31 marzo 2023

Chimere, di Sara Vallefuoco


31 dicembre 1899

San Silvestro

Con la mano insaponata Nina afferra la maniglia. È fredda e e lucida. Cambiata da poco, insieme4 alla serratura del portone.
La presa scivola una, due, tre volte. Alla quarta il portone si apre. Nina si fa avanti e la notte la inghiotte. A Roma stasera tira un vento cattivo, l’ultimo vento del secolo. Nina sta tremando ma non sente il freddo, anche se il cappotto resta troppo leggero.
Fino all’incrocio con via Belsiana sono pochi metri, e da lì sembra tutto dritto, quanto, dieci minuti?
Cinque, se riesce a tenere il passo più veloce che può. Deve pensare solo a questo Nina, a cercare aiuto e a tenere il passo più veloce che può.

Secondo romanzo della scrittrice romana Sara Vallefuoco dove ritroviamo i tre personaggi principali del primo racconto “Neroinchiostro”, i due carabinieri Moretti e Ghibaudo, alle prese coi loro demoni e poi Amelia Spano, che ha deciso di voler diventare medico sfidando le regole e la mentalità ottusa del periodo (e forse non solo di questo periodo).
Non siamo più nella Sardegna dei briganti e delle storie tra l’epico e il reale, raccontate dai cantori. Siamo a Roma, nella Roma capitale del regno che sta cambiando faccia, per l’ambizione di poter diventare una delle principali capitali europee e non solo più la somma di tanti borghi popolari attorno al Vaticano.

La storia di questo secondo romanzo si consuma tutta tra capodanno e l’epifania: nella notte di San Silvestro mentre Roma si prepara per il nuovo secolo, una donna si muove di corsa per le strade della capitale: è una modista, avrebbe dovuto consegnare alla sua cliente un abito da sposa, ma l’ha trovata morta dentro la vasca del bagno.

«Nina, che succede?»

«Un donna è annegata nel bagno, signora. Mia sorella è lì, per il vestito, e noi.. lei non respira, voi siete un’infermiera, studiate da dottore. Mi siete venuta in mente solo voi. Non sapevo da chi altri andare.»

L’unica persona a cui può rivolgersi, per chiedere aiuto, è proprio Amelia perché sa che sta studiando medicina (nonostante i regolamenti e i pregiudizi, tanto da dover prendere marito, il vicebrigadiere Ghibaudo)

Il regolamento la costringe a entrare in aula solo dopo che si è seduto l’ultimo studente maschio, e a uscirne per prima. Per giunta, le e anche vietato assistere alle autopsie. I cadaveri hanno l’abitudine di essere nudi, durante le autopsie. Ah, che gran sospiro. Se con il nuovo secolo lei potesse diventare un po’ meno trasparente..

Pur di sfuggire al ricevimento a cui è stata invitata, Amelia assieme al marito e al collega Moretti, si precipitano sul posto in via delle Vite: la donna, la signora Ilide Mariani, giace morta dentro la vasca, con la testa sommersa dall’acqua

Sembra una sirena, pensa Ghibaudo. No, piuttosto un essere marino sbattuto contro gli scogli. Come si chiama quel pesce di cui ha sentito parlare quand’era in Sardegna? Ecco: chimera. Una chimera era risalita dai fondali più profondi e si era infilata per sbaglio nei palamiti di un pescatore.

Un incidente, quella povera donna potrebbe anche essere morta per un malore mentre si calava nell’acqua. Ma la scena del crimine non convince Moretti, convinto sostenitore del metodo scientifico nelle indagini, la scienza forense applicata alle indagini, con tanto di impronte, di guanti indossati per non inquinare le prove, di schedari dove raccogliere volti, schede, impronte. Tutto questo in un paese dove ancora non esisteva un archivio anagrafico centrale. E dove anziché le foto della scena, c’è un carabiniere buono a disegnare che mette su cartoncino quello che vede.
Ma quella donna-pesce, quella “chimera” ha qualcosa che non va: troppo robusta sui fianchi per pensare che sia scivolata nella vasca per poi morire.
La non indagine dei due brigadieri, che il loro maresciallo ha inserito in un “pomposo” ufficio indagini scientifiche, parte da queste impressioni. Una morte non facilmente spiegabile, un marito che non si trova.

Mentre Moretti segue la sua indagine sulla vasca e sul corpo della donna, Ghibaudo si imbatte, in un inseguimento dove alla fine si ritrova inseguito, in uno strano giornalista de l’Avanti! - il quotidiano del partito socialista, i cui giornalisti sono tenuti sott’occhio dalle forze dell’ordine per le sue denunce nei confronti delle violenze da parte dei carabinieri (erano gli anni di Bava Beccaris e del re Umberto I, poi ucciso a Monza).

I giornalisti dell’Avanti! Sono brutte bestie, pronte a dar fuoco alle polveri contro la repressione regia dei moti operai e contro le forze dell’ordine di cui il governo si serve, così dicono i commilitoni di dei reati politici.

Tra Santacroce e il carabiniere si stabilisce una “strana” relazione, nonostante la reciproca diffidenza iniziale, Ghibaudo ha ancora addosso il ricordo delle sue radici di uomo del popolo (come tante delle vittime dei soprusi dello Stato), l’essere stato cacciato di casa ed essere finito per strada, poi la scelta dell’arma come ancora di salvataggio. Il giornalista lo mette su una pista interessante: pochi mesi prima un’altra donna, Clotilde Tofanelli, è morta in condizioni simili, trovata morta dentro la vasca, sposata da pochi giorni.
Non può essere un caso: c’è un assassino in giro per Roma, che uccide le sue vittime in un modo che i due carabinieri ancora non hanno compreso. Cosa lega tra loro queste due donne? Solo arrivando a questo si potrà arrivare al perché della loro morte e all’assassino.

Nonostante ci siano due personaggi maschili, in questo romanzo a più voci (che rende la lettura un po’ intricata ma sicuramente stimolante per i cambi di contesto), questo è un racconto al femminile.
Perché le due vittime sono donne, come sono vittime a modo loro anche le due sartine, Nina e Marietta, costrette a scappare dal loro paese
(dopo un incidente in famiglia) e ad arrivare a Roma col sogno di emanciparsi

Amelia non fatica a capire perché: due femmine inutili che potevano morire quando e come volevano, e invece a salire in cielo è stato l’unico erede maschio.

Essere donna, nell’Italia della belle epoque, ma anche nell’Italia di oggi, voleva dire trovare un marito da sposare ed essere moglie, avere figli. Non avere altre ambizioni.

Non è facile essere donna nemmeno per Amelia, sposata da pochi mesi con Ghibaudo in un matrimonio di facciata che conveniva ad entrambi ma che ora si è incagliato nelle prime difficoltà di una vita coniugale. “Sono tua moglie” gli ripete, quando lui fa fatica ad avvicinarsi, ad accettare il suo calore, un suo contatto. Mentre avrebbe bisogno di qualcuno con cui confidarsi, con cui parlare.

Avevano creduto che sarebbero bastate le rispettive volontà per mantenere la promessa degli amici preziosi, l’uno a sostegno dei progetti dell’altra. E invece non sono immuni, né lui né lei, ai legacci che stringe il matrimonio: l’obbligo alla fedeltà, al sesso, alla procreazione. Quanto erano stati giovani e ingenui, solo cinque mesi prima?

Sullo sfondo una città, che l’autrice descrive con minuzia di dettagli, che stava cambiando faccia e, probabilmente, anche l’anima. La Roma dove i prati e le pecore lasciavano il posto ai nuovi quartieri, dove venivano costruiti enormi monumenti in marmo bianco come il Vittoriano, una macchia bianca in mezzo al travertino romano.
Sparivano vecchie botteghe come quelle in via del Corso con la loro puzza di fritto e di frattaglie che dava fastidio alla nuova borghesia che passeggiava nel centro. Tutti stranieri in quella Roma, sia i buzzurri, ovvero gli immigrati che venivano dal nord, che i cafoni gli operai e i muratori dal sud per costruire i nuovi quartieri.

I romanzi di Sara Vallefuoco non sono semplici, nemmeno troppo lineari, per i continui salti avanti e indietro nel tempo dei vari protagonisti, ostaggi del loro passato: è come assistere allo stesso film ma visto da punti di vista diversi. Protagonisti che il finale inaspettato di questa storia (per nulla banale, assolutamente coinvolgente) metterà di fronte a delle scelte da compiere, che vedremo poi all’opera nel prossimo volume.

La scheda del libro sul sito di Mondadori

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28 marzo 2023

Presadiretta – salviamo la sanità pubblica

Chissà se il decisore politico si è visto i vari servizi della puntata di Presadiretta dedicata alla sanità pubblica: domanda oziosa, il grido d’allarme di Riccardo Iacona “salviamo la sanità pubblica” non era certo rivolto alla politica che, come si è capito, ragiona in modo molto più lucido e razionale dei cittadini, troppo emotivi per prendere delle decisioni sul loro futuro.

Beh, almeno adesso, non possiamo dire che non sapevamo: il futuro di questo paese passa anche dal servizio sanitario pubblico.

Presadiretta ha sentito Gilberto Turati e Barbara Polistena per capire quanti soldi servirebbero per recuperare l’aumento dei prezzi causati dall’inflazione.
Servono nuovi fondi pubblici, almeno 15 miliardi, perché si possono ottimizzare i servizi, per esempio diminuendo il caos nei pronto soccorso ma serve la sanità territoriale.
Per avvicinarci alla spesa sanitaria degli altri paesi europei servirebbero almeno 50 miliardi di euro: se non investiamo nel servizio dovremmo rivedere il concetto di universalità del servizio, meno cure, meno medicinali, meno prestazioni.

In studio era presente Nino Cartabellotta del Gimbe: oggi rispetto alla media Ocse siamo al di sotto, siamo al livello dei paesi dell’est e dei paesi dell’Europa meridionale, per colmare il gap con la media Ocse servirebbero 12-13 miliardi strutturali in più.
Se la sanità è un valore va finanziata: è la più grande conquista sociale, se lo perdiamo rischiamo di arrivare ad un disastro sociale e della stessa democrazia.
Altrimenti se si vuole continuare così, si potrà solo abbassare gli standard, tagliando i servizi: già oggi c’è un gap enorme tra le regioni sui livelli dei servizi e sulle liste di attesa, come se ci fossero due paesi in Italia.

11% di italiani oggi rinunciano alla cura, perché la cura sanitaria è sempre più costosa: questa è la verità, in questo vuoto si inseriscono i privati, come le assicurazioni e il privato.

