18 maggio 2024

Il colpo di spugna, di Saverio Lodato e Nino Di Matteo

 

Trattativa Stato-Mafia: il processo che non si doveva fare

Il colpo di spugna
Tutto cancellato. Tutto inutile. Tutto da rifare. Si poteva trattare con la mafia. Si può trattare con la mafia. Si potrà trattare con la mafia. Lo Stato può scendere a patti col suo avversario ultrasecolare. Non c’è niente di male se lo fa a fin di bene. Cosa nostra resta l’unica organizzazione criminale con licenza di condizionare, intimidire, terrorizzare il suo nemico, alla quale non verrà mai meno la speranza di trovare interlocutori sugli spalti dell’altra sponda.
Che si chiuda un’epoca è pacifico. L’epoca segnata dalla volontà – quantomeno conclamata, quantomeno intrisa di retorica, quantomeno scolpita da milioni di parole – di diventare un’Italia moderna, che sia Europa sino in fondo, capace di saper fare da sola liberandosi per sempre dalla zavorra sporca che per centocinquant’anni l’ha resa socialmente ed economicamente zoppa.

Giudicare e criticare nel merito una sentenza, perfino una sentenza della Cassazione si può e si deve fare, almeno finché saremo dentro una democrazia:

“Rivendico, adesso che la vicenda processuale si è conclusa, il mio diritto a parlare. Le sentenze si devono rispettare, ma si possono criticare” sono le parole di Nino Di Matteo.

La sentenza di cui si occupa questo breve saggio del storico di mafia Saverio Lodato (autore di diversi scritti sulla mafia) e del giudice Nino Di Matteo (che ha sostenuto l’accuso al processo di primo grado a Palermo sulla trattativa assieme ai colleghi Francesco Del Bene, Vittorio Teresi e Roberto Tartaglia) è quella della Cassazione del 27 aprile 2023, che ha messo definitivamente fine ad una stagione giudiziaria iniziata con le stragi di Palermo.

Quello che i giornali, spesso facendo cattiva informazione, hanno chiamato processo alla trattativa, dove però il reato contestato agli ufficiali dei carabinieri, mafiosi, uomini delle istituzioni e politici era quello di “minaccia a corpo dello Stato”.

Le stragi di via D’Amelio e di Capaci in cui morirono i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone assieme alle rispettive scorte (e la moglie di Falcone, Francesca Morvillo), le bombe fatte scoppiare dalla mafia a Milano, Firenze, Roma nella primavera estate rappresentano fasi in cui cosa nostra, l’ala militare facente riferimento a Riina e Bagarella, cercava di condizionare l’azione politica dei governi italiani? Le 91 pagine che hanno motivato la sentenza cancellano tutte le accuse assolvendo sia i carabinieri (assolti “per non aver commesso il fatto”) che i politici (Dell’Utri) che i mafiosi (salvati dalla prescrizione): i giudici hanno scritto, spazzando via anni di indagine e migliaia di pagine dei processi celebrati (in primo e secondo grado), non tenendo conto di altre sentenze passate in giudicato, che non c’è stata nessuna trattativa, né a fin di bene né per ricattare lo stato.

Non solo, allo Stato, alle istituzioni, questi messaggi di ricatto non sono proprio arrivati: si tratta delle bombe della mafia che dovevano far abbassare la guardia alle istituzioni, revocando il 41 bis, chiudendo le supercarceri dove detenere i mafiosi.

Visto, la trattativa era solo un teorema nelle teste dei soliti pm, una solenne “minchiata” (scusate l’espressione ma l’hanno usata altri), ma come si permettono questi giudici di mandare a processo i solerti uomini dello stato che hanno arrestato fior fior di mafiosi?

Gli stessi investigatori che si sono dimenticati di perquisire il covo di Riina (i sui segreti sono poi finiti nelle mani di Provenzano e di Matteo Messina Denaro). Che non sono riusciti a catturare Provenzano a Mezzojuso..

Ecco, in queste poco più di 109 pagine, si sente tutta l’indignazione, la frustrazione, di fronte a questa sentenza: troverete dentro, dettagliati in modo preciso, tutti gli errori di valutazione della Cassazione.

