Dalla pandemia non abbiamo imparato niente. Né sull’importanza della sanità pubblica e dei presidi sul territorio, né sui vaccini.
E,
quello che è peggio, non lo ha imparato questo governo:
all’orizzonte non si annunciano manifestazioni come quelle dei
grandi agricoltori, come a dire che ci siamo rassegnati a non
curarci, a perdere un nostro diritto sancito dalla costituzione.
Dopo
il punto sui vaccini e la campagna vaccinale, Report si occuperà di
sanità pubblica, della sostenibilità del mondo della moda e dei
rifiuti tessili in Ghana.
Come stiamo gestendo i
vaccini
Complice
anche un governo diciamo non proprio amico dei vaccini e delle
vaccinazioni, la campagna dei vaccini questo inverno non è andata
bene. Le telecamere di Report sono andate nel Lazio a seguire la
campagna di vaccinazione con gli open day: le siringhe e le dosi di
vaccino ci sono, questa volta, ma a mancare sono i pazienti. A
gennaio erano state inoculate in tutto 2,1 ml di dosi di Pfizer, un
vaccino consigliato soprattutto agli over 60, 18 ml di persone in
Italia: a conti fatti siamo appena al 10% della platea raccomandata,
un flop. Nonostante abbiamo 1 ml di fiale in deposito, i medici hanno
avuto problemi a ricevere le dosi per vaccinare i loro pazienti, come
successo nel Lazio. A pesare su questo “non successo” è stata
l’esperienza passata, sul come il vaccino Pfizer col passare dei
mesi protegga sempre meno.
Secondo quanto racconta
l’anticipazione del servizio, più quante dosi uno fa, più
velocemente scende la protezione dell’ultima dose di vaccino fatta:
“ciò che conta è il tempo trascorso dalla dose precedente non
tanto il numero di dosi che le persone hanno ricevuto” racconta a
Report un ricercatore.
Quando lo scorso maggio eravamo ormai
fuori dalla crisi e centinaia di milioni di dosi erano inutilizzate
la Commissione Europea ha fatto un nuovo accordo con Pfizer, anche
questo rimasto segreto, che doveva mitigare il salasso dei
precedenti.
Il grosso dell’acquisto è stato spalmato fino al
2026 e la possibilità di rifiutare l’acquisto di queste ulteriori
dosi non era proprio contemplata con Pfizer: gli accordi coi vaccini
erano talmente delicati che oggi scopriamo che i dirigenti italiani
in prima linea al contrasto della pandemia avevano paura ad aprirli.
Giulio Valesini su questo punto ha intervistato Giovanni Rezza,
direttore generale della prevenzione presso il ministero della salute
fino al 2023: “ho dato la mia password a chi doveva rivedere i
contratti .. volendo avevo la possibilità di rivedere i contratti,
ma siccome c’erano stati molti spifferi, queste grandi aziende
hanno fior di avvocati. Se
la commissione ti dice di stare molto attenti, perché altrimenti ti
prendi la responsabilità di quel leaks, allora stai
attento”.
Insomma
la paura dei vertici della sanità era l’accusa di essere ritenuti
responsabili di una fuga di notizie, non la gestione della pandemia:
così hanno scelto di non leggerli – spiega il servizio di
Report.
Report
è riuscita ad entrare in possesso dei dettagli dell’accordo
secretato firmato lo scorso maggio dalla Commissione Europea: per il
nostro Paese è
previsto l’arrivo di
ulteriori 36 milioni di dosi, circa 12 milioni ogni anno fino al
2026. Inoltre
abbiamo ottenuto di cancellare ordini per 24,2 ml di dosi, ma non
gratis: è previsto infatti un indennizzo in favore di Pfizer di
circa 10 euro a dose cancellata,
la
multinazionale del farmaco incasserà anche su quello che non vende.
È
vero che c’è stato un risparmio rispetto a quanto prevedeva il
contratto, ma alla fine si regalano soldi a Pfizer: “se la vogliamo
dire così.. il problema è che il contratto è stato fatto su quella
base” risponde Rezza al giornalista di Report, di fatto accusando
indirettamente la presidente della Commissione Europea che, ai nostri
dirigenti della sanità nemmeno ha chiesto quante dosi ci sarebbero
servite: “tutti i paesi acquistano su base di quota capitale,
quindi all’Italia spetta il 13,6%, questo tutela il paese,
l’acquisto centralizzato perché non compriamo a maggior prezzo
rispetto ai grandi paesi europei come Francia o Germania”.
Ma
cosa ne facciamo delle dosi eccessive comprate per il 2023 (circa
10ml, con la vaccinazione arriveremo al massimo a 3ml): “una parte
di queste probabilmente le dovremo buttare ..”