Come spediamo i soldi per la sanità privata?

Nel 2021 gli italiani hanno speso 37 miliardi per spese sanitarie nel privato, come?
Presadiretta ha seguito il caso di un pensionato nel Lazio: l’operazione per la cataratta è stata fatta in privato, subito, mentre dal pubblico c’erano liste di attesa lunghe, le macchine non funzionavano..
Come sono le liste oggi per l’altro occhio del pensionato? Siccome ci sono anziani che sono peggiorati peggio di lui, il signor Guido deve aspettare, altrimenti se vuole fare l’operazione subito deve andare dal privato, questo gli dicono dall’ospedale.
Lo stesso vale per le riabilitazioni dopo un intervento ortopedico: ci sono solo strutture privato perché il pubblico non da servizio. A questo punto chi può si fa l’assicurazione: come funziona il sistema sanitario nelle cliniche di eccellenza a Roma?
I pazienti, visitati da Presadiretta, sono in larga parte assicurati, non hanno nemmeno provato a sentire il CUP, sono andati direttamente dal privato con l’assicurazione, facendo così magicamente calare le code di attesa del pubblico.
5 miliardi è la spesa sanitaria attraverso le assicurazioni, per la maggior parte fatte dalle aziende per i propri dipendenti: sono soldi spesi per esempio in analisi di risonanza, dove il privato può investire in nuovi macchinari.
Ma anche l’ecografia e la mammografia sono esami fatti dal privato: il costo della singola operazione dipende in larga parte dall’assicurazione, ovvero ci sono prezzi diverse in base all’accordo.
Le assicurazioni crescono nella salute: lo dice serenamente di Unisalute, gruppo Unipol, perché purtroppo il sistema non può coprire tutto.
Fa gola questo sistema al privato che, come racconta la responsabile di Artemisia, è giusto che la diagnosi sia fatta dal privato perché il pubblico deve occuparsi dei soli casi gravi.

Ma questo sistema ha un costo per lo stato: le assicurazioni hanno dietro degli sgravi, in più le polizze fiscali non sono universali, dipende dall’assicurazione accettare il rischio o meno.
Sarebbe un ritorno al passato, quello che auspicano le assicurazioni e i centri privati: lo pensano sia il dottor Ramuzzi che il dottor Geddes, col passaggio alla sanità privata e le assicurazioni si è eroso il sistema sanitario pubblico, che ha il pregio di togliere ai cittadini la preoccupazione di cosa fare quando si è malati. Senza la sanità pubblica perdiamo quello che è di più caro alla nostra democrazia.

Stiamo passando dalla tutela della salute al mercato della salute, se passasse il modello di cui ha parlato il consigliere dell’Ivass: è un modello per cui per il lavoratore non cambia nulla, guadagnano le assicurazioni e la sanità privata, perde il pubblico con le detrazioni.
Dovremmo fare una battaglia per il servizio sanitario nazionale come dovremo fare una battaglia contro l’autonomia differenziata, la nostra Brexit – così la definisce Isaia Sales, economista. L’autonomia sarebbe il colpo di grazia per la sanità delle regioni del sud: ci sono già oggi gravissime disuguaglianze tra sud e nord (lo ha raccontato Presadiretta nei servizi), cosa succederà dopo l’autonomia, con l’Italia del nord che potrà correre di più rispetto alle regioni del sud?

Dobbiamo scendere in piazza noi cittadini, non possiamo delegare ai politici la difesa del sistema sanitario nazionale – questo l’ultimo appello di Cartabellotta.

26 marzo 2023

Anteprima Presadiretta Salviamo la sanità pubblica

Ma la sanità pubblica è ancora un diritto?

A vedere quello che succede nel paese sembrerebbe che questo diritto non sia più garantito in modo universale: quando è successo e come mai non ce ne siamo accorti?

È accaduto tutto piano piano, anno dopo anno, governo dopo governo, in un processo che ha portato alla chiusura di ospedali, pronto soccorso, ambulatori, fino ai medici di base.
La sciagurata riforma del titolo V, quella che ha delegato poteri in materia sanitaria ha accelerato il percorso: oggi la sanità da servizio pubblico è diventata una merce da mercato, alla pari di un qualunque altro prodotto. Hai i soldi? Puoi permetterti un servizio sanitario, altrimenti niente.


Presa diretta coi suoi giornalisti ha raccolto le testimonianze, partendo da quella che è la situazione nelle regioni del sud (quelle che tra l’altro saranno maggiormente penalizzate dalla riforma Calderoli, la secessione delle regioni ricche del nord): per una colonscopia ci vogliono 9 mesi, mammografia ci vogliono due anni, “ormai si va verso un privato spinto” raccontano le persone a Riccardo Iacona, “tanta gente non può permetterselo, di andare a spendere 170 180 euro per una visita privata ..”.
Come mai non siamo scesi in piazza per protestare contro questo? Forse perché lo smantellamento del servizio pubblico è accaduto piano piano, come si è detto, forse anche la rassegnazione. Nemmeno il covid, che pure avrebbe dovuto insegnarci qualcosa, ha cambiato le scelte politiche. Eh sì, perché la fine della sanità pubblica è una precisa volontà politica, vale al sud ma vale anche qui al nord, statene certi. In provincia di Como una ecografia non si riesce a prenotare prima di un anno, se si passa per il centro di prenotazione regionale.
La presunta eccellenza lombarda è un’enorme presa in giro: certo ci sono poli di eccellenza, ma nelle grandi città e spesso sono privati convenzionati. In Lombardia, prima delle elezioni regionali che hanno portato alla conferma del presidente Fontana, si era a lungo discusso di come abbattere i tempi delle liste di attesa

Infinite promesse elettorali che s’infrangono su due numeri: 1300 giorni d’attesa (col servizio sanitario nazionale), zero (pagando 7.500 euro). Giorni e soldi che separano la signora Aurelia da un intervento di colecistectomia al San Raffaele di Milano, l’ospedale forse più famoso della Lombardia, fiore all’occhiello del Gruppo San Donato, il più grande della sanità privata italiana. Sembrava un errore, un attesa oltre ogni immaginazione quel dato emerso da una telefonata in diretta a “37e2”, la trasmissione di Vittorio Agnoletto su Radio Popolare. Viene poi confermato dalla struttura sanitaria. Il racconto somiglia ad altri, a parte il computo dei giorni che polverizza i record precedente. “Ad agosto 2020 – racconta l’ascoltatrice – ho avuto il primo episodio di coliche biliari e sono andata al Pronto Soccorso del San Raffaele, ma per via della pandemia ad ottobre vengo messa in lista d’attesa, senza però una data precisa, per l’intervento di colecistectomia. I miei calcoli, di oltre un cm, non si possono sciogliere in nessun modo. Da allora ogni 6 mesi mi sottopongo a controlli, ma ancora nessuna data è prevista per l’intervento. Io continuo a stare male, continue fitte, dolori, nausee, vomito, nonostante il cambiamento di regime alimentare. Fino a quando a gennaio 2023 ho detto basta, non ce la faccio più: ho chiamato il San Raffaele e ho chiesto a che punto era la lista d’attesa, e mi hanno detto che c’era da aspettare ancora tantissimo tempo. Allora ho chiesto quanto era l’attesa per un intervento a pagamento: mi è stato risposto oralmente che i tempi di attesa a pagamento non ce ne sono e che il costo era di 7.500 euro! A quel punto mi sono fermata perché non è giusto che un cittadino onesto, che paga le tasse non abbia diritto a un servizio sanitario pubblico che funzioni”.
Paghi e ottieni il servizio. Questo è quello che succede tutti i giorni ed è una precisa scelta politica delle giunte regionali, legate al privato convenzionato.

In Francia la gente scende in piazza contro la riforma delle pensioni di Macron con cartelloni dove è scritto “non faremo la fine dell’Italia” (leggetevi l’intervista dello scrittore Carrère a Repubblica): ci tengono, oltralpe, al loro sistema di Welfare, ai sussidi per chi è in difficoltà, all’età pensionabile a 62 anni, ai diritti sul lavoro. Tutte questioni che giorno dopo giorno vengono messe in discussione dai governi, in Francia come in Italia, con la scusa che non ce le possiamo permettere.
Non ci possiamo permettere i presidi ospedalieri, la possibilità di prenotare delle cure in tempi ragionevoli (perché il cancro non aspetta), la possibilità di avere assistenza per gli anziani, per i disabili.
Oggi tutto questo non è più garantito, chi non ha i mezzi può solo sperare di trovare aiuti da associazioni di volontari, come quella di Mirna Mastronardi “Agata volontari contro il cancro”, attiva da sei anni: coi volontari ha aiutato tante persone che non potevano muoversi nei grandi centri oncologici, che non avevano mezzi per un secondo parere (stiamo parlando del “turismo sanitario”, quello delle migliaia di cittadini che devono spostarsi di regione per curarsi): “noi diamo per scontato che il servizio sanitario sia universale e gratuito ma in realtà se vuoi saltare le liste di attesa devi spendere soldi” – il commento di Iacona.

Il punto è che quando uno ha un tumore deve correre contro il tempo e non puoi aspettare i tempi di attesa lunghissimi.

Presadiretta è andata a Bologna all’ospedale Sant’Orsola: il budget complessivo dell’ospedale è di 800ml euro l’anno ma a causa dell’aumento dei costi questi non bastano più e il policlinico per la prima volta quest’anno è andato in deficit per più di 70 ml. Per costi legati al covid, per quasi la metà di questo importo sono costi energetici e costi del personale – racconta Chiara Gibertoni DG del Sant’Orsola – “quindi abbiamo dovuto cercare di rientrare attraverso delle poste straordinarie che ha messo a disposizione la regione”. Le poste di cui parla la direttrice sono i 50 ml di euro che hanno in parte coperto le spese per covid e l’aumento delle spese energetiche: “però non sono stati sufficienti a coprire l’incremento ..”.
I fondi che sono arrivati alla struttura nel corso del tempo sono diminuiti: "Sono stati 10 anni di tagli lineari alla sanità, che significa sostanzialmente per una azienda di produzione come questa non avere un adeguamento delle tariffe, dei ricoveri, delle prestazioni ambulatoriali che è coerente con l’incremento che si ha coi costi. Questa logica porta ad una dinamica di controllo dei costi e sappiamo che questo significa non avere margini di sviluppo in termini di offerta di eccellenza e di qualità. Vuol dire che le nuove terapie non hanno possibilità di avere un sistema di finanziamento."
Così vanno fatte delle scelte, questo lo facciamo, questa terapia no.
È a rischio il sistema sanitario?

