Prologo
Sono anni che
aspetta questo momento.
Nella penombra
dello studio, seduto dietro la grande scrivania piena di carte che
solo a lui è concesso leggere, l’uomo fissa il telefono da chissà
quanto, incapace di distrarsi, incapace di pensare. La tensione è
una camicia troppo stretta che trasforma ogni respiro in sofferenza.
Il tempo è lento e torbido come l’acqua di un rigagnolo.
Quando arriva il
primo squillo, l’uomo resta immobile.
Un secondo
squillo.
Un terzo.
Un quarto, e lui
ancora non reagisce, come fosse paralizzato – perché sono anni che
aspetta, ma si può mai essere pronti per un momento come questo?
Alla fine l’uomo
si riscuote, afferra la cornetta.
«Quindi?» dice
soltanto, la sua voce stentorea ridotta a un sussurro.
«È morto.»
«Sicuri?»
«Sicuri.»
Questo
romanzo racconta, usando il meccanismo del giallo, la storia di Ida
Dalser, la vittima dimenticata del fascismo, la donna la cui vita
doveva essere cancellata per non macchiare l’immagine immacolata
del duce del fascismo, Benito Mussolini.
Dio
Patria e famiglia: quanto suonano false oggi queste parole
(nonostante siano ancora usata da certa propaganda politica), il
regime fascista mandò al massacro i suoi soldati, portò il paese
alla rovina, mise in catene l’opposizione, tra cui anche alcuni
preti che pagarono con la vita il voler mantenere la fede e non
voltarsi dall’altra parte di fronte ai soprusi, alle violenze, alla
vergogna delle leggi razziali.
Dopo
Geli Raubal, l’Angelo
di Monaco, Fabiano Massimi ci fa un altro regalo: ne “Le
Furie di Venezia” si parla di questa donna, Ida Dalser, che pagò
il prezzo di aver amato Mussolini e di avergli dato tutta sé stessa
con la vita. La sua e quella del figlio, Benito Albino Dalser, il
primogenito di Benito Mussolini che lui stesso riconobbe a
Milano.
Un’altra donna, come Geli, finita stritolata da
quel meccanismo messo in piedi a difesa del leader, perché nulla
possa appannarne la figura immacolata.
VENERDÌ 15
GIUGNO 1934
La luce, pensò
Sauer. Era la luce a fare la magia. Come uno sguardo nuovo posato su
cose antiche, come una mano sicura che afferrasse il vento e lo
tenesse fermo, i gabbiani alti immobili nell’azzurro, l’odore di
salmastro che arriva a folate. La luce sembrava di vetro in quel
mattino caldo e umido di metà giugno, mentre la folla festante
rombava intorno a lui. Eppure Siegfried Sauer – ex soldato sulla
Somme, ex commissario di polizia a Monaco, ex guardiano notturno di
Vienna, ex tante cose e adesso più nessuna – d’un tratto si
sentì solo nella piazza gremita, lambito da un soffio di ricordi che
gli scompigliava i capelli ingrigiti e gli arruffava cuore e
pensieri, sussurrandogli un nome che era insieme promessa e
rimpianto, e che sempre, sempre lo spingeva avanti, anche in un
giorno come quello, anche a un passo dalla fine.
Rosa.
Attenzione,
questa non è una biografia, per raccontarne la sua storia l’autore
ci porta a Venezia, nel 1934, anno decimo dell’era fascista, dove
incontriamo nuovamente l’ex commissario Siegfried Sauer e i suoi
compagni, Sandor, Mutti e l’antifascista italiano Livio. Hanno
deciso di essere loro gli artefici del destino del mondo, dopo aver
visto coi loro occhi di cosa è stato capace il partito nazista di
Hitler in Germania: l’insabbiamento dell’indagine sulla povera
Geli, la nipote del fuhrer, poi l’incendio del Reichstag, nel 1933
(I
demoni di Berlino), con la fine della repubblica di Weimar e
l’arrivo al potere di Hitler.
Il Duce a Venezia
per accogliere Hitler.
La Storia quel
giorno passava da lì.
Tutti questi
dubbi, tutta l’ansia che ne germinava, invasero l’ex commissario
nello spazio di pochi istanti, quanti ne servirono a Livio per
ricevere la risposta dalla cupola e girargliela con altri due lampi
di luce.
Sauer respirò.