Facendo una
stima possiamo prevedere che delle 36ml di dosi acquistate coi nuovi
accordi, circa 30ml saranno le dosi buttate, raggiungeranno in
discarica le milioni di dosi gettate nei due anni scorsi. Un enorme
sperpero di soldi pubblici per l’Italia: se l’Europa ha comprato
4,2 miliardi di dosi, l’Italia calcolando tutti i vari vaccini sul
mercato ne ha acquistati ben 381 ml di cui almeno 150 ml sono in
eccesso. In questo momento nei magazzini abbiamo circa 21ml di dosi,
di queste, 16 ml anche se non sono scadute non sono aggiornate alle
varianti e quindi sono da gettare. Finora il nostro paese ha già
scartato 46,8 ml di dosi scadute.
Spenderemo
soldi pubblici per qualcosa di cui non abbiamo bisogno e che non
useremo: questo l’errore commesso dalla Commissione col terzo
contratto Pfizer
Il
servizio andrà anche a rivedere l’accordo sui
vaccini
negoziato da von der Leyen nel
2021, che non convinceva alcuni importanti dirigenti italiani: nelle
chat raccolte dalla corposa inchiesta della procura di Bergamo sulla
gestione della pandemia emerse che sul contratti per i vaccini Pfizer
si navigava al buio. Persino Nicola Magrini dell’Aifa si infuriò
su quel contratto perché i dati grezzi non sarebbero stati
disponibili prima del dicembre 2024 e Pfizer non si accollava nemmeno
i rischi legali in caso di eventi avversi. Comprare a scatola chiusa
un medicinale per milioni di persone lo riteneva assurdo: “io non
mi faccio prendere in giro su cose come queste” – scrive Magrini
in chat a Goffredo Zaccardi ex capo di gabinetto del min. della
Salute.
Magrini: “Ritieni che sia normale che i contratti che abbiamo firmato [..] nessuno li abbia letti?”
Zaccardi: “No il ministro ha voluto fare tutto da solo ”
Magrini:“Grazie,
capisco meglio ora. No non vi sono tipologie tipo contratti ma manco
sto capestro che sembra scritto come una presa in giro per analfabeti
con l’anello al naso. . . E sapere chi se ne occupa e come sarebbe
il minimo tra di noi del gabinetto ristretto.”
Magrini
oggi risponde a Report del contenuto di queste chat: “avevo
estratti
di un contratto in cui si prevedeva perché non si potesse avere a
delle informazioni contenute, come poi è stato, quindi ho espresso
un parere personale”.
Una difesa appassionata del tema della
trasparenza, la definisce oggi davanti alle telecamere di Report, ma
ancora oggi, dalla risposta di Magrini si comprende quanto sia
delicata la materia: “se fossi stato coinvolto, avrei potuto quindi
chiedere di partecipare se non interferire, sarebbe anche diventato
complicato.. i vaccini andavano comprati, velocemente ..”
Non
è paradossale che il capo dell’Aifa scopra il contenuto dei
contratti dai giornali? “è stato il percorso di conduzione di una
emergenza in cui è stata l’Europa a comprare e non le singole
agenzie, era sensato che in un momento di emergenza fossero in pochi
a decidere, ed è andata bene..”
La scheda del servizio: UNA DOSE DI TROPPO di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella
Collaborazione Goffredo De Pascale, Alessia Pelagaggi
A quattro anni dall’inizio della pandemia Report farà un bilancio su come sono state usate le dosi dei vaccini contro il Covid e quanto ci sono costate quelle che abbiamo gettato. L'Europa ha comprato 4,2 miliardi di dosi, e con la sola Pfizer ha fatto un mega contratto da 1,8 miliardi di dosi nel 2021, quando le negoziazioni erano dominate dal terrore della malattia e dalla minaccia delle varianti. L’Italia, calcolando tutti i vari vaccini sul mercato, ha opzionato ben 381 milioni di dosi di cui una buona parte sono in eccesso. Ma a quantità così grandi non è corrisposto un prezzo vantaggioso. E oggi paghiamo anche le dosi che non useremo. La Ue ha fatto un accordo con Pfizer: una parte delle fiale di troppo già opzionate le spalmeremo nel tempo fino al 2026, le restanti sono state cancellate ma le pagheremo comunque. Report rivelerà dettagli sinora tenuti nascosti sui contratti con Big Pharma e i negoziati con la Commissione Europea.
Che fine ha fatto Astrazeneca?
Non
c’è solo la questione aperta con Pfizer, i contratti secretati, le
dosi in eccesso, lo sperpero di denaro pubblico. Sul tema dei vaccini
c’è poi il capitolo Astrazeneca, con le tante domande rimaste
senza risposta.
Nel servizio di Claudia Di Pasquale si
racconterà della morte di Augusta Turiaco, 55 anni: si era vaccinata
con Astrazeneca il giorno 11 marzo, morì in ospedale il 31 dello
stesso mese.
