Incipit
Il caposquadra cercava di muoversi leggero.Si vergognava dello scricchiolio feroce delle scarpe da lavoro sul pietrisco tagliente. Si vergognava della tuta sudicia di grasso e limatura di ferro, del pregno nella stoffa del fumo greve del carbon coke.Oppure era un odore che gli s'era appiccicato sotto la pelle e che nessun sapone e nessuna brusca gli avrebbero mai tolto di d'addosso. Più ancora si doleva della faccia mal rasata.
Dei capelli arruffati dal sudore e dalla polvere. Teneva il capo scoperto, per rispetto.E stringeva il basco nella mano sinistra martoriando con rancore verso sé stesso, per essere in quello stato.Tutto, però, era accaduto in fretta.Camminava, dunque, il caposquadra Gennaro Loiacono, con quel goffo incedere danzante sulle punte sperando che dalle suole non sprizzassero sassi.
Siamo in Calabria, in un piccolo borgo
che si affaccia sul mar Ionio, nel novembre 1924.
Il noir di Gianni Mattencini comincia
con una marcia: un gruppo variegato di persone che cammina su un
sentiero dentro boschi, lungo il corso del fiume.
C'è il caposquadra di un gruppo di
operai che sta lavorando alla costruzione di un ponte di ferro che
passerà sopra il fiume Crati, per portare quel po' di progresso ad
un borgo composto da anziani, pastori, gente che passa la giornata a
vedere passare treni e discutere di donne nell'osteria.
C'è poi una donna, che l'autore
descrive come magra, asciutta, vestita come una donna di città con
un tailleur che le stringe le gambe e che la fa muovere con
difficoltà. Ma che, nonostante le difficoltà del percorso, continua
ad andare avanti.
Infine una persona anziana, don
Adriano, che chiude il gruppo continuando a chiedere al caposquadra
“quando, allora, Gennaro?”.
Dove stanno andando queste persone,
perché non si fermano a riposare?
Stanno raggiungendo il luogo di un
delitto, lungo i binari della ferrovia, dove giace il corpo senza
vita dell'ingegnere Alessi, chiamato a dirigere i lavori per la
costruzione del ponte.
E' stato trovato da un altro operaio,
durante una passeggiata solitaria: ucciso con la gola squarciata e
coi pantaloni abbassati. E con una mutilazione evidente in mezzo alle
gambe.
Un delitto che è anche carico di un
significato preciso.
Come di un uomo che non aveva saputo
trattenere la sua virilità, contenerla nel talamo nuziale: perché
quella donna del corteo, Giorgina, è la giovane moglie.
Ma l'ingegner Alessi era uomo che
andava dietro alle sottane e, si dice, che anche qui a Borgodivalle
avesse una donna che soddisfacesse le sue voglie. Una donna pastora,
Concia, promessa sposa ad un abitante del borgo, latitante per una
fucilata sparata contro il fidanzato della sorella.
Di quel delitto si occupa il brigadiere
dei carabinieri Maisano.
Maisano pativa di un tic all'occhio sinistro.In un istante, le palpebre si stiravano di lato e si chiudevano per metà in un occhietto ammiccante che sembrava a volte assentire a volte contrastare l'interlocutore..
Ma l'indagine sul morto è cosa
difficile: difficile perché in quel novembre freddo e piovoso che
non regala ad operai e militi della benemerita nemmeno qualche
sprazzo di sole nell'estate di San Martino, muoversi in quel bosco
per trovare tracce è compito arduo e sgradito.
Perché in quel paese nessuno parla
volentieri, se non per allusioni.
Ma forse il movente di quell'omicidio è
semplice: se l'Alessi, che si è detto era uno che non si
soddisfaceva da una sola donna, ha cercato di insidiare il pollaio di
qualcun altro, qualcuno come Giasino Corrano, latitante e persona
sanguigna, forse poi il latitante gli ha restituito il maltolto.
Sul delitto investiga anche il
caposquadra Gennaro Loiacono. A modo suo e perché costretto da una
specie di ricatto, una sorta di trappola che gli era stata tesa e a
cui non aveva saputo rifiutare.
