avrebbero avuto in faccia a faccia il 23 dicembre, una sorta di trattativa per mettere da parte velleità presidenziali in cambio del nascondere la pista nera agli italiani.

Pista nera che verrà percorsa dagli inquirenti milanesi (D'Ambrosio e i sostituti Fiasconaro e Alessandrini) e dai giudici di Catanzaro, dove fu spostato il processo contro Valpreda e sulla strage, per legittima suspicione.
Per evitare disordini e condizionamenti da parte dei familiari delle vittime che si videro così costretti, oltre a sopravvivere col lutto e coi problemi della vita di tutti i giorni, anche a farsi un viaggio di più di mille km per assistere alle udienze.

Epilogo: cosa rimane oggi al termine dei processi
Nessuno avrebbe potuto immaginare un iter processuale così lungo: una catena di rimandi in un’odissea giudiziaria che scavalla i decenni: dal 1979 al 2005 si contano 10 sentenze ..

Dalla prima sentenza di condanna, emessa nel 1979 dalla Corte di Assise, considerata la più vicina alla realtà, che condanna gli ordinovisti e anche Giannettini e rimanda al tribunale dei ministri i politici coinvolti (Andreotti, Rumor, Tanassi).
Tutti assolti, per insufficienza di prove o con altra formula nei giudizi successivi.
Per la giustizia italiana la strage di Piazza Fontana è un delitto senza colpevoli. Anzi no: il secondo processo milanese, nato dall'inchiesta di Salvini (che si basa sulle rivelazioni tra gli altri, di Vincenzo Vinciguerra), si conclude con la Cassazione che assolve ancora i neofascisti (ma non per le bombe della primavera estate 69, quelle sono loro), riconoscendo però Freda e Ventura responsabili ma non più processabili per il principio “ne bis in idem”.

La bomba è fascista: lo sappiamo per quanto detto dai pentiti, Martino Siciliano e Carlo Digilio (che la corte d'Appello di Milano non ha ritenuto però credibile).
Lo sappiamo per le tante similitudini con la strage di Brescia, dove ad un giudizio di colpevolezza si è arrivati (Carlo Maria Maggi e Maurizio Tritone).

Non è vero che i processi non servano: per quanto sia difficile far emergere la realtà a più di 40 anni di distanza, almeno a dei punti fermi si è arrivati.
Chiarire come, per una parte delle istituzioni fossero accettabili quelle morti, per spostare il baricentro politico del paese.
Per impedire un cambiamento nel paese.
Una strage di provocazione, la chiama l'autore: “un crimine eseguito per attribuirne la responsabilità a un altro soggetto politico.”

Anche se l'allora classe dirigente (che spesso si è nascosta dietro la Guerra Fredda) non è stata condannata, non è stata messa sotto accusa, ora sappiamo e abbiamo il dovere di portare avanti questa memoria.
Per il futuro di questo paese e per il rispetto che dobbiamo alle vittime e ai loro parenti, come Carlo Arnoldi:
«Quel 12 dicembre il mondo mi cadde improvvisamente addosso: da ragazzino spensierato che pensava solo alla scuola e al calcio, mi ritrovai coinvolto in una vicenda più grande di me».

La scheda del libro sul sito di Laterza, l'indice coi capitoli del libro
L'intervista all'autore sul sito Letture.org
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