19 luglio 2019

La storia di Paolo Borsellino




La storia di Paolo Borsellino è quella di un uomo dello Stato che credeva nelle istituzioni, di un giudice che credeva nella legge e nella giustizia, nella legge uguale per tutti, non nella legge che tutela solo i più forti.

La storia di Paolo Borsellino è quella di un magistrato coraggioso, che ha fatto il suo dovere fino in fondo, che ha sopportato enormi sacrifici assieme ai colleghi del pool.
Un magistrato che è stato ucciso due volte: la prima volta per mano della mafia (e probabilmente di altra manovalanza) ma su mandati di poteri che vanno oltre la mafia in una strage molto strana, perché seguiva di soli 55 giorni quella del collega e amico Giovanni Falcone, a Capaci.
Strana strage perché Borsellino è stato ucciso una seconda volta dallo Stato, per quell'indegno depistaggio di cui è stato vittima e che fu organizzato dal uomini dello Stato.

..la storia del depistaggio di via D’Amelio: la fabbrica del falso pentito Vincenzo Scarantino, artigiano semianalfabeta, orchestrata dagli investigatori di Arnaldo La Barbera

Ci sono voluti anni e l'autoconfessione di Gaspare Spatuzza affinché si facesse giustizia, di Borsellino ma anche dei balordi condannati (Candura, Orofino e lo stesso Scarantino) per quella finta pista che partiva da un piccolo spacciatore del quartiere di Guadagna che era stato “vestito” come un uomo d'onore da La Barbera e considerato dai magistrati di Caltanissetta (Giovanni Tinebra e i suoi collaboratori, Anna Palma, Ilda Boccassini e Giordano).

Un depistaggio fatto non per conquistare meriti, ma “allo scopo di non individuare i veri colpevoli di quella strage. E i veri responsabili sotto il profilo dei mandanti.”
Sono le parole dell'ex poliziotto Genchi che aveva seguito le indagini seguendo i tracciati dei cellulari dei sospettati.

Non si può, dunque, ricordare Borsellino e non parlare del depistaggio di Stato, della trattativa stato-mafia che ha portato (al momento solo in primo grado) alla condanna di ufficiali del Ros (l'ex capo del Sisde Mori) e di esponenti politici (Marcello Dell'Utri, fondatore del partito Forza Italia).

Ecco perché alla strage di via D'Amelio e alla morte Paolo Borsellino solitamente si dedicano solo poche parole di circostanza: la mafia sconfitta dallo Stato, lo Stato che è stato capace di arrestare tutti i mafiosi colpevoli delle bombe della stagione eversiva di cosa nostra tra il 1992 e il 1993.
Lo Stato ha vinto perché ha sconfitto la mafia militare di Riina e Bagarella .. (e la mafia dei colletti bianchi, la mafia che viaggia a braccetto con la massoneria?)

Meglio non infilarsi in discorsi troppo lunghi, altrimenti gli uomini delle attuali istituzioni, ministri, politici, dovrebbero spiegare come mai Arnaldo La Barbera (su input di chi?) e la sua squadra si inventarono il finto mafioso Scarantino convinto a furia di botte e torture psicologiche a confessare di essere lui dietro l'autobomba in via D'Amelio.
Altrimenti dovrebbero spiegare come mai il magistrato capo di Caltanissetta Tinebra affidò al Sisde di Bruno Contrada le prime indagini sulla strage.
Quel Bruno Contrada poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa su cui la procura di Palermo e Borsellino stesso avevano forti dubbi, per i suoi contatti con mafiosi come Saro Riccobono: contatti che la revisione della Corte Europea dei diritti non ha mai smentito.

Troppe cose non tornano sulla morte di Borsellino: la fretta di quella strage, il fatto incredibile che nessuna bonifica fosse stata fatta sulla via dove risedeva la madre del giudice.
Il fatto che in quei 57 giorni la procura di Caltanissetta non sentì mai Borsellino, non ritenne opportuno convocarlo, nemmeno dopo il suo discorso del 26 giugno a Palermo dove disse, alla folla che lo ascoltava, che i segreti che custodiva li avrebbe riferiti solo all'autorità giudiziaria.
Non torna il depistaggio, certamente: depistaggio che è servito a spostare l'attenzione lontano dai veri responsabili di quella strage, i mafiosi di Brancaccio, per esempio, i fratelli Graviano.
E, dai fratelli Graviano, su su fino ai mandanti a volto scoperto: tutti i politici coinvolti nella trattativa tra stato e mafia (che per anni è stata sminuita, chiamandola “presunta”), nata a seguito dell'omicidio di Salvo Lima e della sentenza del maxi processo, con le condanne definitive all'ergastolo di quel gennaio 1992.
E poi, come in altri delitti eccellenti della mafia (se fu solo mafia) ci sono dei pezzi mancanti: è sempre Genchi ad avere scoperto ma manina che “dopo il «botto» di via D’Amelio, si è incaricata di far sparire il traffico telefonico in entrata sul cellulare di Borsellino. «I tabulati delle chiamate – come ha rivelato Genchi – sono stati sottratti”.