La trattativa c’è stata, prima di tutto: lo dicono gli stessi ufficiali del Ros (Mori e De Donno) quando parlano degli incontri con Ciancimino (referente politico dei corleonesi) mentre era ai domiciliari a Roma

Ecco Mori il 27.1.’98:
“Incontro per la prima volta 
Vito Ciancimino… a Roma, nel pomeriggio del 5 agosto 1992 (subito dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, all’insaputa della Procura di Palermo e del comandante dell’Arma, ndr). L’Italia era quasi in ginocchio perché erano morti due fra i migliori magistrati… non riuscivamo a fare nulla dal punto di vista investigativo e cominciai a parlare con lui: ‘Signor Ciancimino, cos’è questa storia, questo muro contro muro? Da una parte c’è Cosa Nostra dall’altra parte c’è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?’. La buttai lì, convinto che lui dicesse: ‘Cosa vuole da me, colonnello?’. Invece disse: ‘Si può, io sono in condizioni di farlo’… Ciancimino mi chiedeva se rappresentavo solo me stesso o anche altri. Certo, io non gli potevo dire: ‘Be’, signor Ciancimino, lei si penta, collabori che vedrà che l’aiutiamo’. Gli dissi: ‘Lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì e restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa… Il 18 ottobre, quarto incontro. Mi disse: ‘Guardi, quelli (Riina&C., ndr) accettano la trattativa’…”.
Anche De Donno, che aveva condotto da solo i primi incontri con Ciancimino subito dopo Capaci, parlò di “trattativa”: “Gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti di Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto e stragista nei confronti dello Stato, e Ciancimino accettò”.

Lo dicono le sentenze di Firenze (processo al boss Tartaglia), la sentenza Bagarella + 25: la trattativa tra pezzi dello stato e mafiosi c’è stata, senza avvisare l’autorità giudiziaria anzi, andando a sentire alcuni esponenti politici su richiesta dei mafiosi (come ad esempio l’allora senatore Violante).

Se la trattativa non c’è stata come spiegare la revoca (in una strana solitudine) fatta dal ministro Conso del 41 bis a 334 mafiosi?

Come spiegare che i punti del “papello” in parte sono stati soddisfatti dallo italiano? Chiusura delle supercarceri, legge sui pentiti..?

Come spiegare l’avvicendamento al DAP col passaggio da Niccolò Conso ad Alberto Capriotti?

In quelle 91 carte i giudici della Cassazione rinfacciano ai giudici di primo grado e secondo grado, in modo abbastanza singolare, di aver voluto riscrivere la storia: si sono permessi di voler giudicare una serie di fatti (le bombe, gli incontri del Ros, i messaggi fatti arrivare ai boss da Gaetano Cinà e Marcello Dell’Utri, le scelte fatte dai vari governi sul tema della lotta alla mafia) cercando di dar loro un filo logico mettendoli assieme, come facenti parte di un unico disegno. Quello della trattativa.

La Cassazione, raccontano i due autori in forma di intervista, è entrata nel merito del processo, andando a spiegare i singoli episodi spezzettandoli, come si faceva nei processi di mafia prima del maxi processo di Palermo istruito dal pool di Caponnetto (di cui Falcone e Borsellino facevano parte).

Racconta Di Matteo:

“sembra invece risentire di un antico vizio che troppe volte in passato aveva caratterizzato l’approccio giudiziario alle più complesse vicende di Mafia. E in proposito, esistono purtroppo precedenti negativi illustri. Qual è la sostanza della questione? La sostanza è che isolare i fatti l’uno dagli altri, parcellizzare la valutazione, ridurre e sfoltire per principio, concentrarsi sul particolare perdendo di vista il contesto, è prassi diffusa quando non si vogliono assumere decisioni delicate che rischiano di diventare dirompenti”.

Ma nelle motivazioni delle scelte della Suprema Corte non si è nemmeno tenuto conto delle deposizioni fatte nei processi: si scrive nelle motivazioni che le minacce dei mafiosi non erano arrivare fino al livello politico, contraddicendo quando raccontato a Palermo dallo stesso ex presidente della Repubblica Napolitano

Napolitano accettò di essere interrogato dai giudici di Palermo. E qui voglio riportare testualmente la mia domanda e la risposta di Napolitano che, all’epoca delle stragi del 1993, era presidente della Camera dei Deputati.
Gli chiesi: 'Presidente, quali furono ai più alti livelli istituzionali e politici le reazioni più immediate a quelle stragi? Quali furono in quelle sedi, cioè ai più alti livelli istituzionali, le valutazioni più accreditate sulla matrice e la causale di quelle stragi che tanto profondamente avevano scosso il Paese?'.
Il presidente rispose: 'La valutazione comune alle autorità istituzionali in generale e di governo in particolare, fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell’ala più aggressiva della Mafia, si parlava allora in modo particolare dei corleonesi, e in realtà quegli attentati, che poi colpirono edifici di particolare valore religioso, artistico e così via, si susseguirono secondo una logica che apparve unica e incalzante,
per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut-aut, perché questi aut-aut potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure soprattutto di custodia in carcere dei mafiosi o potessero avere per sbocco la destabilizzazione politico-istituzionale del Paese'.”

