Incipit
"CAPOCRIMINE Il fatto è per stasera alle sette, sette e
mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo
lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si
può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la
trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona
maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice.
Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di
presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi. E la trafila è
andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del
Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in
nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici,
dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi
arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei
fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le
fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella
fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque
continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi
si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci
fosse da piangere.Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i
protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più
fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima
dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani.Non è la prima volta. Nel 1976 – io ero bambino – sono
stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio
don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per
cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci
siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non
guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone
capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana
che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a
Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote
che l’assolve".
Nella postfazione del libro, Gianfrancesco Turano racconta
come la ndrangheta sia stata considerata per anni come un
sottofenomeno di cosa nostra. Anche quando lasciava per terra
centinaia di cadaveri nella guerra tra le cosche degli anni 80.
Perché non aveva un Coppola, uno Scorsese e nemmeno un Leonardo
Sciascia che la raccontasse dal suo interno.
Credo che ora il suo Sciascia l'abbia trovato nell'autore di
questo libro, "Contrada
Armacà".
Un libro dove realtà e fiction si confondono, poiché il racconto
prende spunto da una serie di episodi di cronaca, della città di
Reggio. La città del modello Reggio dell'amministrazione Scopelliti.
La storia delle guerre di ndrangheta. Le guerre all'interno
della procura reggina, magistrati contro magistrati, divisi in
correnti e dove la giustizia viene misurata in base alle statistiche
su arresti e confische di droga. E dove arresti e confische servono
per le carriere dei singoli, come il nuovo procuratore arrivato da
Palermo, il siculo, (Pignatone).
Il dissesto finanziario del comune di Reggio, il suicidio della
collaboratrice più fidata del sindaco (poi promosso governatore) e
la morte di un giovane parrucchiere.
"7 gennaio 2011: Il giovane parrucchiere Giuseppe Sorgonà
viene ucciso all’uscita del suo negozio in via De Nava a Reggio.
Voci non confermate collegheranno la sua morte al caso Fallara".
Orsola Fallara era una dirigente della città di Reggio
Calabria, accusata di aver causato
il buco di bilancio e scaricata dalla
politica locale (l'allora sindaco Scopelliti disse che non poteva
leggersi tutte le carte che gli portavano), si cuicidò ingerendo
diversi bicchieri di acido.
Nel libro i nomi di questi protagonisti cambiano: il parrucchiere
ucciso in un agguato mentre è in macchina si chiama Rosario
Laganà e la dirigente del comune, Oriana. Ma il resto è
aderente alla realtà.
La magistratura che non si è impegnata nelle indagini sul
suicidio della dirigente e che ha archiviato, anche un pò troppo in
fretta, l'omicidio del ragazzo, amico intimo della donna e che stava
per andare in Tribunale a confidare i suoi dubbi sulla morte di lei.
Qualcuno l'aveva spinta? Come mai non sono stati analizzati i
tabulati delle sue ultime telefonate?
Chi non si rassegna alla morte del ragazzo è però lo zio,
Demetrio Malara, insegnante di educazione fisica in pensione e
padre di Michele. Una delle tante morti per lupara bianca della
ndrangheta: ucciso a quindici anni dalla ndrangheta, in un
regolamento di conti fra clan rivali.
"La morte di Michele non era dovuta al suo eccesso di
coraggio, al suo scarso senso del pericolo, all’essere cresciuto
senza madre": Michele era morto per le centomila lire che
aveva accettato, per far da vedetta durante un agguato. Finito male.
Ad indagare su quest'ultimo omicidio turba nemmeno troppo le
coscienze della città (e delle istituzioni) è una strana coppia di
detective: lo zio Demetrio,
insegnate di educazione fisica nel miglior liceo della città
e Fortunato Amato, un suo ex allievo, calciatore mancato e
donnaiolo, che ha dovuto abbandonare la carriera di avvocato non solo
per il suo nome, ma anche per l'arresto del padre.
Fortunato Amato, detto Nato si è trovato un nuovo lavoro,
estremamente redditizio, come produttore di ebook per matrimoni: è
una persona che conosce tutti e può entrare in tutti i salotti a
fare domande. E' la persona giusta per capire chi ha ucciso Rosario,
perché conosce mezza città, soprattutto la parte che conta, anche
le persone che girano col grembiule da massone.
Ma sono domande che iniziano a dar fastidio a qualcuno. E quel
qualcuno si premunirà di lanciare un preciso segnale alla coppia,
con un bel colpo di fucile in un agguato a Monte S. Elia,
mentre Demetrio e Nato erano sulle tracce del comandante.
"Lui è troppo in alto. È l’uomo di raccordo fra noi e
gli americani che l’hanno mandato a controllare il passaggio delle
armi dal porto".
Così, mentre si assiste alla
fine del governo Berlusconi e con lui la fine di un certo blocco di
potere, alla promozione a Roma del siculo (il procuratore capo di
Reggio che ha applicato qui i criteri investigativi imparati a
Palermo sulla mafia) i due investigatori dilettanti devono mettere
fine ai loro propositi.