Ci sono poi le telefonate dei tabulati fatti dai mafiosi tramite cellulari clonati:
a utilizzare quei cellulari clonati sono mafiosi, camorristi, ’ndranghetisti collegati a soggetti dei servizi segreti, che Genchi reincontrerà anni dopo in altre inchieste in Calabria.

Cellulari e numeri che partono dai mafiosi (come Gioè e La Barbera) e portano dentro uffici dei servizi, a Roma.
Tra i pezzi mancanti anche la memoria del databank Casio di Falcone, i sigilli rimossi dall'ufficio di Falcone a Roma e l'intrusione sui computer, con la cancellazione dei file.
E poi l'agenda rossa da cui Borsellino non si separava mai e di cui oggi non sappiamo che fine abbia fatto.

Oltre ai pezzi mancanti, c'è anche la memoria di politici e di altri magistrati che è mancata: da Martelli a Liliana Ferraro, che per anni si erano dimenticati di aver parlato col magistrato della trattativa, di cui Borsellino molto probabilmente era al corrente, essendo poi stato informato dagli ufficiali del Ros stesso, Mori e De Donno.
A mancare è stata la memoria dell'ex ministro Mancino (che non si ricorda dell'incontro col magistrato al Viminale, nel giorno in cui Borsellino incontra anche Contrada) ..
Ma la storia della strage va inquadrata in uno scenario molto più ampio e inquietante: la storia delle bombe della mafia del 1992 – 1993 si intreccia alle rivendicazioni della Falange Armata, alla grigia vicenda dei gladiatori che volevano essere messi in pensione senza pagare il prezzo per le operazioni sporche portate avanti in Italia durante la guerra fredda.
Si intreccia con l'esigenza, da parte della mafia (o delle mafie) e dei loro riferimenti politici di un nuovo accordo, di un nuovo equilibrio: occorreva spazzar via tutti i vecchi testimoni della mafia militare, da una parte, e i vecchi politici troppo collusi dall'altra.
Qualcuno dovrebbe spiegare come mai dall'autunno 1993, o dal gennaio 1994, dal fallito attentato allo stadio Olimpico, non sono più scoppiate bombe in Italia.
E forse collegare questo con l'arrivo di Forza Italia, partito fondato da quel compare palermitano di cui Graviano parlava con Spatuzza. Marcello Dell'Utri.

Recentemente si stanno desecretando le audizioni fatte presso la commissione antimafia, nella speranza di fare luce su tutti i misteri insoluti della storia mafiosa.
Forse serviranno a poco ma di certo sentire dalla voce di Borsellino la sua amarezza fa molto riflettere: il sentirsi solo, come molti altri magistrati antimafia, dover arrabattarsi per la scarsità di mezzi e di personale.

Eccolo lo Stato, o almeno una parte dello Stato, che porta avanti un'antimafia solo di facciata: lo stato di quei politici che da una parte parlano di sequestri e arresti di mafiosi ma poi si fanno pochi problemi per le candidature di personaggi poco raccomandabili.
Di quei politici che accettano pacchetti di voti da mafiosi.
Di quegli imprenditori che accettano i servizi di mafia spa per connivenza o perché meno costosi.

No: a 27 anni dalla strage di via D'Amelio non possiamo più accontentarci di una verità di comodo, di una verità dimezzata che si ferma solo ai tre poliziotti della squadra di La Barbera oggi a processo (Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei).
Vogliamo sapere chi c'era sopra di loro e perché è stato organizzato tutta questa messinscena?
Vogliamo sapere perché Borsellino è stato ucciso, perché questa fretta da parte di Riina nell'organizzare l'attentato?

I due giornalisti Lo Bianco e Rizza nel loro libro Depistato spiegano questa fretta con le informazioni che Borsellino aveva sulla strage di Capaci:
Tra i suoi impegni, oltre alla trasferta in Germania, c’era un appuntamento: un nuovo interrogatorio di Mutolo, che gli aveva parlato di Contrada anticipando rivelazioni sui rapporti tra servizi segreti e mafia.

Finché non si farà luce su questi rapporti, su questi segreti e ricatti, lo Stato non potrà essere credibile quando parla di lotta alla mafia.

Tutte le citazioni di questo post sono prese dal libro DepiStato di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Chiarelettere

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