“Il rischio è reale, concreto e imminente: io credo che ci sia da fare una riflessione davvero se vogliamo mantenere questo che a mio parere è un elemento imprescindibile di una democrazia, io ho parlato ai ragazzi del primo anno di medicina e ho detto loro ‘rendetevi conto della fortuna che avete di studiare in un ospedale in cui nessuno chiede al paziente come intende pagare quel ricovero. Troverete delle eccellenze che in altri paesi sono offerte soltanto ad una parte della popolazione.’”

La scheda del servizio

I medici e gli infermieri sono pochi e i loro stipendi troppo bassi. Mancate prestazioni specialistiche, mancate diagnosi, mancati screening, mancata assistenza territoriale. Sempre più spesso gli italiani devono pagare le cure di tasca loro. E chi non ha i soldi per farlo, ormai non si cura più. La salute è ancora un diritto nel nostro Paese? “PresaDiretta” – il programma di Riccardo Iacona e di Cristina De Ritis con la collaborazione di Sabrina Carreras, Lisa Iotti, Alessandro Macina, Raffaella Pusceddu, Elena Stramentinoli, in onda luned 27 marzo alle 21.20 su Rai 3 – propone un viaggio drammatico nella lenta agonia del Servizio Sanitario Nazionale. In studio, ospite di Riccardo Iacona per approfondire con gli ultimi dati la crisi del nostro sistema sanitario, Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
“PresaDiretta” ha attraversato l’Italia, da sud a nord, per parlare col personale sanitario e con i pazienti, è entrata negli ospedali pubblici, negli ambulatori e nelle cliniche private. A cominciare dalla Calabria e la Basilicata, dove i servizi sanitari sono svuotati e moltissime famiglie ormai hanno rinunciato a curarsi. 
Ma la crisi della sanità pubblica ormai è diffusa in tutto il Paese: negli ultimi 10 anni sono stati tagliati 37mila posti letto, si sono dilatati a dismisura i tempi di attesa per tac, mammografie, interventi e visite specialistiche, è aumentato il rischio per i pazienti con le patologie più gravi, come gli oncologici. 
“PresaDiretta” ha raccolto anche l’allarme di medici e infermieri. Mancano 150mila medici e 300mila infermieri rispetto alle medie dei Paesi europei dove la sanità pubblica è più sviluppata, che andrebbero assunti nei prossimi 10 anni per riempire i buchi in organico e i pensionamenti. I turni sono massacranti e gli stipendi troppo bassi, tanto che da un sondaggio condotto dal principale sindacato dei medici ospedalieri è emerso che 1 medico su 3 se potesse, lascerebbe la sanità pubblica. Poi c’è l’emergenza nell’emergenza, quella dei medici dei Pronto Soccorso italiani, se ne perdono circa 100 ogni mese: lasciano “la linea del fronte”, semplicemente non ce la fanno più.
E tra i pazienti chi può, paga. Nel 2021 la spesa privata dei cittadini italiani che hanno messo mano al portafoglio pagando di tasca propria le cure, è stata di 37 miliardi di euro. Ed è in forte crescita anche la spesa sanitaria erogata attraverso fondi integrativi e assicurazioni private, come per esempio quelle stipulate dai datori di lavoro per i propri dipendenti. La sanità privata e quella in convenzione diventano sempre più forti e quella pubblica si impoverisce.

“PresaDiretta”, infine, è andata a vedere come funziona e quanto costa mandare avanti un grande polo ospedaliero pubblico, il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna. Qui si effettuano ogni anno 49mila ricoveri e più di 3milioni e 300mila prestazioni specialistiche, un ospedale pubblico con più di 1500 posti letto, dove il cittadino paga solo il costo del ticket e riceve cure di altissimo livello. Un esempio di sanità pubblica d’eccellenza. Anche da qui arriva un grido di allarme: i soldi non bastano più. Ma la tutela della salute non era un diritto sancito dalla nostra Costituzione?
“Salviamo la sanita” pubblica è un racconto di Riccardo Iacona, con Chiara Avesani, Elisabetta Camilleri, Pablo Castellani, Elena Stramentinoli, Cesarina Trillini, Fabio Colazzo, Matteo Delbò, Alessandro Marcelli, Massimiliano Torchia.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

25 marzo 2023

Il dottor Bergelon di Georges Simenon


Non c’era bisogno di essere medico per fare quella diagnosi: Bergelon aveva i postumi di una sbornia. La cosa non era sgradevole in sé, soprattutto finché se ne stava a letto. Sudando come sudava, gli sembrava che tutta la sua fatica, tutto ciò che di turpe aveva dentro gli uscissero lentamente dalla pelle. Senza contare quella specie di prurito da ferita che si cicatrizza... Di lì a poco, quando si fosse alzato, non sarebbe più stato così. Avrebbe avuto un gran mal di testa, si sarebbe sentito confuso. Anche se non gli dispiaceva quella sorta di vaghezza, né i pensieri dolceamari che la accompagnavano: non è male, di tanto in tanto, lasciarsi prendere un po’ dalla malinconia

Dopo il dottor Chabot, protagonista del romanzo “L’orsacchiotto”, ritroviamo un altro medico protagonista di questo romanzo di Simenon, il signor Bergelon medico di famiglia in una piccola città della provincia francese, Bugle.
Dopo anni di lavoro, dopo che si è costruito una famiglia, con una moglie, due figli, anche a Bergelon succede qualcosa che ne incrina il quieto vivere con cui era scandita la sua vita. Una vita in fondo senza pretese, senza pretendere troppo, assecondando anche i desideri della moglie, Germaine.
Un giorno un ginecologo che dirige un’importante clinica di ostetricia privata gli propone un accordo: manderà una delle sue pazienti, in procinto di partorire, nella sua clinica

Senta un po' Bergelon, lei non mi manda mai i suoi malati, lo faccia e non se ne pentirà... La parcella della prima operazione che mi procurerà sarà tutta per lei...In seguito, a ogni paziente che mi manderà faremo la metà.
Questa la proposta del dottor Mandalin (“ho 12 letti da riempire..”), un medico che appartiene ad un’altra categoria sociale, ben più alta della sua: il signor Casson aveva appunto chiesto a Bergelon che sua moglie, al primo figlio, fosse curata nella miglior clinica della città, a qualunque costo.
Dietro questa scelta anche un tentativo di rivalsa da parte di questo impiegato che si era fatto una posizione lavorando in banca dopo tanti sacrifici.
Ma purtroppo le cose col parto della signora Casson prenderanno piega drammatica: nel mentre alla donna arrivano le doglie, Bergelon è invitato da Mandalin nella sua villa. Solo dopo molte telefonate da parte delle infermiere decidono di andare in clinica, dove si presentano ubriachi. Il bambino muore e, poco dopo, anche la madre per una emorragia.

Aveva osato evadere dal suo mondo, fare un’incursione nell’universo dei Mandalin. Gli era andata male, e doveva fatalmente essere così.

La reazione del signor Cosson è violenta dopo la doppia perdita (“il tormento fatto uomo”), contro Mandalin e contro Bergelon, accusati di non aver curato la moglie: ma mentre Mandalin si fa scudo col suo cinismo e con le sue amicizie, la reazione di Bergelon è completamente diversa. Non di paura, nemmeno di indignazione. Arriva a comprendere le minacce di quell’uomo, prima via lettera (“un giorno o l’altro ti farò la pelle”) e poi di persona, in mezzo alla strada.

Nasce tra il medico e l’ex impiegato, che ora passa le giornate a bere, passando le notti assieme ad una amica che è anche una prostituta, uno strano rapporto: non è amicizia, ma è qualcosa che assomiglia ad una confidenza tra persona che si riconoscono.
Arrivano ad ubriacarsi assieme, nella casa della prostituta, mentre Bergelon è posseduto da una strana calma, nonostante le minacce, nonostante il trovarsi davanti un uomo che ha deciso di ucciderlo.
A casa di Casson, dentro questa “nebbia opaca, una di quelle nebbie dalla sfumatura gialla che rendono irreale lo scenario più familiare” il protagonista inizia a rivivere dei momenti del suo passato, della sua infanzia, i ricordi del padre che era un uomo che viveva.
Inizia così la fuga del dottor Bergelon: la fuga dalla moglie, una “portatrice di sventura” che aveva organizzato tutta la sua vita, la fuga dalla sua vita, dalla sua monotonia,
una cosa che faceva sin da giovane quando chiudeva gli occhi per aprirli piano piano e filtrare le immagini, come per chiudersi in un mondo tutto suo.

«Non hai mai avuto voglia di cambiare pelle, tu?»
Ci proverà il dottor Bergelon a cambiare pelle, in questa fuga ma, come tanti altri personaggi partoriti dalla mente di Simenon, anche per lui si profilerà un finale diverso.

E dove era andato in fin dei conti? Non era andato da nessuna parte! Aveva tracciato un largo semicerchio intorno a Bugle per recarsi da casa sua a rue des Minimes. Nient’altro.
Cosson, che era un esagitato, aveva avuto bisogno dell’Africa! Come quelli che una malattia se la fanno coscienziosamente fino in fondo, mentre gli altri se la cavano con una febbriciattola, una sorta di vaccino.

Forse meno riuscito di altri romanzi dell’autore belga, che prende ritmo mano mano, capitolo dopo capitolo, dopo una certa lentezza iniziale: il punto centrale di tutto il racconto rimane però l’analisi psicologica del protagonista la cui vita ad un certo momento si inceppa, si blocca per un evento straordinario (la scelta di entrare nel mondo dei Mandalin, di fare altri soldi per comprarsi, che so, una nuova macchina) che fa cadere tutti i veli e le consuetudini della sua vita borghese. E, con questi, anche la sua stessa identità, portando l’uomo ad un suo sdoppiamento, come nel dipinto di Jean Moral, “Il doppio”

Qual è il momento esatto in cui ci si accorge che un vestito è diventato troppo stretto? Perché non il giorno prima? Perché non l’indomani?

La scheda sul sito di Adelphi e il pdf col primo capitolo

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21 marzo 2023

Presadiretta – la scatola nera

La tecnologia dentro gli smartphone, i social media, il metaverso, sono un’opportunità oppure un problema per la nostra società, per i ragazzi che davanti al piccolo schermo passano tante ore?

