Prologo
Tornava a casa tenendo due sacchetti del fruttivendolo nella destra, nella sinistra una banana che mangiava a gran morsi, aveva calcolato di finirla prima di raggiungere il cestino dei rifiuti avvitato al divieto di sosta, proprio davanti al suo portone. [..] «E’ arrivato questo per lei» le disse Amerigo, il portiere, consegnandole una busta marrone che conteneva un plico voluminoso.
«Chi la manda?» chiese rigirando il pacco. Lesse il nome del mittente, ma non l’indirizzo: Walter Andretti.
C’è la giustizia degli uomini, quella gestita dal codice penale, dalla magistratura, dove le colpe sono stabilite nei Tribunali. E poi c’è una seconda giustizia, diciamo con la G maiuscola, quella superiore. Per i credenti, è la giustizia di Dio: per gli altri è la giustizia degli uomini o, meglio, degli uomini che si auto promuovono a Dio in terra per comminare quelle sentenza che la giustizia dello Stato non è stata in grado (o non ha voluto) di emettere
«.. Sa qual è il problema di chi non crede in Dio?»
«Me lo dica.»
«La giustizia su questa Terra. Non avendo altro ci concentriamo solo su quella. Si divide in giustizia con la G maiuscola e giustizia degli uomini.
In quest’ultimo romanzo di Antonio Manzini si parla di giustizia: quella di cui leggiamo a volte negli articoli di cronaca dove, spesso, i più furbi, i personaggi ammanicati col potere riescono a farla franca sfruttando i cavilli, evitando di rispondere delle loro (presunte) colpe.
Truffatori, corruttori, persone con legami equivoci con la criminalità, assassini che sfuggono alla giusta pena e, dall’altra parte, le vittime, a cui il “sistema”, la giustizia terrena non è riuscita a dare una risposta.
Cosa può portare tutta questa giustizia mancata, che è come subire una nuova violenza? Ce lo spiega Manzini raccontandoci, usando il meccanismo del diario personale, le storie dei due protagonisti di questo romanzo, ambientato a Bologna in questi anni. Storie che per un lungo tratto scorrono su due binari paralleli.
Mi chiamo Walter Andretti, sono un giornalista, e questo è il mio diario, che ho cominciato a scrivere il giorno che mi hanno passato alla cronaca nera. Si accorgerà che oltre al mio diario le ho spedito un manoscritto.
Non è facile diventare cronista di nera, specie se prima lavoravi nella cronaca sportiva, qualche partita di tennis, il campionato locale di calcio. Specie se la tua nuova capa pretende da te ogni giorno un pezzo nuovo, che attiri i lettori, che senza di loro il giornale chiude. Devi stare sul pezzo, anzi, devi anticipare i pezzi degli altri giornalisti, cercando agganci nel mondo delle forze dell’ordine, carabinieri e polizia. Per avere qualche scoop, qualche indizio da mettere nell’articolo, qualcosa che gli altri giornali non hanno.
Tutto questo Andretti lo scopre sulla sua pelle, a cominciare dal delitti Zigon, una persona come tante che è stata ritrovata uccisa da un colpo di pistola, mentre era appartato con una prostituta.
Si aggirava nella penombra dell’appartamento. Le tende tirate, pesanti, doppie, organza e velluto. Polvere sui mobili, macchie di umido sulla carta da parati vicino al soffitto. A quando risalivano? Almeno trent’anni, soprattutto quello vicino al tubo che passava in alto sopra il corridoio.
Carlo Cappai è invece un impiegato nel Tribunale penale: la sua vita da anni scorre sempre seguendo la stessa routine, una corsetta la mattina presto, una colazione nel solito bar per raggiungere poi il suo ufficio, nell’archivio, in mezzo ai faldoni impolverati dei tanti processi celebrati. Ma per Carlo non sono solo quello: i documenti contenenti le assoluzioni o le condanne sono carte che parlano, che urlano
Carlo Cappai da trent’anni passava nove ore al giorno lì dentro, e sapeva che quei faldoni parlavano. Qualcuno urlavaI faldoni urlano per la giustizia che era stata negata alla vittima. Perché il responsabile del male era riuscito a non pagare il prezzo delle sue azioni, come era accaduto tanti anni prima a per il delitto di Giada, un’amica di Carlo, forse l’unica sua vera amica, l’unica con cui aveva un rapporto di intimità che non era sbocciato in un amore. Un giorno, tanti anni prima, era rimasta vittima di una aggressione fascista in una delle tante manifestazioni politiche degli anni di piombo. Il responsabile si era salvato, nonostante l’essere stato riconosciuto per strada.