Occorre uccidere i
due dittatori quando si sporgeranno assieme dal balcone del museo
Correr: è il prezzo da pagare per salvare l’Europa da lutti ben
peggiori. Due colpi sparati dal cecchino ungherese Sandor dalla Torre
dei Mori e tutto sarà finito. Compresa l’alleanza tra i due
condottieri del mondo..
Ma qualcosa nel loro piano non va
secondo i piani: l’ego di Mussolini o forse un cambio nel
programma, fa saltare tutto, dal balcone esce solo il faccione del
duce, che arringa la folla con le solite parole piene di retorica,
l’Italia e il fascismo in quel momento la fanno ancora da padroni
nei confronti dei nazisti, a Hitler in quella scenografia è dato
solo un ruolo da comparsa, ma le cose sarebbero cambiate a
breve.
Siegfied, Sandor e Mutti si ritrovano così la sera a
discutere del loro fallimento, deciso comunque ad andare avanti: ma
se è stato il caso a salvare i due dittatori, è sempre il caso che
li mette sulle tracce di una nuova storia.
Una storia che
apparentemente sembra l’ennesima invenzione su Mussolini, tanto è
incredibile: riguarda le voci su un suo figlio, avuto da un’altra
donna, non la brava casalinga Rachele.
Seguendo Mussolini lungo
i canali di Venezia, approdano all’isola di San Clemente, dove ha
sede un manicomio femminile.
Quella storia, che girava nelle
taverne, che veniva sussurrata sottovoce per non finire nelle grinfie
della polizia politica del regime è vera: Sigi, Mutti e Sandor
riescono ad infiltrarsi nel manicomio, a spulciare gli archivi delle
persone in cura e ad arrivare a questa donna, così importante tanto
che la sua cartella è stata fatta sparire..
Chi è Ida Dalser e
perché deve essere tenuta così nascosta al mondo e agli italiani?
Qual è la sua storia? Qual è il suo segreto?
Ce lo
racconta lei stessa, nelle trascrizioni dei dialoghi tenuti col suo
psichiatra: la storia della sua vita, quella di una donna determinata
che riuscì prima della guerra a costruirsi una fortuna col suo
salone, a Parigi prima e a Milano poi. Dove conobbe per la prima lui.
D. Che conobbe
chi?
R. Ma lui. Chi altri? Benito Mussolini, al tempo direttore
dell’Avanti! Era il 24 febbraio del 1914.
Il giorno più
felice della mia vita, e insieme il più disgraziato.
Fu
Ida Dalser, è questa è la storia non il romanzo, a dare i soldi a
Mussolini per fondare Il popolo d’Italia, dopo essere stato
cacciato dal partito socialista e da direttore de l’Avanti, per il
suo cambio di posizione sull’interventismo.
Mussolini doveva
tutto a Ida, ma la nascita di
Vittorio, primo figlio
maschio da “donna” Rachele, mise fine ad ogni sua speranza. E
decise anche della sua vita e della vita di quel figlio nato nel
1915. Albino Benito Mussolini.
Forse
c’è modo di stroncare il fascismo andando a liberare questa donna
dalla prigionia, forse se il paese sapesse la sua storia il consenso
del fascismo nella popolazione crollerebbe, come tutto il teatro
messo in piedi dalla propaganda. Sauer è un idealista, la storia di
Geli, l’incendio del Reichstag lo hanno segnato profondamente: le
ferite che hanno lasciato nella sua anima possono essere sanate solo
cercando fare giustizia, anche a prezzo della loro vita.
Se non
può salvare Ida, per la protezione stretta a cui è sottoposta dal
regime, c’è almeno un’altra vita da salvare, quella di Albino.
Questa è una promessa che Sigi Sauer è disposto a mantenere ad ogni
costo.
Mercoledì 26
agosto 1942
Non sembrava di
essere appena fuori Milano, alla fine di un agosto torrido come
pochi, nel cuore di una guerra che infuriava ormai da anni senza
alcuna fine in vista.
Otto
anni dopo il racconto ci porta a Milano: la guerra è arrivata e,
anche se è ancora lontano, si fa sentire sulla popolazione, anche
sui quanti avevano esultato due anni prima con l’annuncio roboante,
Vincere e vinceremo!
Sono arrivate le bombe, i razionamenti, le
tessere per comprare il cibo, la borsa nera di chi si approfitta
delle disgrazie. Le leggi fascistissime, la repressione del regime
contro chi si azzarda a pensare come un uomo libero. Nessuno crede
più alle prime pagine dei giornali che, in quei mesi, raccontano
ancora della celere avanzata verso Stalingrado.
