08 settembre 2024

Quasi per caso, di Giancarlo De Cataldo

Campagna romana, lunedì dell’Angelo, 9 aprile 1849

Il giovane piemontese stringeva la carabina e fissava stordito il cadavere, che se ne stava disteso su un mucchio di fogliame, con le braccia aperte e la bocca atteggiata a un beffardo sorriso. Come se nel prendere congedo dal mondo avesse finalmente realizzato di quale grande inganno – lui come chiunque – era stato vittima. Come se volesse dire a chi restava: E ora tocca a voi. Anzi, tocca a te. Vediamo come riuscirai a cavartela, ragazzo, perché una cosa è certa: dalla mia morte non potranno che venirtene guai.

In questo giallo storico Giancarlo De Cataldo ci porta indietro nel tempo, nelle settimane in cui vide luce la repubblica Romana, nell’aprile del 1949, una barlume di speranza per un’Italia più giusta, “democratica” verrebbe da dire, soffocato poi dall’arrivo delle truppe francesi nel luglio 1849. E’ in questo contesto che si svolge la trama di questo racconto che ha come protagonista il maggiore Emiliano Mercalli di Saint Just, dell’esercito piemontese, reduce dalla sconfitta di Novara che costò l’abdicazione a Carlo Alberto, a favore del figlio Vittorio Emanuele.
Prossimo al matrimonio, scopre che la sua amata Naide, ha lasciato Torino per andarsene a Roma: le motivazioni sono tutte nel biglietto che gli ha lasciato

Sono a Roma. Dove si combatte per la libertà. Raggiungimi. Ti amo

Naide

Donna molto avanti per quei tempi, Naide, per i suoi studi in medicina, per essere stata in America per lavoro, nel sentirsi soffocata dal ruolo che quella società costringeva le donne, solo madri, mogli e angeli del focolare.

Sulla soglia del Florio, Emiliano scambio un rapido cenno di saluto con Isacco Artom, il giovane segretario particolare del Conte di Cavour. Si erano conosciuti durante l'inchiesta sul Diaul, e si stimavano reciprocamente. Artom ebreo, ma per Cavour le questioni di razze di credo erano irrilevanti, se non fastidiose. Carlo Alberto, su suo consiglio, aveva smantellato il ghetto e annullato tutti gli odiosi editti contro gli israeliti. Sotto questo aspetto il Piemonte era uno degli stati europei più avanzati.

Emiliano è disposto a giocarsi il tutto per tutto per riportare Naide a casa, anche a disubbidire agli ordini dei suoi superiori che gli intimano di non pensarsi neanche di finire nel mezzo della rivoluzione romana, con Mazzini e Garibaldi, per non creare problemi a casa Savoia.
Ma il destino, nelle vesti del conte di Cavour, ha in mente per lui un ruolo preciso in questa storia: ricorrendo anche all’inganno, il consigliere del re lo costringe ad accettare un incarico molto particolare. Un incarico che gli arriva niente meno che dal re, il “focoso” Vittorio Emanuele

Emiliano dovette fare appello a ogni sua energia per non saltargli addosso. Cavour. Maledetto. Quella serpe non faceva mai niente a caso. Aveva forse bisogno di qualcosa da lui? E di che cosa? All'improvviso, dall'esterno filtrò una voce tonante.
«È qui? È arrivato?» La porta si spalancò. Fece il suo ingresso un giovane non molto alto, bruno, baffuto, in giacca da camera rossa.
«Benso! Ah, bravo, me l'avete portato, bravo!»
Mentre Cavour si alzava pigramente, senza nemmeno accennare ad accantonare il sigaro, Emiliano balzava in piedi e s'inchinava. Era entrato il re.

Si tratta di riportare a casa Aymone Fleury, vecchio compagno d’armi del re, che si è invaghito della moglie del principe Ottaviani-Augusti, Matilde, che ha raggiunto fino a Roma. Emiliano deve riportarlo a casa, in qualunque modo, perché il re e Cavour hanno per Aymone altri piani, tra cui un matrimonio riparatore.
Mente fine quella di Cavour, un vero animale politico che sa come muovere come pedine le altre persone, ricorrendo anche a degli inganni, come per Emiliano. E, soprattutto, sa come andrà a finire questa breve esperienza di libertà a Roma:

«..Mi auguro che vi portiate qui a Torino quel giovane scapestrato di Fleury prima che Roma sia ridotta un cumulo di macerie» siete così pessimista su Roma Conte?»
«Vedete forse una luce in questo oscurità di altre potenze non permetteranno mai che si radichi una enclave sovversiva nel cuore dell'Europa quindi... il destino di Roma è segnato.»

Arrivato a Roma, Emiliano si presenta a Mazzini con una carta firmata dal conte di Cavour: sono tempi strani, da una parte Mazzini è considerato un criminale a Torino, ma a Roma è il capo di un triumvirato che comanda questa Repubblica, “ed è coi capi che si tratta”.