Per rispondere a questa domanda Predadiretta è andata a visitare la sede milanese di Facebook o Meta e conoscere da vicino questo metaverso: è la nuova versione di internet che consentirà di fare cose oggi impossibili. Sono tanti i colossi dell’informatica che si sono lanciate nel metaverso: fornire una esperienza immersiva dentro un mondo virtuale. Dagli anni novanta siamo passati ai contenuti testuali, ai contenuti audio e video fino ad oggi, ai contenuti tridimensionali, a cui una moltitudine di persone possono accedere tramite i loro avatar, i nostri cloni.
Si potrà viaggiare, scoprire una città nuova, giocare partite come se si fosse dentro al campo. C’è poi il mondo dell’educazione che potrebbe consentire agli studenti di sentirsi dentro un foro romano e sentir parlare i consoli. Visitare un impianto remoto senza muoversi dall’ufficio.
Un chirurgo potrebbe operare un tuo avatar e sperimentare prima di lui l’operazione.
Visitare una casa che si vuole acquistare, entrandoci dentro, senza spostarsi.

Tramite metaverso si può visitare l’ospedale di Emergency in Uganda: questa esperienza consente alle persone di vedere coi loro occhi cosa fanno veramente i medici di Emergency sul territorio.
Il metaverso funziona attraverso le nostre emozioni: lo raccontano al Marketing Lab del Politecnico, si misurano le dilatazioni delle pupille, per esempio, per capire come reagiamo di fronte ad una immagine. C’è un mercato da 50 miliardi di dollari spesi nello scorso anno per il solo settore dei giochi: i ragazzi fanno esperienze, giocano dentro questi mondi virtuali, come quello di Fortnite, dove spendono i loro pochi soldi, che sono però soldi veri.

Nel virtuale ci sono gli store di marchi veri, come Gucci: nel 2030 si stima che il 10% del mercato del lusso girerà nel mondo virtuale. Come i vestiti digitali da far indossare ai propri avatar che sono stati presentati a Milano al Luxury lab.
Le aziende si stanno proteggendo dalla contraffazione anche nel mondo virtuale: non solo i marchi di moda, ma anche industrie dell’arredamento, dell’alimentazione.

Tutto bello? No, come racconta il giornalista Staglianò, che in diversi saggi ha spiegato come queste nuove tecnologie hanno allargato le disuguaglianze. Il metaverso è un confinamento perenne dentro il nostro visore: il grosso delle nostre relazioni saranno mediate dal digitale, un mondo dentro cui passeremo tanto del nostro tempo.
Questa tecnologia rischia di tagliarci fuori dal mondo reale ma, soprattutto, tutte queste ore davanti allo schermo, fa male al cervello.

Cervelli digitali
Tulsa è la seconda città dell’Oklahoma, da cui parte la route 66: era la capitale del petrolio, ma oggi qui si sta studiano il nostro cervello, un lavoro fatto da un gruppo di ricerca chiamato ABCD study che sta cercando di capire come il gioco con lo smartphone influisca sul cervello dei ragazzi.

700 ragazzi sono monitorati da 4 anni: misurano l’attività celebrale, mentre giocano, tracciando i flussi sanguigni nel cervello. Sono ragazzi che passano ore sui social, anche 5 nel fine settimana: la ricerca sta rilevando che tutte queste ore stanno causando un disallineamento nel cervello, l’area da cui dipendono le valutazioni su te stesso e sugli altri risulta meno sviluppata, che potrebbero portare a problemi di ansia e rabbia.
L’attività sui media e sugli schermi cambia il modo in cui il cervello si sviluppa: si passa molto più tempo davanti lo schermo che non socializzando con altri coetanei.
Ma stiamo studiando solo ora quali saranno gli effetti, anni fa non esistevano Tik Tok o Instagram: ci aspettiamo che il peggio potrebbe ancora arrivare – racconta un medico del gruppo ABCD Study.

Ci sono poi storie molto più tragiche, come quella di Molly Russel: dentro la scatola nera dei social sono state risucchiate le vite di molti ragazzi, come quella di Molly.
Si è tolta la vita poco prima di compiere 15 anni, viveva a Londra, frequentava il college, una ragazzina come tante: si è uccisa per autodepressione, malattia causata anche per i contenuti che aveva visto online su diverse piattaforme. Le compagnie di internet sono state accusate di suicidio, in particolare Pinterest, che aveva inviato a Molly diversi pin su contenuti che parlavano di ansia.
Poi altri post e video su Instagram: alla famiglia hanno dato solo i video su cui aveva messo il like, poesie che romanticizzavano il suicidio, immagini di parlavano di violenza su se stessi.
Un flusso continuo di contenuti che hanno aumentato la sua depressione, con commenti del tipo “sei grassa”, “sei brutta”.
Molti di questi post pericolosi non sono stati rimossi nemmeno dopo la morte della ragazzina: le piattaforme non sono responsabili dei contenuti caricati dalle persone, ma gli algoritmi non fanno filtri, anzi questo software di raccomandazione cerca i contenuti migliori per le persone, in modo che attraggano sempre più le persone, per aumentare il profitto e gli utili.
Lo ha spiegato il professor Naughton di Cambridge: questa tecnologia di Facebook è perversa, nonostante lo scandalo le compagnie non hanno fatto niente per cambiare le cose.

Francis Haugen è la whistleblower di Facebook che ha denunciato le perversioni della piattaforma: nel 2019 era stata reclutata da Facebook per monitorare i contenuti falsi, ma prima di andarsene si era portata via migliaia di pagine dove emergeva che la società Meta era consapevole dei danno che causava ai giovani. Sono documenti di una ricerca dove si spiega come Facebook cercasse proprio gli adolescenti, perché hanno un valore monetario, sono gli utenti del futuro da coinvolgere prima che diventino adulti.
Ci sono slide dove si mette nero su bianco che Instagram può creare danni ai ragazzi, così vulnerabili sulla loro salute, per colpa degli algoritmi pensati proprio per stimolare la loro emotività: Facebook ha respinto tutte le accuse, dicendo che l’azienda spende 5 ml di dollari per la sicurezza. Ma dopo le parole di Haugen, dopo il Metagate, molte famiglie hanno fatto causa.
Come la famiglia Spence, i genitori di Alexis: a dodici anni ha sofferto di una grave depressione e anoressia, era finita in un buco nero perché l’algoritmo continuava a mandarle messaggi del tipo “non mangiare”, con post che la aiutavano a nascondere ai genitori il suo utilizzo (come per es usare altri account).
Ad una ragazzina di 11 anni si continuava a proporre contenuti con ragazze emaciate, che parlavano dei loro disturbi alimentari: “il mondo deve sapere i danni che queste piattaforme stanno causando ai nostri figli” raccontano i genitori di Alexis.

Il colpevole sei tu, dice l’industria dei giganti di internet, lo stesso meccanismo delle aziende del tabacco: nessuno vuole assumersi le sue responsabilità, nessuno vuole ammettere che si vuole mettere il profitto davanti a tutto.
Cosa risponde oggi Meta?
Rimuovono i contenuti che incitano all’autolesionismo, hanno sviluppato un controllo genitoriale: l’età per entrare su Instagram o Facebook è ancora a 13 anni? È l’età decisa dal legislatore, risponde la responsabile delle relazioni esterne.

Si muove la politica, si muove la società civile, si muovono i ricercatori: il motore di raccomandazione della piattaforma di turno è qualcosa che uccide, un giorno dopo l’altro, le persone più fragili, bombardate ogni giorno da contenuti pericolosi.

La dittatura di Tik Tok

In cinque anni Tik Tok è cresciuta diventando l’app più scaricata al mondo, grazie anche alla spinta della madre patria cinese, che ha investito molto su di essa.
La pandemia ha fatto esplodere questa app: non devi fare nulla per questo algoritmo, devi solo scrollare e vedere i video proposti dall’algoritmo, senza fare sforzi, senza abbandonare la piattaforma.
L’occhio di Tik Tok vi segue, conosce molto di più di noi di quanto possiamo pensare: l’algoritmo analizza i video che stiamo guardando e attraverso l’intelligenza artificiale, intuisce quale deve essere il prossimo video. Non solo, i soggetti sgradevoli dal punto di vista dell’aspetto venivano bannati: Tik Tok è la scatola nera per eccellenza, raccoglie i nostri dati biometrici, i dati dei nostri volti grazie ai filtri che si possono usare per modificare i nostri selfie.

Tik Tok sta raccogliendo le impronte facciali di milioni di utenti senza dirlo pubblicamente: questa piattaforma potrebbe comprendere che tu sia una persona instabile e proporti altri video di persone instabili facendoti pensare che tu abbia veramente un problema. Un problema di anoressia, di depressione, la volontà di farti del male.
Tik Tok sa che se in difficoltà e continua a mandarti contenuti aggressivi, perché questo è l’unico modo per tenerti collegato, per non farti staccare: l’unico obiettivo è la monetizzazione del disagio.
Ragazzi che poi si devono curare in strutture per la cura dei disturbi dell’alimentazione: sono bambini di anche dieci anni, che hanno alle spalle anni di frequentazione di social e che oggi postano immagini dei loro tagli, del loro alimentarsi col sondino.

Laura Dalla Ragione – medico dell’ASL 1 dell’Umbra, parla di persone schiacciate nel presente, che postano queste foto come una sfida agli altri in un gioco perverso.

Stanno aumentando i casi di bambini con disturbi alimentari, con problemi di autolesionismo: siccome stiamo parlando di problemi della salute mentale nei giovani nessuno se ne preoccupa, ma in realtà siamo di fronte ad una vera pandemia.

Esistono diversi studi che mettono in relazione l’uso dei social con i problemi emotivi e mentali dei ragazzi: non possiamo aspettare che si arrivi ad uno studio definitivo sul punto, dobbiamo muoversi adesso, ma purtroppo manca la volontà politica.

Avamposto scuola.

Nella scuola Savena di Bologna le insegnanti un giorno hanno scoperto che due ragazzine avevano lo stesso segno sotto l’occhio, la cicatrice francese. Un marchio per entrare in un cerchio, qualcosa che è sempre esistono, ma i social hanno reso questo fenomeno più veloce, senza alcuna intermediazione. È stata la scuola ad accorgersi di questo, non i genitori.

