È il più grave caso di inquinamento di una falda idrica in Europa, che coinvolge 350mila persone nel Veneto. Si tratta dell’inquinamento per PFAS da parte di dell’azienda Mitemi: ma oggi altre regioni, altri corsi d’acqua sono inquinati da PFAS, la cui bonifica ci costerà cara, non solo in termini economici.
Ma ci sono alternative ai PFAS nell’industria?
L’inquinamento da PFAS in Veneto
Il legame tra l’atomo di Carbonio e quello di Fluoro, alla base dei PFAS, è indissolubile, furono inventati ai tempi del progetto Manhattan e oggi sono usati ovunque, dalle padelle antiaderenti ai tessuti.
In Veneto la Mitemi è oggi a processo per l’inquinamento di una falda, per le mancate bonifiche: il più grande processo per reati ambientali ma, come racconta Philippe Grandjean (chiamato a testimoniare al processo), i PFAS stanno già creando danni mortali nella popolazione.
I PFAS passano dalla mamma al feto, che viene intossicato già nel grembo: le mamme nel Veneto si sono così associate per poter avere acqua pulita, sono le mamme no-pfas, che Presadiretta aveva incontrato sin dal 2016.
Chiedono alla regione la bonifica di questa zona, perché questa azienda ha avuto grandi profitti e le bonifiche sono ancora a carico del pubblico. Non solo, la fabbrica continua a sversare inquinanti nella falda.
I bambini nati qui hanno valori di colesterolo alto, problemi di diabete, problemi alla tiroide: “sappiamo di avere una bomba ad orologeria dentro”, dice a Presadiretta una mamma.
Il professor Grandjean spiega meglio i rischi dei PFAS: “queste molecole [del PFAS] non si rompono perché servono temperature di almeno mille gradi per distruggerle.. questi inquinamenti possono aumentare il colesterolo, contribuire al diabete e all’obesità, influenzano la funzione della tiroide, la fertilità, forse anche il sistema nervoso centrale. In una gravidanza possono causare aborti spontanei o un basso peso del bambino e certamente i PFAS aumentano il rischio di cancro ai reni, probabilmente anche al seno e ai testicoli e alla vescica. Perché agiscono sul sistema immunitario che ha l’importantissima funzione di eliminare le cellule disfunzionali, quindi il nostro corpo non si può difendere dal cancro.”
L’agenzia internazionale del cancro ha confermato le parole di Grandjean: una pessima notizia per le persone che queste sostanze, i PFAS, le hanno già nel sangue. E i bambini, ancora nella placenta, hanno dosi ancora più massicce.
I ragazzi dentro la zona rossa in Veneto devono sottoporsi a degli screening, in particolare per capire l’impatto sulla loro fertilità: i PFAS non solo uccidono, ma tolgono anche il futuro a questo territorio.
Servirebbe un rapporto epidemiologico completo per stabilire la correlazione tra PFAS e malattie: ancora non c’è, nonostante regione e ministero avessero lavorato assieme nel 2018, ma poi tutto il lavoro fu fermato. LA regione – racconta il dottor Crisanti – ha scelto di non vedere, per non dover prendere delle decisioni.
Ma questo disastro era evitabili? I primi studi sul PFAS erano noti dagli anni 70: gli effetti avversi erano noti, purtroppo, in base a studi sugli animali e sugli uomini. Sono studi fatti dalla 3m e dalla Dupont, condivisi alla Mitemi: la Dupont iniziò ad acquistarlo dalla 3m, ha incrementato la produzione
Ma l’inquinamento da PFAS non è limitato alla sola regione Veneto, dove i pFAS continuano a distruggere l’ambiente.
Francesco Bertola è il presidente dell’ISDE in Veneto: a Presadiretta racconta di come l’inquinamento continua ad andare avanti anche solo perché l’acqua del rubinetto viene usata per innaffiare l’orto. Ad essere inquinata non è solo l’acqua, il terreno, nel cibo.