Eccitazione. Fermento. Questo si respirava nell'aria. La cacciata del Papa, la proclamazione della Repubblica, l'arrivo di Garibaldi: una successione di tumultuosi eventi aveva trasformato in pochi mesi la sonnolenta capitale della cristianità nel teatro del più spericolato esperimento dei tempi moderni. Combattenti da ogni parte d'Italia ed Europa si davano convegno all'ombra del Colosseo innalzando la bandiera della libertà contro l'oppressione dei tiranni. La reazione non si era fatta attendere. Gli austriaci avevano rapidamente ripreso il controllo della Ciociaria a sud, e incombevano dai confini settentrionali minacciando le Marche e la Romagna. Dal suo esilio a Gaeta il papa incitava le grandi potenze a ripristinare l'ordine. La flotta francese veleggiava la volta di Civitavecchia.

C’è poco tempo dunque per questa missione: ritrovare Aymone, ritrovare Naide ma, prima di tutto, incontrare Mazzini per avere quel minimo di appoggio in una città sconosciuta, dove ad uno come Emiliano è perfino difficile comprendere quel dialetto così ricco di significati.
Mazzini si dimostra disponibile ad aiutare il giovane ufficiale torinese: ancora una volta è la politica a guidare certe scelte, la piccola repubblica romana non può inimicarsi il piccolo regno sabaudo, chissà che un giorno possa tornargli d’aiuto.

Il giovane Aymone si trova proprio nella tenuta di campagna del principe Ottaviani-Augusti, la Spinosa: il principe del papa non è diventato all’improvviso un carbonaro, ma anche lui ha intuito che di questi tempi avere in casa un compagno di bagordi del re Savoia può fargli comodo, anche se, come tutti, sa che prima o poi sarà nuovamente il papa e i “reazionari” a comandare.
Ma, una mattina, mentre si prepara una battuta di caccia, il cadavere del principe viene trovato in una radura: accanto al corpo, c’è proprio Aymone, col suo fucile in mano e viene subito portato via dal guardiacaccia e successivamente messo agli arresti dalla polizia.

La missione, già difficile prima, diventa ora quasi impossibile: come fare a salvare Aymone dall’accusa di omicidio? Emiliano non può che affidarsi, oltre agli uomini che Ciceruacchio gli ha messo a disposizione, all’aiuto di Naide.
Così, mentre la città si prepara alla guerra, si preparano barricate, attendendo l’arrivo dei francesi, Emiliano e Naide devono scoprire chi altri avrebbe avuto interesse ad uccidere il principe. Perché Mazzini è stato chiaro: non può salvare l’amico di Vittorio Emanuele, deve dimostrare di sapere amministrare la giustizia, dunque ci sarà un processo regolare e alla fine potrebbe esserci pure la pena di morte.
Emiliano ha a disposizione una strana squadra: Naide, che come medico ne sa molto di più di tanti dottori stimati, un giovane ragazzetto a cui si è affezionato, il riccetto e, alla fine, quando ormai tutto sembra perduto, arriva a Roma anche l’amico Gualtiero, una sorta di Sherlock Holmes torinese.

Sullo sfondo di questa indagine, che troverà una sua soluzione nel finale, compaiono personaggi storici realmente esistiti: non solo Mazzini, ma Carlo Pisacane, Goffredo Mameli e il maggiore dei bersaglieri Luciano Manara che era accorso a Roma a combattere per la Repubblica.
Anche il fotografo Stefano Lecchi che, con le sue fotografie darà un contributo alla soluzione del caso, è un personaggio storico: i suoi “calotipi”, gli antenati della fotografia, rappresentano il primo reportage di una guerra in Occidente.
È invece un errore, ma veniale e perdonabile, l’aver retrodatato la nascita della pasta alla carbonara che, come ammette nelle note finali Giancarlo De Cataldo, ha origini nel 1870.

E’ però reale la descrizione del clima politico di quegli anni, gli anni del Risorgimento poi culminati con l’unità d’Italia: i giochi politici delle grandi nazioni (e del piccolo regno Sabaudo, che pure ambiva ad un suo ruolo in Europa), le grandi aspirazioni e gli ideali che mossero tanti giovani a combattere per la libertà. Uomini e soprattutto donne che volevano liberarsi da quelle catene che le intrappolavano nei ruoli che la società dell’Ottocento (ma per certi versi vale anche oggi) le teneva relegate:

Emiliano doveva ammettere che a Roma in quei giorni si respirava un clima di grande libertà. Molte delle grette convenzioni sociali che regolavano la loro vita torinese lì semplicemente non venivano prese in considerazione. Capiva perché Naide si trovasse così a suo agio. A lei le convenzioni erano sempre risultati odiose.

La scheda del libro sul sito di Mondadori

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