Lorenza Rossi è referente del benessere a scuola di un istituto a Bologna, racconta di un’ansia da prestazione “e ovviamente la ritroviamo anche in ambito scolastico, in una verifica, in un voto. Noi troviamo anche tanto sonno mancato a causa dell’uso dello smartphone, loro non lo spengono mai, soprattutto i maschi che fanno uso di videogiochi, giocano con persona da qualunque parte della crosta terrestre, è chiaro che hanno anche un fuso orario completamente diverso. Il che vuol dire che uno dei due è sveglio mentre dovrebbe dormire. Noi facciamo corsi di gioco d’azzardo ‘in previsione di’, perché essendo loro abituati al videogioco di altro genere, gli esperti dicono che saranno più pronti per il gioco d’azzardo”.
E’ un fenomeno subdolo: “è un fenomeno subdolo che parte in una età in cui loro sono piccoli, sono strumenti emotivi, non sono strumenti tecnologici: alla prima offesa sulla chat, emotivamente non la gestiscono.”
Cosa può fare la scuola?
“Lavorare prima di tutto sulla schermatura emotiva dei bambini: laboratori, attività che li aiutino a stare insieme capendo le loro proprie emozioni, riconoscendole dando loro anche un nome, perché alle emozioni noi dobbiamo saper dare un nome e a sentire in modo empatico quelle degli altri.”

Il ministero dell’istruzione ha vietato l’uso del cellulare in classe: così a Faenza ad inizio lezione li spengono e li lasciano in una sacca con le tasche, una per ognuno di loro.
Stare sconnessi anche per sole poche ore è un problema per gli adolescenti: così gli insegnanti devono aiutarli, come si fa con le persone dipendenti dal fumo.
All’istituto superiore Meroni di Lissone le lezioni iniziano coi cani: con loro si dimenticano dei social, della bolla protetta, dell’ansia, dell’incapacità di reagire. I cani hanno fatto il miracolo, hanno fatto aprire questi ragazzi e gli hanno ridato un sorriso.
Ragazzi che sono nati digitali ma che non hanno la patente digitale: l’obiettivo è stare bene, non creare dolore – racconta una docente.
Le lezioni di media education sono comunemente fatte in altri paesi come la Finlandia: in Italia manca una legge ad hoc per la formazione digitale e mancano anche i fondi per il digitale nelle scuole.
Ma serve l’aiuto anche delle famiglie: non bisognerebbe dare il cellulare già alle elementari, anche sapendo che si rischia l’isolamento. Importante è anche l’esempio che danno i genitori, che magari mangiano guardando lo smartphone.

In Piemonte, in provincia di Verbania, le scuole hanno creato la patente di smartphone: in questa partita nell’uso intelligente dei device concorrono tutti, le scuole, gli insegnanti, le famiglie e le asl.

Sarebbe bello se il ministero dell’istruzione mettesse a fattor comune questa esperienza in tutto il paese.

L’Europa ha emesso un digital act, ma non è sufficiente per contrastare questo problema: le piattaforme social hanno tanti lobbisti a Bruxelles tanto da influenzare i politici, hanno soldi da spendere per mettere annunci e fare pubblicità per condizionare le scelte.

La commissione europea ha scelto di non adottare una strategia non conservativa, con nuovi divieti sui contenuti potenzialmente dannosi: saranno più sicuri, ma non sicuri del tutto.

Fino a quel momento, meglio essere consapevoli di questa emergenza nazionale che coinvolge le famiglie, le scuole, la sanità (mancano le strutture per curare questi disagi mentali) e soprattutto i giovani.

20 marzo 2023

Anteprima Presadiretta – la scatola nera

Siamo schiavi degli algoritmi dei social, quelle scatole nere che conoscono tutte le nostre abitudini, perché siamo noi ad averle insegnate a loro: i social conoscono le nostre paure, le nostre ansie e te le ripropongono alimentandole all’infinito – racconta nell’anteprima Riccardo Iacona – perché è così che le compagnie fanno tanti soldi. E ora sta arrivando anche il Metaverso dove il virtuale diventa emozionante come fosse vero.

Questa sera i vari servizi della puntata racconteranno dei danni già in corso causati da questa dipendenza ma anche di quello che possiamo fare per ridurli: come racconta una docente di un istituto di Lissone (Monza Brianza) “l’obiettivo deve essere stare bene e non creare dolore..”


Qual è l’effetto dei social sui ragazzi? Presadiretta è andata a chiederlo ai docenti di vari istituti: Lorenza Rossi è referente del benessere a scuola di un istituto a Bologna, racconta di un’ansia da prestazione “e ovviamente la ritroviamo anche in ambito scolastico, in una verifica, in un voto. Noi troviamo anche tanto sonno mancato a causa dell’uso dello smartphone, loro non lo spengono mai, soprattutto i maschi che fanno uso di videogiochi, giocano con persona da qualunque parte della crosta terrestre, è chiaro che hanno anche un fuso orario completamente diverso. Il che vuol dire che uno dei due è sveglio mentre dovrebbe dormire. Noi facciamo corsi di gioco d’azzardo ‘in previsione di’, perché essendo loro abituati al videogioco di altro genere, gli esperti dicono che saranno più pronti per il gioco d’azzardo”.
E’ un fenomeno subdolo: “è un fenomeno subdolo che parte in una età in cui loro sono piccoli, sono strumenti emotivi, non sono strumenti tecnologici: alla prima offesa sulla chat, emotivamente non la gestiscono.”
Cosa può fare la scuola?
“Lavorare prima di tutto sulla schermatura emotiva dei bambini: laboratori, attività che li aiutino a stare insieme capendo le loro proprie emozioni, riconoscendole dando loro anche un nome, perché alle emozioni noi dobbiamo saper dare un nome e a sentire in modo empatico quelle degli altri.”

I giornalisti di Presadiretta sono andati a vederlo questo “metaverso”, compiendo questa esperienza dentro un mondo virtuale a cui si accede con dei visori che ti portano ovunque, anche a New York in cima ad un grattacielo pur rimanendo, fisicamente, in centro a Milano, nella sede di Facebook, o meglio, di Meta come si chiama dal 2021. Secondo Mark Zuckerberg il futuro non è più nei social media come li abbiamo conosciuti fino ad oggi, ma nel metaverso: “noi crediamo che il metaverso sarà la prossima generazione di internet” racconta in un video “sarete in grado di fare quasi tutto ciò che immaginate”. Certo, non sarete voi a farlo ma la vostra parte virtuale, che potrà essere in contatto coi vostri colleghi d’ufficio virtuali come le li aveste accanto.
Una realtà virtuale che può cambiare con un click, a nostro piacere, da una spiaggia paradisiaca al centro di Milano: sarà il nostro avatar ad essere teletrasportato in giro nel mondo e nello spazio, che non ha ancora le gambe ma è in grado di riprodurre la nostra espressione, grazie al visore che include il tracciamento del volto e degli occhi e riesce così ad umanizzare gli avatar. Si può viaggiare nel mondo ma anche nello spazio, dentro una stazione spaziale: un’esperienza per pochi diventa così alla portata di molti, “sembra di volare” racconta una delle protagoniste di questa esperienza presso gli uffici di Meta.

Presadiretta ha intervistato il direttore di Meta: “abbiamo visto cosa è successo negli ultimi dieci anni nel passaggio dal PC ai cellulari, che genere di opportunità si sono aperte e in questo senso, pensando al metaverso come la prossima versione di internet che passerà da cellulari ad oggetti indossabili si potranno fare tantissime cose che oggi non vediamo possibili”.

Le esperienze immersive dentro il metaverso offrono opportunità interessanti nella formazione, nell’industria fino alla medicina: ne parlerà a Presadiretta Federico Rampolla, esperto del mondo digitale, “questo strumento offre possibilità di apprendimento straordinarie”. La possibilità per l’individuo di immergersi in un contesto di migliaia di anni fa, in mezzo ad animali estinti, dentro un foro romano e ascoltare cosa si dicono i consoli. Ma ci sono anche opportunità per il mondo industriale: per esempio poter visitare un impianto dell’ENI in mezzo all’oceano in cui ci sono da fare delle operazioni delicate e di natura straordinaria – a raccontarlo è Giuliano Noci vicerettore del Politecnico di Milano – “in passato questo richiedeva che specifici tecnici andassero con un volo sull’impianto nell’oceano, ora gli operatori che già lavorano sull’impianto possono essere teleguidati per eseguire determinate operazioni”.
Anche la medicina potrà sfruttare queste esperienze: “un chirurgo prima di operarti può operare il tuo Avatar con una rappresentazione del tuo organo e quindi, quando poi farà l’operazione dal vero sa già che cosa succede”.

Si arriva anche all’acquisto degli immobili che sarà completamente diverso: si comprerà la casa camminandoci dentro, senza essere fisicamente presente.

La scheda del servizio:

Gli algoritmi e le piattaforme si stanno prendendo la vita dei nostri figli? Adolescenti e perfino bambini hanno patologie sempre più diffuse legato all’uso di alcune piattaforme digitali e si tratta ormai di un problema di salute pubblica. In che modo recuperare i danni già fatti, a partire dalla scuola? “PresaDiretta”, per la puntata in onda lunedì 20 marzo alle 21.20 su Rai 3, ha intrapreso un viaggio tra gli adolescenti per capire il loro rapporto con i social.
L’inchiesta dal titolo “La scatola nera” parte da Tulsa in Oklahoma, in uno dei centri di ricerca del più grande studio al mondo per capire quale sia l’impatto sul cervello di bambini e ragazzi delle tante ore passate sui cellulari e social. E poi i centri d’eccellenza italiani e le voci di medici e scienziati che da anni studiano e denunciano che la lunga esposizione dei ragazzi sulle piattaforme provoca variazioni fisiologiche nel cervello sul piano cognitivo ed emozionale.
Sono 10 anni, da quando i social sono esplosi, che gli esperti accusano l’aumento del disagio tra i più giovani: ansia, stress, disturbi dell’attenzione e del linguaggio, anoressia, depressione, autolesionismo.
A “PresaDiretta” storie e testimonianze esclusive, come quella di Frances Haugen, un’informatica americana dipendente di Facebook, che nel 2021 ha rivelato con migliaia di documenti interni come la società fosse consapevole dell’impatto degli algoritmi sulla salute mentale dei più giovani. Negli Stati Uniti qualcosa si sta muovendo: migliaia di famiglie hanno avviato delle cause legali sostenendo che i loro figli sono stati danneggiati dall’amplificazione dei loro disturbi sulle piattaforme.
L’inchiesta di “PresaDiretta” parla anche delle tante esperienze scolastiche italiane di collaborazione con le famiglie su progetti di prevenzione. A Bologna dove si lavora attraverso i sentimenti; a Lissone dove si combatte la dipendenza dai social con la pet therapy; a Faenza dove hanno inventato una sacca appendi cellulari per insegnare la gestione del tempo di connessione; a Milano dove 150 genitori in collaborazione con l’Università Bicocca hanno attuato il patto digitale, per dare più tardi possibile il cellulare ai loro figli. 
“La scatola nera” è un racconto di Riccardo Iacona, con Antonella Bottini, Sabrina Carreras, Lisa Iotti, Elena Marzano, Irene Sicurella, Fabio Colazzo, Eugenio Catalani, Matteo Delbò, Fabrizio Lazzaretti, Alessandro Marcelli, Massimiliano Torchia.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

19 marzo 2023

Non si fa così

Non si fa così: non si imbrattano monumenti come atto di protesta contro l'inerzia dei governi, come il nostro sui cambiamenti climatici. O sulla siccità dove, passati i mesi, abbiamo nominato il commissario.
E nemmeno si può alzare la voce contro il taglio al reddito di cittadinanza, contro i salari che rimangono bassi (prima la crescita, dice Meloni dal palco della CGIL,vpoi forse i salari se lo sciur padrun dalle belle braghe bianche lo consente).