La procura ha riconosciuto il nesso causale tra la vaccinazione e la morte, ma l’indagine per risalire ai responsabili di questo decesso è stata archiviata: così i parenti hanno dovuto fare da soli causa ad Astrazeneca, che però si rifiuta di riconoscere questo nesso.
La scheda del servizio: ASTRAZENECA, UN CASO APERTO di Claudia Di Pasquale,
Collaborazione Giulia Sabella, Lorenzo Vendemiale
Il vaccino Astrazeneca è silenziosamente sparito dai centri vaccinali di tutta Europa, dopo che sono emersi sulla stampa dei rari ma gravi effetti avversi. L'Italia ne aveva comprato 40 milioni di dosi, ne ha somministrato poco più di 12, 10,5 milioni sono scadute, mentre il resto lo ha donato ad altri paesi, soprattutto a medio e basso reddito. Quale impatto ha avuto questa storia sulla multinazionale anglo-svedese Astrazeneca? E sulle famiglie delle vittime? A distanza di tre anni sono tante le domande rimaste irrisolte sulle responsabilità del disastro comunicativo di quei mesi.
La fine della sanità pubblica
Stiamo
andando verso un finanziamento della sanità basato su due pilastri –
racconta a Report l’ex ministra Rosi Bindi: il pilastro della
fiscalità generale con il quale si sostiene tutto il servizio
sanitario nazionale, compresi gli stipendi del personale ma compresi
anche i trapianti, i grandi interventi chirurgici, l’organizzazione
degli ospedali, dei distretti. E poi con un finanziamento che non è
meno incisivo per le casse dello Stato, con cui stiamo finanziando le
prestazioni private erogate ad una parte di cittadini.
Una
privatizzazione del servizio sanitario, un passo alla volta.
Di
parere opposto i manager della sanità privata e dei fondi privati,
come Massimiliano Nobis presidente di Metasalute: “il paese ha un
bisogno, c’è gente che non si cura perché non c’è la risposta
del sistema sanitario nazionale” allora siccome il sistema
sanitario non da risposte li facciamo curare dalle assicurazioni
private?
Forse non sarà la fine della sanità pubblica, ma
rischiamo di tornare al sistema delle mutue, dove i libretti sanitari
avevano un colore diverso a seconda del lavoro delle persone - come
spiega ancora Rosi Bindi - “il pacchetto di prestazioni legato a
quel colore [del padre di Rosi Bindi] era inferiore a quello di un
dirigente, ma in questo modo si tradisce la Costituzione, perché
l’articolo 32 della Costituzione dice chiaramente che la salute è
un diritto fondamentale dell’individuo, neanche del cittadino,
neanche del lavoratore..”
La scheda del servizio: SANITÀ A FONDO di Marco Maisano
Il nostro sistema sanitario prevede da sempre la presenza dei cosiddetti Fondi Sanitari Integrativi, la cui funzione è, appunto, integrare ciò che il Servizio Sanitario Nazionale non offre: un esempio su tutti le prestazioni odontoiatriche. In cambio lo stato ha sempre garantito a questo settore importanti benefici fiscali. Negli anni i fondi però si sono allargati e oggi offrono pacchetti sanitari "sostitutivi", in concorrenza al SSN. Le grandi assicurazioni se ne sono accorte e hanno scelto di investire in questo mercato, collaborando con i fondi stessi - e godendo quindi dei benefici fiscali - e acquistando al contempo gli ospedali privati. Nasce così di fatto una sanità privata parallela, finanziata in parte dallo stato. Ma dove trovare i pazienti? Oggi i lavoratori obbligati dai contratti collettivi a sottoscrivere un fondo sono 15 milioni. Donne e uomini che di fatto hanno un'assicurazione sanitaria, e che vivono già oggi gli effetti di ciò che sarà: un'Italia con una sanità sempre più privata.
Chi paga i costi della moda?
Oggi
la moda gira in modo veloce, racconta la giornalista Lucina Paternesi
nell’anteprima del servizio, che parte col ricordo del gioco
“giralamoda”: il modello si chiama fast fashion e significa che
trascorrono appena 15 giorni da quando lo stilista schizza il
bozzetto a quando il capo di abbigliamento diventa acquistabile in
negozio.
“E’ come una gara di formula 1” spiega a Report
il professor Victor Martinez De Albeniz, ordinario di informatica e
tecnologia Iese “ma se analizzi tutti i processi riesci ad
accorciare tutte le fasi ..”, oggi le vendite di vestiti sono circa
il 400% in più rispetto a 20 anni fa, così come sono triplicate le
collezioni, Zara ne propone 24 all’anno, ma anche le altre
multinazionali come H&M ne sfornano da 12-16 ogni anno con
aggiornamenti settimanali.