A Monza, all’istituto del CNR che analizza le acque inquinate, hanno analizzato le acque di un pozzo di una abitazione nella zona rossa: l’acqua inquinata contamina i cibi se usata per la cottura, se usata per pulire gli ortaggi. Non c’è scampo al PFAS, anche se si abita lontano dai luoghi inquinati, perché sono tanti i prodotti realizzati con i PFAS.
Mobili trattati con PFAS, il cartone della pizza, le padelle, la tappezzeria (perché non assorbe l’acqua), nei vestiti, nelle carte da forno, la carta igienica.
Il forever pollution project, uno studio promosso da Le Monde ha rivelato che il PFAS è diffuso in tutta Europa: la mappa dello studio copre tutto il continente, la sua rimozione richiederebbe cifre enormi, sarà la bancarotta della società moderna, anche gli stati ricchi andrebbero in default.
In Italia ci sono gli inquinamenti nelle zone dove erano presenti industrie chimiche, ma ci sono tracce di inquinamento anche in Toscana.
A Pistoia nel distretto dei vivai, a Prato nel distretto tessile, a Pisa dove si lavora il cuoio a San Miniato, il distretto conciario in zona Santa Croce sull’Arno e infine il distretto cartaio a Pisa.
In tutte queste zone, in tutti i campioni sono state trovate tracce di PFAS, dove gli impianti di depurazione sono inefficaci nel filtrare queste molecole.
Giuseppe Ungherese di Greenpeace racconta del far west normativo in Italia, non esistono dei vincoli per legge per i PFAS, perché la politica ha sempre sottovalutato questo problema.
Ma anche in Europa non si sta bene: servirebbe una legge europea per vietare il PFAS in toto, ma le aziende stanno facendo pressioni per bloccare questa legge. L’Italia non sta facendo pressioni per fare questa legge, nonostante proprio nel nostro paese sia avvenuto il grave caso di avvelenamento in Veneto.
Ma l’industria continua a lavorare coi PFAS: in Piemonte la Solvay è al centro del caso di Montecastello, ad Alessandria.
Qui l’ARPA ha trovato PFAS nei pozzi della zona e nell’acquedotto: sono i fluoruri di nuova generazione prodotti dalla Solvay stessa, l’azienda sostiene che sono meno dannosi.
Il comune aveva speso 400mila euro per costruire questo pozzo che ora non può essere usato, ma l’azienda non si ritiene responsabile (spiegando di essere troppo distante dal pozzo), aggiungendo di ritenere sicuro il limite di 7 microgrammi/litro. Ma Solvay non può sostituirsi ad Arpa o ai medici: i ricercatori del CNR stanno lavorando sul caso di Montecastello non credono all’azienda e ora hanno deciso di monitorare l’acqua dei fiumi, le uova dei pesci e in generale degli animali che si muovono attorno a questa zona.
La contaminazione da PFAS è confermata anche da ARPA Alessandria: sono presenti nell’aria, nell’acqua e nei terreni anche lontani dal polo industriale. In assenza di valori limite di riferimento non c’è modo di stabilire quanto ampia sia l’area inquinata.
Questo inquinamento dell’aria e dell’acqua porta patologie al fegato, tumori renali, problemi a carico dei bambini: lo racconta a Presadiretta l’epidemiologa Cristiana Ivaldi dell’Arpa Piemonte – “mi dispiace quando si sente parlare dell’Ilva e si dice, ma come si è arrivato a questo? Si è arrivati per inerzie di anni di chi doveva controllare e non l’ha fatto, chi doveva intervenire e non l’ha fatto . A noi interessa tutelare la salute delle persone e quindi se qualcuno dice che non c’è niente, approfondiamo, se non troviamo niente non c’è problema. Io se mi fermano ad un posto di polizia e ho la coscienza pulita, non ho paura a fermarmi per farmi controllare”.