Nelle istituzioni, ai più alti livelli, quella minaccia veicolata dalle bombe, dalle rivendicazioni della Falange Armata, eccome se era arrivata ed era stata anche ben compresa: un altro ex presidente della Repubblica, Ciampi, nelle sue memorie arriva a scrivere che dopo le bombe del 27 luglio 1993, quando Palazzo Chigi si trovò isolato, arrivo a temere perfino un colpo di Stato.

Altro che trattativa a fin di bene, come scrissero i giudici della corte di Appello (che comunque definirono “improvvide” le azioni dei carabinieri, nella loro scelta sul male minore, l’ala moderata di Cosa Nostra).

Ecco, tutto questo è stato cancellato: è come se la visione “minimalista” dei giudici di Cassazione – secondo Di Matteo e Lodato – abbia voluto dare un messaggio tranquillizzante all’opinione pubblica, ci sono state delle stragi, ci sono stati dei morti, ma tutto si è risolto solo all’interno della cupola mafiosa, inutile cercare altrove, complicità nello Stato, nella politica.

Anche la sola ammissione dell’improvvida trattativa fatta dai giudici di appello poteva essere pericolosa, poteva lasciare nei cittadini una sensazione strana.

Per esempio ci si potrebbe chiedere da dove nasce l’iniziativa di creare il finto pentito Scarantino, poi smontata dal pentito vero Spatuzza. Forse dal bisogno di allontanare i sospetti dai Graviano e dunque da Dell’Utri, fino al governo del 1994, il primo della seconda Repubblica?

Non mi sento sconfitto – racconta a fine libro Di Matteo - Ho cercato solo di fare il mio dovere, mettendo da parte ogni calcolo opportunistico e ogni ambizione di facile carriera. Per questo ancora oggi ho la serenità di chi, con tutti i limiti e i possibili errori, è consapevole di avere contribuito, con altri valorosi colleghi, a far emergere fatti gravi e importanti, a cercare di portare un po’ di luce nei labirinti più oscuri della nostra storia recente”.

Si chiude un’era, una speranza di poter fare chiarezza. La mafia, anzi le mafie, esistono ancora ma sono scomparse dall’agenda della politica. Addirittura la commissione Antimafia presieduta da un esponente di questa maggioranza di destra, ha deciso di voler approfondire le sue indagini SOLO sulla strage di via D’Amelio e SOLO sulla pista del rapporto mafia e appalti del ROS. Ma la tesi che questo rapporto sia alla base della morte del giudice Borsellino è stata già smontata dalle passate indagini. Ancora una volta, anziché seguire il filo unico che lega le stragi per capire il disegno complessivo, ci si concentra su un unico fatto.

Si vuole riscrivere la storia, a proprio piacimento, con tutti i rischi per la nostra democrazia che sappiamo. Aveva ragione Sciascia “Se lo Stato italiano volesse davvero sconfiggere la Mafia, dovrebbe suicidarsi”.

Alla fine del libro-intervista, sono presenti diversi articoli scritti da Saverio Lodato e pubblicati su Antimafiaduemila, sulle sentenze di questo processo e sulle morti dei boss di mafia, protagonisti di questa stagione: Provenzano, il mafioso buono, quello con cui dialogare, che riuscì a vivere da latitante per 43 anni grazie al suo potere (non solo quello mafioso).

Riina, l’autore della sanguinaria “Spoon river” siciliana, le tanti morti per gli omicidi politici mafiosi da fine anni settanta (Giuliano, Mattarella, Chinnici, La Torre, Dalla Chiesa, Costa, Falcone, Borsellino..).

Infine Matteo Messina Denaro, anche lui latitante dal 1993, custode dei segreti di Riina e Provenzano, infine catturato nel 2023. Il boss a cui una certa stampa ha appiccicato la “maschera” del mafioso che si fa i selfie..

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