Sembra di essere
catapultati in un’altra storia: a Milano incontriamo il commissario
Fausto Armeni, della sezione politica della polizia, mentre sta
andando a visitare la moglie, curata nel manicomio di Mombello. È
successo qualcosa di terribile al loro bambino, non sappiamo bene
cosa, ma questo ha scosso profondamente le loro vita, specie quelle
di Margherita.
«Era
il mio bambino» disse lei in un fiato di voce, gli occhi fissi sulle
mani.
«Io non volevo.» «Lo so» rispose Armeni, mentre
l’infermiere la conduceva via..
Qui, ed è ancora il
caso, artefice dei destini delle persone, ad intervenire: nel
giardino del manicomio incontra un paziente che è appena scappato.
Si tratta di un “giovane vecchio”, tanto il suo corpo presenta i
segni della sofferenza
Armeni vide il
collo che ne spuntava, sottile come il polso di un ragazzo, e appeso
al collo un volto cereo ed emaciato. Albino, si disse. Il paziente
scomparso.
Chi è questo
paziente? Come mai c’è una camicia nera, un pezzo grosso del
partito, che segue la sua cura nella struttura? Armeni è pur sempre
un poliziotto, uno che non può non interessarsi ad enigmi come
questi, specie in un momento così difficile della sua vita, a causa
della malattia della moglie.
Sembra un’altra storia ma è la
stessa storia: perché quel bambino è proprio Albino Dalser.
Forse,
per Sigi Sauer e i suoi compagni di lotta, c’è ancora modo di
poter rispettare quella vecchia promessa fatta a Venezia quasi otto
anni prima.
Salvate mio figlio..
Mescolando finzione
letteraria e storia, Fabiano Massimi ci porta dentro uno dei misteri,
anzi uno dei tabù, della storia del fascismo. Tanto era la paura del
regime, e di Mussolini, per questa donna, Ida Dalser, la prima moglie
di Mussolini, da averla reclusa in un manicomio, non come pazza, ma
come persona pericolosa per il regime. Tutto doveva essere
cancellato, distrutto: i suoi documenti e anche il suo corpo, sepolto
in una fossa comune sull’isola di San Clemente nel 1937. Ancora
oggi, se non ci fosse stato il film di Bellocchio del 2009, Vincere
(con una grandissima Vittoria Mezzogiorno), e un documentario su Rai
Storia, ne sapremmo poco della sua vita. E ancora peggio è andata al
figlio di Ida, Albino, tolto alla madre, affidato ad un gerarca
fascista (che grazie a questo fece una fulminea carriera),
allontanato dai parenti, fu anche lui rinchiuso in un manicomio, a
Monbello, dove morì nell’agosto del 1942.
«Le Erinni»
disse Menzio. «Anche note come Furie. Esseri sovrumani animati da un
unico scopo: punire i colpevoli, vendicare i torti. Erano divinità
della giustizia, ma di una giustizia estrema, violenta.
Le
Erinni, nella mitologia romana Le Furie (da cui il titolo del
romanzo), erano la personificazione divina della vendetta,
soprattutto contro chi colpisce i propri familiari o i propri
cari.
Se la vendetta contro il regime non ha più senso di
essere, è bene almeno che questa storia sia raccontata ancora oggi,
anche in forma di romanzo. Perché nessuno dimentichi cosa anche è
stato il fascismo. Un padre padrone che ha ucciso i proprio figli,
non solo in senso letterale.
“Come la sua vicenda, anche il
suo corpo è stato cancellato. Eppure la sua storia non è stata
dimenticata, le storie tornano sempre fuori, le storie non possono
essere cancellate” – ci spiega Fabiano
Massimi in questa presentazione del libro.
Domandatevi, voi
che mi leggerete, se meritavo questo. Se qualcuno abbia mai meritato
ciò che fecero a me e a mia madre. Eppure è accaduto. Eppure è
accaduto. Ecco allora le mie ultime parole.
Tutto questo è
successo davvero. Non lasciate che succeda di nuovo. Non lasciate che
sia dimenticato.
PS:
non lo sapevo e l’ho scoperto leggendo le pagine di questo romanzo,
ma il famoso quadro di Bocklin, l’Isola dei morti è stato ispirato
dall’isola di San Michele, il cimitero dei veneziani.
La
scheda del libro sul sito di Longanesi,
le prime
pagine del libro.
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