Si condannano le violenze di chi protesta, le vetrine e i vetri delle macchine, la vernice sui muri. Certo, atti di vandalismo. 
Un giorno si condannerà anche la violenza di un governo che, di fatto, sta smantellando la sanità pubblica. Che da una parte premia chi evade, dall'altra fa pagare il conto a chi le tasse le ha sempre pagate. Un governo che punta su voucher, su contratti a tempo, sulla politica dei salari bassi, condannando un'intera fetta del paese alla miseria. 

Ma non è violenza quella del governo. E' patriottismo.

18 marzo 2023

Dentro la gabbia di Stefano Cosmo

 


Ero già alla seconda birra e non avrei nemmeno dovuto bere. Come ogni cazzo di atleta avevo degli obblighi, dei limiti. Con il passare degli anni, rispettarli diventava sempre più difficile.

Fissavo ipnotizzato due zanzare che volavano con una certa eleganza sopra una vecchia piastra su cui cuoceva una pastiglia di repellente. Parevano in gran forma. I rifiuti tossici sepolti nell’area del Petrolchimico avevano modificato geneticamente pure loro.

Ci sono romanzi che ti catturano sin dalle prime righe, che ti portano dentro un mondo che dalle pagine che stai leggendo diventa improvvisamente reale. Gli odori, la puzza del petrolchimico di Marghera che incombe sulle case, i suoni, i volti dei personaggi, incattiviti dalla rabbia, scavati dalla fatica. Dentro la gabbia mi ha fatto questo effetto: c’è tutto un universo dentro questo noir duro e cattivo, che viene mostrato per quello che è, senza nessun filtro. C’è il protagonista, narratore in prima persona di tutta la storia, che nella MMA (una forma di arte marziale mista) ha trovato una forma di riscatto e allontanarsi dalla via del crimine e che ora, dopo anni di sacrifici e allenamenti duri, si trova davanti al grande match che potrebbe cambiargli la vita. C’è la criminalità del nordest, dentro cui ritroviamo residuati della mala del Brenta, la mafia albanese e quella cinese.
Prostituzione, traffico di droga, usura. Ma anche affari sulla pelle dei migranti. Quelli che vengono a casa nostra a rubare il lavoro, quelli che “perché dobbiamo dargli 80 euro e farli vivere negli alberghi di lusso”, “perché non se ne stanno a casa loro..”.
C’è il lato oscuro del nordest, che qui a Marghera non è quello dei capannoni industriali e della piccola ricchezza dei piccoli e medi artigiani, ma bensì quello del petrolchimico, con le poche industri ancora aperte per intossicare l’ambiente e i tanti scheletri industriali abbandonati.
E poi, c’è la gabbia, la gabbia dei combattimenti illegali, la gabbia che per il protagonista, Moreno Zanon, il protagonista rappresenterà l’unica strada per la salvezza, sempre che riesca ad uscirne vivo.

C’era stato un tempo in cui agli allenamenti avevo preferito furti e piccole rapine in coppia con mio fratello.
Dovrebbe occuparsi del match contro Dave “l’orgoglio d’Irlanda” McConnor ma ha in testa due pensieri: il primo è per la ragazza di cui è innamorato, Lili, “la più bella creatura che avessi mai visto” , peccato che si tratti della moglie del fratello Marco, finito in carcere per una rapina in cui c’era scappato anche il morto. Una pistola che doveva essere a salve, questo gioielliere che era anche uno strozzino, che si mette a sparare ai rapinatori e quei colpi sparati da Moreno.
Ricordi che non si possono scordare, anche perché era stato il fratello ad addossarsi le colpe e a finire in carcere al posto suo. Lasciando Lili sola..
Pensava di essersi lasciato tutto alle spalle, Moreno, coi viaggi in giro per il mondo per imparare i segreti delle arti marziali, coi tatuaggi e la barba a coprire il viso. Invece no: il maresciallo Di Ciolla, che aveva seguito le indagini su quella rapina e che non si era dimenticato di lui, gli comunica che il fratello è stato accoltellato in carcere, per una questione di debiti non pagati nei confronti di una persona sbagliata

«Chi è la “persona sbagliata” di cui parlava poco fa?» domandai.
«Paolo Trabacchin. Ti dice niente?»
Porca puttana, pensai. Era stato un pezzo grosso della Mala del Brenta..

C’è un solo modo per saldare i debiti del fratello e salvargli la pelle in carcere, ma soprattutto per proteggere Lili e la nipote, Bea, prima che Trabacchin le faccia del male: andare a trattare con l’ex criminale, oggi è un cittadino che ha pagato i suoi debiti e che dirige una cooperativa che si occupa di accoglienza. Moreno però si trova schiacciato nel mezzo tra il maresciallo Di Ciolla, che pretende una confessione dal fratello che gli consenta di mettere le mani su Trabacchin, un chiodo fisso dell’investigatore. Dall’altra parte Trabacchin: se vuole ripagare il debito, deve combattere nel Combat Circus, una specie di Colosseo costruito dentro uno dei tanti impianti industriali dismessi, dove avvengono combattimenti clandestini che attira numerose scommesse illegali gestite da lui stesso assieme ad un cinese “Ciccio Merendina” che viene da Prato (dove i connazionali vengono sfruttati dai piccoli industriali del tessile) e ad un enorme nigeriano, Landlord.
Perché far combattere gli animali, quando puoi far combattere delle persone e arricchirti con le scommesse?

«Poi, un giorno, ho visto un incontro di arti marziali miste e ho avuto l’illuminazione: bastava sostituire i pitbull con altri pitbull… umani. Semplice, no?»

Brutto figlio di puttana, pensai.

«Gestisci un giro di incontri clandestini?»

«Il Combat Circus è molto di più. È un luogo dove la gente decide del proprio futuro.»

Moreno deve rassegnarsi, per salvare il proprio futuro, quello del fratello ma soprattutto quello di Lili, il suo angolo di pace, dovrà passare per il Combat Circus e affrontare altri disperati, costretti come lui a combattere in incontri senza regole, senza arbitri.

Chi sono questi altri disperati? Sono quei migranti che provengono dal sud del mondo, che hanno attraversato il deserto sopra i cassoni dei camion, che sono stati derubati dai carcerieri libici, che qui hanno subito le peggiori torture, picchiati, umiliati, sfruttati. Per poi arrivare qui e sentirsi accusati di voler portare avanti una sostituzione etnica.
Moreno si trova, in quel circo infernale, a combattere con loro e, come spesso accade tra gli ultimi del mondo, a diventarne quasi amico.

Mi chiesi come fossi potuto cadere così in basso. Semplice: un po’ alla volta. Ogni giorno, dall’istante in cui avevo premuto il grilletto durante la rapina..

Un ragazzo che viene dall’Afghanistan per sfuggire dai Talebani passando per la Turchia e la Grecia. Un altro che viene dalla Nigeria: il suo racconto è come quello dei tanti che attraversano l’Africa per arrivare in Europa nella speranza di una vita migliore, passando attraverso la fatica e i rischi del viaggio, i carcerieri libici (i nostri carcerieri libici, quelli degli accordi dei vari governi italiani) fino al razzismo qui da noi:

«Quando muore qualcuno scrivono su Facebook: “uno di meno”, “cibo per pesci”. Sarebbero contenti di sapere quello che ho passato, no?»
«Credo di sì» risposi.
«Direbbero anche che potevi restare a casa tua.»
«Ci sarei rimasto volentieri, ma sembra che a voi piaccia molto il nostro petrolio. 
I nomi di quelle aziende» disse puntando il dito verso il Petrolchimico, «li vedevo da casa mia, in Nigeria.» Un’altra verità negata che la maggior parte degli italiani ignorava.

Per salvarsi da questa discesa agli inferi, per salvare la pelle, per cercare un ennesimo riscatto dopo tutte le bugie, quelle raccontate a Lili, Moreno dovrà allearsi proprio con questi disperati anche loro vittime del Circus, richiedenti asilo come lui, in fondo. La differenza era “che non avevo chiesto protezione a uno stato per scappare dal mio passato, ma a un ring. Mi ero illuso di poter realizzare un sogno, e mi ero giocato tutto.”
Non aspettatevi un lieto fine, non ce lo meritiamo noi e non se lo merita il protagonista: non ci sono buoni contro cattivi, ma criminali “magna sghei”, ingordi, senza scrupoli da una parte e dall’altra parte persone che vivono al confine tra le leggi. Nemmeno la presenza, dopo lontano, di Venezia, aiuterà ad abbellire il paesaggio

La nobile, ricca e romantica Venezia con le sue calli in pietra d’Istria e le gondole. Marghera era il suo lato oscuro, ma più profondo, intriso di un’umanità forgiata da lotte operaie, licenziamenti, povertà, droga, crimine e voglia di rivalsa.
Benvenuti nel Circus! Benvenuti nell’Italia delle ipocrisie, del razzismo viscerale nei confronti degli altri, dei criminali in giacca e cravatta che sfruttano il business dei clandestini. Nei campi, nei laboratori tessili, per lo spaccio.
Benvenuto infine a
Stefano Cosmo con questo nel noir.

La scheda del libro sul sito di Marsilio
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16 marzo 2023

La storia riscritta: Moro e la fine della prima repubblica

Si dice che la storia, alla fine, la scrivano i vincitori.

Per questo motivo oggi, se chiedi a qualcuno della strage di Portella, della bomba alla stazione di Bologna, si ottengono solo risposte vaghe.