L’industria della moda produce
miliardi di capi di abbigliamento all’anno – racconta Liv
Simpliciano responsabile ricerche Fashion revolution “in effetti
oggi abbiamo abbastanza vestiti per vestire 6 generazioni di
persone”.
Ma
c’è un aspetto negativo sulla sostenibilità di questo modello
veloce: lo spiega Greenpeace a Report “Stiamo parlando di un
settore che è vorace di materie prime, fa massiccio ricorso di
acqua, per produrre una T-Shirt servono più o meno 2700 litri di
acqua, quella che ognuno di noi beve in due anni e mezzo. Il solo
settore tessile si caratterizza per essere responsabile fino
all’8-10% di emissioni di gas serra, più del settore aereo
marittimo messi insieme”.
Greenpeace ha monitorato i
pacchi che viaggiano per l’industria del “fast fashion” come
spedizioni e resi: i 24 pacchi hanno viaggiato per circa 100mila km,
in due mesi, 14 sono ancora in giro tra centri di distribuzione o
magazzini. I pacchi girano l’Europa utilizzando tanti mezzi di
trasporto, dall’Italia hanno girato per Svezia, Portogallo,Irlanda,
Polonia e Svizzera.
Ci sono dei pacchi, della catena H&M che
sono stati resi in Italia, come quello del test di Report, che ha
fatto 2000 km per essere poi rivenduto in Spagna. Perché non è
stato rivenduto in un centro commerciale in Italia?
La scheda del servizio: GIRALAMODA di Lucina Paternesi
Collaborazione Giulia Sabella, Tiziana Battisti, Federico Marconi
Dal bozzetto dello stilista al capo di abbigliamento, in stock, acquistabile online o in tutti i negozi del mondo, trascorrono appena 15 giorni. È l'industria del fast fashion che negli ultimi 20 anni ha fatto raddoppiare la produzione e moltiplicare le collezioni. Dopo la pandemia, lo shopping online ha fatto schizzare le vendite, a diminuire è solo il ciclo di vita degli indumenti: buttiamo via i vestiti dopo averli indossati appena una manciata di volte. Il modello di business dell'industria del fast fashion si basa su produzioni low cost e a ciclo continuo. Ma anche su spedizioni e resi gratuiti che spingono il consumatore ad acquistare le novità, viste in vetrina o sui social, senza avere una reale necessità. Tutto è gratis, si paga solo ciò che si tiene. Ma che fine fanno i vestiti che rimandiamo indietro dopo averli provati a casa? Assieme all'unità investigazioni e ricerca di Greenpeace, Report ha provato a seguire i nostri resi, acquistati direttamente dai siti internet delle aziende. Dopo due mesi, i risultati di questa indagine sono allarmanti: quasi centomila chilometri in tutta Europa senza neanche trovare un cliente disposto a comprarli. Quanto è insostenibile il mondo del fast fashion? E, soprattutto, chi paga il costo nascosto dei resi gratuiti?
I costi della moda – le ricadute in Ghana
In Ghana i pescatori dalle reti recuperano capi di vestiti usati, oltre ai pesci che poi finiscono sulle loro tavole: parrucche, magliette, stracci di ogni colore, di tutte le marche, raccolgono più rifiuti che pesci, stracci che si incastrano nelle reti e che costringono i pescatori ad ore di lavoro per pulirle.
Report è andata fino ad Accra, alla grande discarica: una volta non era così, racconta un ragazzo al giornalista, da dieci anni a questa parte i rifiuti sono diventati la parte predominante del paesaggio, sulla vita, la laguna è perduta. Qui le persone vivono tra i rifiuti, cercando la plastica, soprattutto bottiglie, la raccolgono e la vendono alle aziende di riciclaggio. Altri cercano indumenti e rifiuti tessili che possono ancora essere recuperati e venduti in altri villaggi: “sono proprio i rifiuti tessili il vero problema, la montagna più alta è quella dei vestiti usati, ci pascolano anche le mucche perché l’erba cresce anche lassù.”
Di fronte c’è l’ospedale più grande della nazione e quando bruciano i rifiuti si alza un fumo che copre tutto e tutti.
La scheda del servizio: SECONDA MANO di Valerio Cataldi e Alessandro Spinnato
Dal 2023 il Ghana è la discarica più grande al mondo di vestiti usati. Ne arrivano 15 milioni ogni settimana producendo da una parte un filo di economia per la popolazione locale, dall’altra un’immane catastrofe ambientale. Per un Paese di 32 milioni di abitanti rappresenta un mercato importante perché parliamo di 200 milioni di dollari di abbigliamento che vengono importati ogni settimana. Il Ghana spende circa 4 milioni di dollari all'anno per raccogliere ed eliminare i rifiuti. Non ce la fa a smaltire i vestiti, che si usurano nell'ambiente fino a formare la discarica più grande del mondo.
Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.
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