Cristiana Ivaldi aspetta il mandato della regione per proseguire l’indagine epidemiologica: ma in Piemonte come nel Veneto questa indagine manca, così le analisi sulla salute degli abitanti di Spinetta, a ridosso dello stabilimento della Solvay, arrivano da un team giornalistico belga.
Oggi contro questo inquinamento si stanno mobilitando i comitati dei cittadini, come quelli di Spinetta: sono persone arrabbiate contro le istituzioni, ma anche preoccupate perché questo inquinante c’è ma non si vede.
Chiedono lo stop dell’azienda Solvay, una legge nazionale sullo sversamento di inquinanti nelle acque dei fiumi e nell’aria.
Di fronte a certe malattie non si può far finta di niente – racconta una ragazza di Spinetta i cui genitori sono morti per tumore – come faccio a fare un figlio qui?
L’indagine epidemiologica al momento non è stata fatta – racconta il sindaco di Alessandria – perché mancano i soldi e perché non avrebbero gli strumenti.
Nel frattempo la regione sta facendo un’analisi muovendosi a cerchi concentrici, partendo dagli abitanti a ridosso dello stabilimento: come mai si sono aspettati cinque anni, però?
L’assessore all’ambiente in Piemonte spiega che già a marzo dovrebbero arrivare i primi dati, ma il tempo passa e gli inquinanti restano.
Già
nel lontano 2007 uno studio europeo sospettava che la multinazionale
Solvay contaminasse le acque del Po col il PFOA,
il composto ora vietato in quanto ritenuto cancerogeno. Presadiretta
ha rintracciato l’autore dello studio Michael Mc Lachlan: “abbiamo
prelevato campioni dai principali fiumi europei e abbiamo calcolato
il contributo totale di tutti questi fiumi, la quantità totale di
PFOA che entrava negli oceani e abbiamo scoperto che il fiume Po
contribuiva per i due terzi al totale di tutta l’Europa o, in altre
parole, che c’era il doppio di PFOA che scorreva nel fiume Po
rispetto a tutti gli altri fiumi che avevamo studiato tutti
insieme”.
Perché il PFOA era nel fiume Po?
“Eravamo
sicuri che ci fosse una fonte industriale perché i livelli erano
così alti e poi abbiamo identificato Solvay come probabile fonte di
queste sostanze chimiche, perché sapevamo che produceva sostanze
chimiche perfluorurate per quel bacino idrografico. Solvay era un
partner del progetto in cui eravamo coinvolti, così gli abbiamo
scritto informandola dei nostri risultati e chiedendole di indagare.
Ci hanno risposto con una lettera in cui spiegavano che la loro
azienda non poteva essere la fonte della contaminazione ”
Secondo l’azienda le fonti di inquinamento erano plurime, negando le loro responsabilità: dopo quella lettera, però, Solvay non mandò altre comunicazioni a Mc Lachlan. Solvay sapeva, dunque, era già stata avvisata dei rischi nel 2007.
Nella lettera a Presadiretta Solvay scrive di voler dismettere l’uso dei PFAS. Ma la battaglia per distruggere i PFAS è lunga e costosa
Presadiretta ha visitato la centrale idrica Acque Veronesi, di Madonna di Lonigo a Vicenza, nell’epicentro dell’inquinamento per PFAS. Fornisce acqua potabile ad un bacino di 50mila persone, sono stati i primi a pulire l’acqua da PFAS installando dei filtri a carbone attivo, ricavati dalle noci di cocco. Nella centrale ci sono 20 filtri, enormi, ciascuno contiene 13mila kg di carbone attivo, che continuano a depurare le acque che continuano ad essere ancora inquinate.
Ma i filtri costano, circa 1,5 ml di euro l’anno, perché i carboni attivi devono essere cambiati spesso (una volta al mese): tutto questo è a carico dei contribuenti in bolletta. C’è poi il tema della rigenerazione dei filtri, per distruggere le molecole sul carbone (con processi che richiedono temperature molto elevate) e poterli riusare e anche questo ha un costo.