Hanno vinto loro: quelli che le bombe le hanno messe, quelli che hanno compiuto gli attentati, quelli che hanno organizzato, quelli che hanno depistato. Quanti, a livello politico, hanno goduto della destabilizzazione, della strategia della tensione, che ha bloccato il progresso di questo paese e la crescita delle sinistre (o quanto meno una alternanza politica).

Persone che hanno avuto tutto l'interesse affinché la storia nera della nostra democrazia, cresciuta tra compromessi, il tradimento di chi aveva lottato per essa, rimanesse nascosta.

I cittadini non dovevano sapere della pista nera dietro Piazza Fontana che dalle formazioni neo fasciste portavano su su fino a pezzi dei servizi, delle istituzioni, alle coperture politiche fino agli interessi oltre oceano (negli anni 50 l'ambasciatrice USA a Roma chiedeva di mettere fuori legge il PCI).

Ecco perché, anno dopo anno, da parte delle istituzioni le celebrazioni per questi accadimenti si sono via via più svuotate di contenuti: la strage di Milano nel dicembre 1969? Opera di pochi terroristi (a fatica si dice fascisti).

E cosa è successo quella mattina del 16 marzo 1978 a Roma?

Qualcuno, i più informati, risponderà dicendo che quella mattina un commando delle Brigate Rosse rapì il presidente della DC, uccidendo gli uomini della scorta: il vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, alle guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, al maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e all’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.

Molti nemmeno se lo ricordano più, quel giorno, chi fosse Aldo Moro, chi fossero le Brigate Rosse. Cosa stava succedendo quel giorno: il primo governo della Repubblica nato col supporto esterno del PCI, il più forte partito comunista nell'Europa occidentale, quella che doveva rimanere saldamente nell'orbita atlantica.

Sono passati così tanti anni da quel giorno, l'unica verità che circola e che purtroppo è diventata l'unica verità è quella che si basa sulle dichiarazioni dei brigatisti (non pentiti) Morucci e Moretti. 

Perché di fatto la "verità" delle BR faceva comodo ai brigatisti (unici responsabili del rapimento e della morta senza alcuna etero direzione) ma faceva comodo anche al partito della fermezza, quello per cui con le BR non si tratta. 

Peccato che questo sia stato vero per Aldo Moro e basta, perché per Ciro Cirillo lo Stato ha trattato con la camorra.

La verità di comodo che si è consolidata assolve tutti dai loro peccati, la DC, le istituzioni.

Ma rimane una verità che fa acqua da tutte le parte: se volete fare un approfondimento esistono dei libri sul "caso Moro", a cominciare dal saggio di Stefania Limiti (Complici - ed Chiarelettere). Ieri sera nella sua trasmissione Atlantide, Andrea Purgatori assieme al magistrato Donadio (che ha fatto parte della commissione Moro) ne hanno discusso lungamente: il mistero della moto apparsa in via Fani dopo la strage, la notizia passata su Radio Città Futura, il mistero della Mini Morris accanto al luogo dell'agguato (di proprietà di società dentro cui troviamo esponenti del mondo dei servizi). Il mistero del covi, di via Gradoli, del finto comunicato numero 7, il ruolo del falsario Cucchiarelli, il ruolo della P2. Fino alla morte di Aldo Moro: nella versione ufficiale le BR avrebbero attraversato Roma per lasciare il cadavere nel centro della città.

Che paese sarebbe stato se Moro non fosse stato ucciso? Se quel rapimento fosse stato sventato? Forse un paese diverso, non possiamo saperlo.

Sappiamo quello che Moro ha lasciato: lo spiegava sempre ieri sera l'attore Fabrizio Gifuni, chiedendosi come mai le lettere di Moro (e l'analisi che ha fatto della storia politica di questo paese a partire dal dopoguerra) non siano costante oggetto di studio (come quello fatto da Miguel Gotor per Einaudi). 

Sono un ritratto di quella classe politica poi presente alla cerimonia funebre senza la bara del morto, come Moro stesso aveva chiesto, nessun rappresentante delle istituzioni al mio funerale.

Quella cerimonia funebre era il funerale della prima repubblica, che iniziò a morire nel 1978 per spegnersi poi con Tangentopoli e il crollo del muro di Berlino.
Hanno vinto loro, non la democrazia, non il paese, non la classe politica nel senso alto del termine. 

14 marzo 2023

Presadiretta - mal di plastica

La plastica dura in eterno, dovremmo usarla con maggiore consapevolezza: lo si scopre andando a pulire le spiagge dove si trovano, come racconta nell’anteprima il servizio di Presadiretta, anche i tappi con la scritta Moplen.

La plastica è eterna e dura anche pochi attimi, quella usa e getta: non solo inquina anche prima di entrare in commercio, come succede a Brindisi al Petrolchimico. Sulle spiagge davanti la struttura industriale Greenpeace ha rilevato una elevata concentrazione di granuli di plastica.
Da questi granuli si ricavano gli oggetti a noi familiari: tutte le persone cresciute su questa spiaggia si ricordano di questi granuli colorati con cui, da bambini, si giocava anche.
I granuli si sono presi la spiaggia, si ritrovano nel mare: finché non si bonificherà l’area davanti il polo di Brindisi non se ne uscirà, si continuerà ad inquinare l’acqua e l’aria. Sono granuli che si trovano nelle pance dei pesci, per arrivare dentro l’uomo.
La domanda di plastica continua a crescere nel mondo e questo causa il maggiore inquinamento di granuli nell’ambiente, fuoriusciti dalle industrie o dai container che trasportano la plastica, a causa di incidenti e degli sversamenti in mare.
Eni-Versalis nega che quei granuli dipendano dalla loro produzione: dal 1991 l’azienda sta provando ad arginare la dispersione dei granuli, senza successo.

Lo studio epidemiologico nella zona del Brindisimo mostra un aumento del rischio delle malattie gravi, tumori maligni, del pancreas, eventi coronarici acuti, malattie respiratorie: sono stati rilevati anche aumenti dei ricoveri nei bambini sotto l’anno.
L’impianto Eni Versalis è stato bloccato nel 2020, dopo la fuoriuscita di sostanze nell’aria dannose per la salute dell’uomo: c’è l’inquinamento per la plastica e anche quello per la sua produzione.
Si è arrivato al 2022 prima di avere delle centraline che monitorassero l’aria attorno agli impianti, con un ritardo di vent’anni.

Il 98% della plastica al mondo si produce dal petrolio e dal gas: i primo venti produttori di plastica al mondo sono anche aziende nel settore petrolifero come Exxon e Totale.
La plastica monouso contribuisce ai cambiamenti climatici spiega Dominique Charles a Presadiretta: conviene produrre plastica vergine piuttosto che riciclarla, il rapporto è 20 a 1 tra plastica nuova e riciclata. Di questo passo, continuando a produrre troppa plastica, riempiremo il mondo: solo il 9% di plastica si ricicla, il resto finisce nei mari oppure abbandonato nei campi. Ma finisce anche nel profondo del nostro corpo.

La plastica nel sangue
Amsterdam, dipartimento di immunologia dell’università: qui i ricercatori hanno ipotizzato che l’esposizione alla plastica portasse ad una contaminazione nel sangue. La ricerca ha dimostrato questa tesi: la plastica è anche dentro di noi, ci scorre nelle vene sotto forma di microplastice (sotto i 5 mm fino ai micron).
Sono microplastiche provenienti da materiali che usiamo tutti i giorni: il polimero più trovato è quello delle bottiglie di plastica, poi il polistirolo, infine la plastica dei giocattoli e dei cosmetici.
Quali gli effetti di queste microplastiche? Porteranno a nuove malattie? Ancora non lo si sa, raccontano ad Asmterdam, ma stanno facendo altre ricerche in tal senso.

Studiano come reagiscono i globuli bianchi alla presenza di microplastiche: le cellule che fanno da spazzini si mangiano anche queste microplastiche, come i virus o le cellule morte, ma ancora non si sa se poi le “cellule spazzine” muoiono.
Le microplastiche si trovano anche nell’urina, nelle feci e nella parte più profonda dei polmoni.

Paolo Tremolada è un professore dell’Università degli Studi di Milano che ha studiato come la plastica è entrata nel nostro corpo: la plastica può sprigionarsi quando si scalda un contenitore di plastica, dalle gomme delle macchine, dal rubinetto dell’acqua, che scorre nei tubi, dall’aria negli uffici (dove c’è meno ricambio d’aria).
Negli ambienti chiusi respiriamo plastica tramite fibre sottilissime che arrivano dai nostri vestiti: la sorgente più comune è quello dei materiali sintetici che indossiamo, come il pile. A lungo termine non è detto che sia così innocuo – ammette il professor Tremolada.

All’università di Milano hanno fatto un esperimento, hanno estratto dal filtro di una asciugatrice circa mezzo grammo di microfibre su un kg di capi sintetici messi nel cestello: la piccola matassa è stata poi consegnata al laboratorio di medicina rigenerativa del policlinico di Milano per capire che effetto possa avere sui polmoni respirare queste sottilissime fibre sintetiche.
Lo spiega la dottoressa Lorena Lazzari: nel laboratorio hanno elaborato un modello sofisticato che, partendo da una biopsia che con opportuni a queste cellule staminali presenti in essa, riusciamo ad ottenere quello che è un piccolo organo, vengono infatti chiamati organoidi, che è tridimensionale con tutte le cellule che il polmone umano presenta.

“Una volta ottenuto questo piccolo modello di polmone umano abbiamo unito le microplastiche ottenute dal professor Tremolada al nostro organoide” racconta la dottoressa a Presadiretta “scoprendo che all’inizio avevano inglobato la plastica e alla fine abbiamo valutato se funzionalmente producevano dei fattori nocivi, abbiamo visto questo fattore che è peculiare dell’infiammazione.”
Tradotto in termini più semplici significa che le cellule dell’organoide, che è un modello vivente dei nostri polmoni, ha sofferto all’impatto con queste microplastiche.

La plastica inquina i fiumi, i mari e anche la terra. Così, mangiata dagli animali, assorbita dalle piante, entra nel nostro organismo.