Se l’era cavata, Luigi Sesti, il figlio del grande avvocato con lo studio più potente della città. Sesti padre era imparentato con quelli che contano..
Eccolo il tarlo, la ragione che ha portato Carlo in rotta di collisione coi suoi, a vivere quella vita in solitaria, a dover sentire quelle urla uscire dalle carte dei processi. E, poi, a doversi sostituire alla giustizia, quella degli uomini, con la g minuscola. Studiando tutte quelle carte nello studio della casa dei suoi dove tutto è rimasto immutato nel tempo. Come Carlo, appunto, che non è riuscito ad uscire dal suo trauma.
Nel
frattempo, nell’altro binario, seguiamo passo passo in quello che
sembra un diario, il lavoro di Walter Andretti nel mondo della nera,
alle prese con un omicidio (quello
di Fabio Zigon) ma senza gli
strumenti per poterlo decifrare, senza alcun appiglio nei carabinieri
che stanno indagando. Scava nel passato della vittima – gli dice la
capa, ma come?
Per
esempio andando nell’archivio del Tribunale a ripescare il
materiale di un processo che si era celebrato anni prima sulla morte
della compiuto anni prima e per cui il morto era finito sotto
processo. Forse
si può ripartire da lì.
In un continuo alternarsi tra le due storie, vediamo da una parte il mite archivista Cappai preparare la sua vendetta, mentre altre voci richiamano la sua attenzione chiedendogli quella Giustizia superiore che gli uomini non erano riusciti a garantire. Altri delitti e altre persone che erano riuscite, con gli agganci giustizie, con bugie e menzogne, a rimanere liberi. Assolti per non aver commesso il fatto, anche grazie ad avvocati come il padre di Sensi o giudici come suo padre
Ecco chi amministrava la giustizia, un coacervo mafioso, clientelare, un pugno di uomini seduti sui cardini del meccanismo che girava solo se e quando volevano loro.
In
fondo, si trova a pensare Cappai, sono solo un ingranaggio di un
meccanismo complesso.
Dall’altra parte vediamo la metamorfosi di Andretti, come il bruco che diventa farfalla, imparare il mestiere del cronista, costruirsi con tanta pazienza le relazioni dentro le forze dell’ordine, imparare ad avere quel giusto pelo sullo stomaco per fare domande scomode. Saper cogliere la notizia per raccontarla su un giornale, dove riportare i fatti dove non necessariamente si deve conoscere il finale della storia
A un giornalista non si chiede un finale, se la realtà il finale non lo svela, il finale non c’è. Quello è un problema degli scrittori.
Arriverà
alle intuizioni giuste, Andretti, perché è stato bravo nel voler
andarsi a leggere le carte, a saper affrontare questa indagine molto
più grande di lui, ad indagare nel passato delle vittime di quegli
omicidi su cui i carabinieri non erano riusciti a trovare il
responsabile.
E così le due storie, i due diari che avevamo
letto uno a fianco dell’altro, si incrociano, fino ad arrivare
all’epilogo finale.
Costruito come un giallo, “Tutti i particolari in cronaca” è molto più di una indagine su un delitti perché l’assassino lo incontriamo sin dalle prime pagine: Manzini ha voluto porre il lettore di fronte allo stesso dilemma che dovrà affrontare il giornalista, fin dove spingersi per fare giustizia? A quale giustizia ci si deve affidare, a quella della legge o ad una superiore?
Non
è l’unica sfida al lettore presente in questo romanzo, dove
epilogo e prologo sono l’uno la continuazione dell’altro, dove
non è facile comprendere dove finisce la realtà e dove comincia
l’invenzione.
Pagina dopo pagina osserveremo la parabola dei
due protagonisti che si troveranno legati assieme da un segreto:
quella verso il basso dell’archivista logorato dalle voci che sente
dai faldoni, logorato dalla sua stessa ossessione.
Il giornalista, in una parabola al contrario, si troverà mutato in cronista vero, di quelli attenti ai dettagli
Non sempre ci azzecchiamo. Spunta il ragazzino, l’inesperta, il giocatore che nessuno considerava e cambia i pronostici, sconvolge gli allibratori, fa gioire il pubblico. Un esempio per tutti: Boris Becker nel 1985, a soli diciassette anni, trionfa a Wimbledon.[..] Non sempre ci azzecchiamo. Ma c’è un motivo: non siamo bravi ad osservare, non guardiamo con attenzione, prendiamo sotto gamba dei dettagli o delle virgole che invece sono fondanti..
Forse sta anche in questa, all’apparenza banale, considerazione, il senso della giustizia: non dimenticarsi che dietro ogni storia ci sono delle persone.
La
scheda del libro sul sito di Mondadori
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Mi raccomando, siate umani