"Erano partiti da suo nipote Rosario, anzi ancora prima,
dal suicidio della dirigente dell’ufficio Finanze e tributi. Poi
avevano esplorato la pista dei soldi finiti in tasca ai politici,
locali e nazionali, in Italia e all'estero. Poi si erano buttati sui
contatti fra politici e crimine organizzato dentro le logge
massoniche.Adesso passavano ai comandanti toscani con cittadinanza
americana che spedivano borse di Gucci da Gioia Tauro a Roma con la
protezione della Cia".
La ricerca dei responsabili della morte di Rosario, li porta
dentro il gorgo dove è difficile distinguere i confini tra politica,
massoneria e ndrangheta, potere politico locale e nazionale, servizi
italiani e servizi esteri. Un intreccio dove tutto è legato:
traffico della droga e delle armi, il controllo del porto di Gioia
Tauro e l'11 settembre.
«Sai, Nato, sono tutte imitazioni» commentò Malara. «La
grande mafia, il grande terrorismo, è sempre lo Stato. Questi
copiano. Finché servono, li tengono, li fanno pure guadagnare.
Il racconto dell'indagine si alterna alle pagine dove a parlare in
prima persona di ndrangheta, dei contatti con la massoneria e la
politica, del suo ruolo nella strategia della tensione, delle
divisioni nella magistratura sono il capocrimine, il giudice della
direzione distrettuale, il poliziotto onesto.
E' in queste pagine che il lettore viene portato dentro il mondo
delle ndrine, di come funzionano le cose in questa parte del paese (e
non solo qui).
Il traffico di droga?
Si, è un giro d'affari da 24 miliardi per lo più in mano alle
cosche joniche. Basta garantire qualche confisca al finanziere o al
magistrato per farlig fare bella figura e incrementare le sue
statistiche.
Ma altrettanto redditizio e meno pericoloso è coltivare i
rapporti con la politica. Che ti garantisce appalti sicuri.
Come è cresciuta l'importanza della ndrangheta: Turano lo
racconta a fine libro con la cronistoria di questa organizzazione
criminale. Un racconto criminale che parte dai moti di Reggio
Calabria degli anni '70, i tempi del "Boia chi molla",
al periodo dei sequestri di persona. Per arrivare alla nascita della
Santa. La sovrastruttura che mette assieme massoneria
e ndranghetisti, una sorta di camera di compensazione. E i
servizi segreti che avrebbero favorito da una parte la fine dei
corleonesi a Palermo per spostarsi sui calabresi.
La morte del
giudice Scopelliti, che doveva presentare l'accusa in Cassazione, per
il maxi processo, potrebbe essere spiegata così.
«Dagli
anni Settanta – con i moti di Reggio in città, il porto e il
centro siderurgico a Gioia Tauro, la Liquichimica a Saline Jonica –
si è attivato questo circuito, tuttora in funzione, dove le ‘ndrine
copiano lo Stato che copia le ‘ndrine che ricopiano lo Stato.(…)
I sequestri non sono serviti alla ‘ndrangheta per l’accumulazione
primaria di capitale…(…) sono serviti ai criminali calabresi per
costruire rapporti stabili, duraturi e confidenziali con lo Stato e
per mettere lo Stato nelle condizioni di non poter combattere in modo
efficace perché combatterebbe contro se stesso. Ecco spiegato perché
questa città, al momento, non è dello Stato, non è degli italiani,
non è nostra. Se entriamo in un bar, è loro. Se andiamo in un
negozio di vestiti, è controllato da loro. I lidi del lungomare sono
loro. (…) Certo, Reggio ha duecentomila abitanti. Non è Gioia e
non è San Luca. Puoi vivere ignorando il contorno. Puoi passare una
vita a negare la realtà. I reggini respirano ‘ndrangheta, cacano
‘ndrangheta».
Dopo la postfazione, chiude il libro una ricca cronologia degli
eventi, a partire dagli anni 70 fino ad oggi. Il romanzo di Turano è
un continuo mescolare realtà e fantasia, difficile capire dove
finisca l'una e inizi l'altra. Come difficile distinguere il bianco e
il nero, i buoni e i cattivi, lo stato e l'antistato.
Perché la vera forza nella ndrangheta è nei suoi rapporti con la
politica, secondo un rapporto dove è difficile stabilire chi imita
chi.
Difficile scrive di ndrangheta – continua Turano - anche per
colpa dei tanti cronisti che hanno raccontato questa mafia secondo
troppi clichè. I giornalisti embedded, li chiama l'autore. Quelli
selezionati dalle procure, con una patente rilasciata da poteri extra
giornalistici. Il perché abbia voluto raccontare queste storie,
l'autore lo spiega nelle ultime righe:
“è il senso di appartenenza che un calabrese prova per le
sue origini. È una passione feroce, irrazionale, ottusa e nevrotica
proprio perché gli argomenti logici a sostegno del sentimento
scarseggiano. D’altronde, ad amare ciò che è amabile sono buoni
tutti”.
La scheda del libro su Chiarelettere.
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