I ricercatori di Catania hanno elaborato un sistema innovativo per analizzare porzioni minuscole del cibo, analizzando frutta e verdura presa dal biologico e dal supermercato. Hanno trovato microplastiche ovunque, senza distinzione tra bio e meno.
Racconta alla giornalista di Presadiretta una dottoressa dell’università di Catania, “fino a poco tempo fa non immaginavamo che venissero assorbite da questi organismi vegetali, perché la parte che viene assorbita è di difficile osservazione”. Sono le particelle più piccole, quelle di pochi millesimi di mm quelle più spesso trovare nel cibo e anche le più insidiose per la salute, perché capaci di entrare in circolo nel sangue.
Assieme all’università di Messina hanno fatto uno studio su un pesciolino, messo a contatto con le microplastiche: “abbiamo esposto un pesciolino molto piccolo in un acqua ricca di particelle di polietilene blu, le microplastiche, che sono di 10 micron, quindi moto piccole, e sono state assorbite dai tessuti circostanti. ”
Una parte delle larve del pesciolino morivano, non si cibavano più, “ci siamo resi conto che diventavano cechi, non si orientavano più nell’ambiente circostante, non riuscivano a nutrirsi e quindi morivano di stenti e di fame.”
Quando noi assorbiamo delle microplastiche, parte viene eliminata con le feci, ma una parte viene assorbita nei nostri tessuti: se ne sono accorti anche a Catania, con l’analisi del sangue: “in un 1 ml di sangue abbiamo trovato centinaia di particelle dai 3 micron in giù, nonostante io cerchi di eliminare la plastica dalla mia tavola, dalla cosmesi, ma è veramente complicato, perché poi in realtà gli alimenti poi la contengono, quindi noi per via alimentare siamo esposti ma anche per via inalatoria”.

Esiste una correlazione tra microplastiche nel sangue e il tumore nel colon retto? Sappiamo che le microplastiche bene non fanno al nostro organismo: l’analisi della risposta delle cellule staminali sottoposte alle microplastiche ha rilevato effetti di infiammazione, ma gli effetti generali devono ancora essere studiati.
Le cellule di plastica che respiriamo arrivano nel cervello, potrebbero causare malattie degenerative, potrebbero causare malattie come il diabete: dovremmo ridurre al massimo l’utilizzo della plastica, chiedendo sempre meno plastica, perché è il mercato che orienta l’industria.

Ma anziché ridurre la plastica, spediamo tonnellate di plastica in giro nel mondo, pensando che sia riciclata.
Lo ha scoperto Presadiretta in Turchia, ad Adana: in mezzo ai palazzi in costruzione c’è una discarica illegale di rifiuti di plastica, proveniente dall’Italia.
Sono balle di plastica che provengono dalle aziende di riciclo nella zona: plastica europea che i cittadini hanno differenziato e che i paesi hanno venduto alla Turchia perché venisse riciclata, come consente la normativa europea.
Ma alla fine la Turchia non ha riciclato nulla e la plastica è finita nei terreni attorno ai grattacieli di questa città poi colpita dal terremoto.
L’esportazione verso la Turchia è cresciuta del 500% dopo che la Cina ha smesso di prendersi la nostra plastica: le aziende del riciclo devono lavare la plastica quando viene triturata e così si inquinano anche le acque dei fiumi, che in Turchia sono molto inquinati.
Quello che succede in Turchia è che la plastica viene bruciata oppure gettata nel terreno, perché riciclarla veramente costa troppo.
Così nell’ambiente si rilasciano metalli pesanti, in zone dove sono presenti campi coltivati, dove gli animali vengono allevati all’aperto.
“Non ci sono confini, se si inquina una parte del mondo, si inquina tutto il mondo” racconta a Teresa Paolo un ricercatore dell’università di Adana a proposito della plastica europea (e italiana) che finisce qui. Ma arrivano in questi campi anche rifiuti illegali, come pezzi Tetrapak: che conseguenze ci sono per gli abitanti in questo distretto del riciclo?

Le discariche a cielo aperto hanno inquinato i terreni con diossina e furano, raccontano da Greenpeace Turchia: il governo turco sta ora cercando di mettere un freno a questi comportamenti, ma ci sono le pressioni delle aziende del riciclo.
L’Europa non si interessa se queste aziende in Turchia fanno veramente riciclo, pur sapendo che il servizio offerto ha un costo inferiore rispetto ad altri paesi.
Pur sapendo che a lavorare in queste aziende del riciclo ci sono rifugiati siriani e perfino bambini che raccolgono la plastica in strada o che lavorano nelle fabbriche del riciclo.

Sono fabbriche dove ancora si divide la plastica europea a mano, senza nessuna tecnologia sofistica: l’odore che sale da queste fabbriche impesta le case costruite vicino. La plastica viene bruciata di notte, quando la gente dorme, ma le persone se ne accorgono lo stesso, per l’odore.
E i controlli del governo turco? “Noi non ce ne siamo accorti” racconta a Presadiretta una signora che vive attorno a queste aziende del finto riciclo.
Il Parlamento Europa nel gennaio 23 ha votato una norma per vietare l’esportazione della plastica fuori dall’Unione Europea: vedremo cosa succederà dopo la negoziazione, se prevarranno gli interessi ambientali e della salute o altri interessi. E vedremo se si riuscirà a combattere le esportazioni illegali di rifiuti, come quelle che vengono scoperte al porto di Brindisi.

Altro che economia circolare, i consorzi e le aziende dovrebbero verificare gli impianti a cui mandano i loro rifiuti.
Ma in realtà l’Europa ha la coscienza sporca, manda i rifiuti in Turchia a basso prezzo senza vedere come viene riciclata.

Ma quanta plastica può essere riciclata?
Ogni volta che compriamo qualcosa, compriamo anche della plastica, che va differenziata e che arriva negli impianti di recupero come quello di Caivano.
Cosa succede in questi impianti? La verità sul riciclo è amara: non tutta la plastica può essere riciclata, le macchine dell’impianto e i lettori ottici non riescono a gestire tutte le tipologie di plastica, divise per colore e polimero.
C’è molta plastica che non può essere riciclata, come quella nera, come il polistirolo, le reti (come quelle per le patate): questi imballaggi vengono così bruciati.

Il 50% della plastica differenziata viene bruciata: tocca a noi consumatori scegliere i prodotti che hanno un minor impatto sull’ambiente. Per esempio Plastica vuol dire non riciclabile, anche se è presente il simbolo del riciclo. Lo stesso vale per le vaschette degli affettati, le buste della mozzarella …
Il codice di identificazione della plastica è stato inventato in America, ma molte aziende lo usano come prodotto di marketing: l’azienda della plastica non ha fatto abbastanza per il riciclo ed è stata inerte per troppi anni, colpevolmente inerte.
La plastica non è riciclabile, dobbiamo esserne consapevoli: le aziende petrolchimiche in America nel 1991 avevano promesso al Congresso di costruire 15 nuovi impianti di riciclo, ma alla fine ne è rimasto solo uno, perché riciclare veramente ha un costo non sostenibile.

IL professor La Mantia ha studiato la plastica per anni: i polimeri differenziati hanno caratteristiche meccaniche diverse dalla plastica vergine, la plastica mista non ha speranze dunque di utilizzo nel mondo, da una bottiglia di PET si può al massimo creare delle fibre con cui fare il pile.
Non si devono costruire prodotti con più polimeri assieme perché impossibile da riciclare spiega il professore.
Per esempio il brik di Estathè della Ferrero: l’azienda ha firmato un accordo per impegnarsi a produrre altri brik, ma nei prossimi anni.

In Francia la multinazionale Danone è stata accusata da diverse associazioni di consumatori di non fare abbastanza per il riciclo: le minacce di azioni legali però non sempre bastano, servirebbero leggi severe a livello nazionale ed europeo.
Ma le leggi sul riuso hanno sollevato critiche dai paesi europei, come in Italia da parte di Confindustria che si è opposta alla normativa europea: riuso e riciclo però non sono in contrapposizione, possono funzionare assieme.
Dal 2030 sul mercato ci deve essere solo plastica riciclabile o compostabile, l’altra plastica non deve esserci più, almeno questa è la promessa.

Che fine ha fatto la bioplastica?
Poco più del 50 % delle bioplastiche sono biodegradabili, questa è la prima notizia. Le bioplastiche derivano da fonti vegetali, ma non possono essere gettati come rifiuti organici: le bottiglie di bioplastica rimangono tali come quelle di plastica, anzi possono essere anche peggio per l’ambiente.

A Padova hanno fatto degli studi sulla biodegradabilità del PLA: la sua biodegradabilità si ferma però al 40%.

Ci sono impianti, come a Montello, dove la bioplastica diventa compost, attraverso degli enormi “digeritori”: servirebbe una raccolta a parte delle bioplastiche, ma c’è uno scontro tra chi gestisce gli impianti e il consorzio Biorepak.

Meno plastica per tutti

Nonostante le proteste delle nostre industrie, ridurre e riusare la plastica (specie quella usa e getta) si deve e si può fare, come han mostrato i servizi dalla Francia e dalla Norvegia.
In Norvegia la plastica viene messa da parte e portata nei supermercati: è la plastica su cauzione, 20 o 30 centesimi di euro che vengono consegnate alla cassa.
Il sistema di deposito cauzionale funziona in Norvegia: non si vedono bottiglie di plastica in giro perché tutti sanno che queste hanno un valore.
Qualsiasi chiosco, qualsiasi supermercato è obbligato a pagare una cauzione, a prescindere da dove sia stata acquistata la bottiglia, perché il sistema è centralizzata.

A gestire i resi c’è un ente non profit che dalle bottiglie ricava le balle di PET e di alluminio: ogni bottiglietta può essere riciclata, in un ciclo virtuoso, solo l’1% dei contenitori rimane fuori da questo sistema, che coinvolge tutti, dall’industria ai consumatori.
E in Italia? Enzo Favoino racconta di come in Italia si disperdano miliardi di bottigliette ogni anno, con un costo a carico dei comuni, le aziende del settore raccontano che non convenga il deposito cauzionale, ma in realtà senza deposito non si arriverà mai al 90% di plastica riciclata o riusata come chiede l’Europa.

Possiamo riusare le bottiglie con le borracce e lo stesso possiamo fare con i flaconi dei detersivi, con lo shampoo, riempiendo barattoli all’infinito: anche i nostri comportamenti singoli possono fare la differenza.
In Francia hanno bandito le plastiche monouso, anche nei bar, con una legge ancora più ambiziosa della direttiva europea: niente imballaggi per frutta e verdura nel supermercato, niente bottigliette nei bar. È aberrante imballare dentro la plastica la banana o la verdura – racconta la ministra per la transizione energetica in Francia (si, anche da loro esiste un ministero del genere, ma diversamente da noi lavora per l’ambiente).