“Insomma chi? Chi e perché?” tornava a chiedersi il caposquadra Loiacono, e non si dava pace per la risposta che gli aveva suggerito Spanò, mentre i militari ricomponevano il corpo nella cassa spedita per l'autopsia.
Chi poteva aver avuto validi motivi per
uccidere l'ingegnere Alessi, figlio di Don Adriano con cui Gennaro
aveva negli anni costruito una sorta di confidenza. Tanto da renderlo
partecipe di uno dei segreti del morto.
Un segreto che riguardava l'Alessi e un
altro membro della sua squadra.
Una squadra affiatata composta da tanti
padri di famiglia, un ragazzo giovane con in testa la Torre Eiffel,
Giosuè il gigante e infine Onofrio, cacciatore e socialista.
Ma forse quell'essere socialista è
bene che sia tenuto nascosto: perché siamo nel 1024 e il partito
Fascista ha appena vinto le elezioni, nel modo che conosciamo tutti.
Una legge vergogna. Le manganellate e
le violenze delle squadracce, tollerate da polizia e carabinieri.
E poi c'era stato il delitto Matteotti
e la successiva scoperta del cadavere:
Prima di quel 10 giugno se sembrava che si potesse ancora ragionare di politica. Persino contestare il risultato delle elezioni di aprile, in occasione delle quali le squadre di Cesare Rossi avevano fatto volteggiare assai più di qualche manganellata per orientare al voto degl'incerti.
Dopo 16 agosto, no. S'era fatto tutto più chiaro.
Chiaro che i Dumini si sarebbero moltiplicati e affrancati da responsabilità. Anzi avrebbero preso a mostrare la loro inquietante presenza nei palazzi del potere dai quali, pur essendo omicidi e criminali, sarebbero stati lautamente stipendiati. Chiaro che anche i giornali, dopo il decreto di luglio, avrebbero raccontato soltanto favole belle, rischiando altrimenti sequestri e confische.
E poi, l'idea politica di Onofrio non era una vera passione. Era piuttosto un trasporto, se così si può dire. Una simpatia. La caccia, quella sì, era passione, per lui. Per un'avventura di caccia ne avrebbe affrontati di sacrifici.
L'idea socialista, invece, la poteva tenere segreta. Come una voglia di vino sulla pelle in un posto nascosto del corpo, come una famiglia di verruche sul petto un'altra cosa così. C'è ma non va mostrata. Figurarsi farne la propaganda.
Della caccia si poteva parlarne. Di Bossoli, specchietti per allodole, polveri gelatinizzati e senza effetto di fumo, pallini e cartucce, sì. Certo che sì.
Erano tempi quelli in cui contavano i sentimenti e comportamenti virili. La caccia, dunque, andava bene. E dopo la caccia, la cerca dei funghi, magari.
E poi le donne. Oppure in ordine inverso. Ecco, sì. Questi erano argomenti da mettere in piazza. Il socialismo era meglio lasciarlo in segreto.
Quello imbastito dal magistrato Gianni
Mattencini è un giallo che si muove su ritmi lenti, naturali
verrebbe da dire, come lo scorrere del fiume.
Un giallo che ha al centro la
descrizione dei personaggi, che vengono raccontati attraverso le loro
parole e i loro pensieri. Pensieri che spesso sono un peso sulla loro
coscienza.
Al centro, dell'indagine, del delitto,
dei pensieri silenziosi, il concetto dell'onore.
L'onore che può essere salvato solo
col sangue, se non c'è giustizia a cui appellarsi. Perché si era in
un mondo in cui le differenze sociali erano ancora più nette di
oggi, i cafoni da una parte e i signori dall'altra, cui tutto era
concesso.
La città con le sue luci, le sue
comodità, il progresso.
E il borgo, la campagna, quel posto
forse dimenticato da Dio, visto che anche il prete scendeva solo una
volta a settimana per dire messa. Borgo dove il progresso arrivava
con la ferrovia.
Quella che ci racconta Mattencini è
una storia di inganni e meschinità, di silenzi e di onore da
difendere, di segreti che pesano sulla coscienza e che dunque
non possono essere raccontati a nessuno.
"Calabria, 1924. Il progresso
ha il sapore del sangue".
La scheda del libro sul sito
dell'editore Rizzoli e il pdf
col primo capitolo
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