Al Politecnico di Milano la dottoressa Silvia Franz sta studiando processi alternativi per distruggere il PFAS: si studia il biossido di Titanio, per degradare i PFAS, arrivando a del materiale di scarto su cui si stanno facendo analisi per capire quanto siano ancora inquinanti.
Il
tema delle bonifiche è sentito anche in Danimarca, dove Presadiretta
ha visitato il più grande centro di studi sul PFAS (PFAS test
center): il centro sorge accanto ad un centro di addestramento per
vigili, che scaricava nel fiume le schiume dove era presente questo
inquinante.
Si studia la cattura di PFAS tramite bolle d’aria
presenti nell’acqua: qui lavora il professor Dondero, che sta
lavorando sui PFAS a catena corta, composti più difficili da
rilevare e su cui si conosce poco dei danni che possono provocare.
A Presadiretta il professor Dondero spiega che va regolato sia l’uso a breve termine, che gli impatti nel lungo termine, cosa succede nei terreni se rimane questo inquinante per anni.
Va limitato l’uso del PFAS, adesso, anche in luoghi un tempo incontaminati, come l’Artico, dove ad essere contaminati sono le persone e anche gli animali. Tutta la catena alimentare ha al suo interno i PFAS: perché le persone devono pagare questo prezzo, noi non abbiamo inquinato questi territori – racconta il dottor Grandjean a Presadiretta – ritrovato nelle isole Far Oer.
Un mondo senza PFAS è possibile: si possono fare pentole antiaderenti, giacconi repellenti all’acqua senza PFAS. Lo ha raccontato l’ultima parte del servizio: produrre senza PFAS si può, ma conviene anche.
La Pure Print produce contenitori per prodotti alimentari senza PFAS in Danimarca (che è PFAS free dal 2020): usano prodotti compostabili, come carta o cartone. Hanno cambiato produzione sin dal 2007, per rimanere sul mercato, per realizzare un prodotto sostenibile: il prodotto ha costi maggiori, ma i loro prodotti hanno una resa molto promettente.
La Coop danese, la catena di supermercati, ha fatto sparire i prodotti coi PFAS dai loro scaffali, senza aspettare che si muovesse la politica.
In Italia si stanno sperimentando pompe di calore e impianti di refrigerazione senza PFAS: i gas refrigeranti non sono pensati per essere emessi nell’atmosfera – racconta il professor Del Colle che nei suoi esperimenti sta usando gas naturali.
È quello che sta facendo la Epta Group, una azienda che si occupa di macchine per refrigerazione: anche loro non hanno aspettato la politica ma si sono mossi prima per un principio di precauzione.
Alla Daykem a Prato si stanno sperimentando tessuti impermeabili senza PFAS: le performance che stanno ottenendo sono anche superiori. Il responsabile dell’azienda è fiducioso, tra qualche anno potremmo arrivare ad un mercato PFAS free.
In Germania c’è l’azienda Vaude, specializzata nel vestiario per gli sport di montagna: i loro prodotti devono essere impermeabili.
Presadiretta ha intervistato Bettina Roth, responsabile del settore qualità di Vaude: usavano per i loro tessuti i PFAS per renderli impermeabili all’acqua che rimane in superficie e scivola via. Ora, dopo anni di ricerca, i tessuti di nuova generazione hanno la stessa idrorepellenza, ma non contengono i PFAS, ma usano una tecnologia in poliuretano: “non è vero che nel tessile ai PFAS non c’è alternativa, al giorno d’oggi non c’è motivo per continuare ad usarli, tante aziende li usano ancora perché è economico ed è più semplice”.
E
i prodotti realizzati con questi tessuti funzionano in caso di
pioggia, come ha testato direttamente il giornalista di Presadiretta.
Cosa aspetta l'Italia a seguire l'esempio di Danimarca e Germania, nel limitare l'uso di questi inquinanti, specie ora dove sappiamo tutti quanto è grande l'impatto sull'ambiente e sulla nostra salute?
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