30 luglio 2021

Tutti felici

Tutti felici oggi, sia i contiani come Il Fatto (brutta immagine in copertina, ma è una mia opinione) sia i giornali dell'area governista.

La mediazione di Conte salva alcuni reati ma non altri. Una vittoria?

Tra i reati esclusi, scrive Il Manifesto, mancano i reati che riguardano l'ambiente.

Non solo, novità di questa riforma un vecchio pallino di Berlusconi, l'indicazione delle priorità sui reati da perseguire da parte del parlamento, ovvero da parte del governo. E non mi sembra una novità da poco.

Sembra una mediazione che, da una parte non risolve proprio tutte le criticità ma che serve a far dire a tutti che hanno vinto loro.

Come se fosse una gara e non una riforma che riguarda la giustizia per tutti.

Sempre a proposito di numeri e notizie che possono essere lette in più modi: ieri Unioncamere e Confindustria Lombardia  a Palazzo Lombardia raccontavano ai giornalisti dei numeri della ripresa di questo trimestre dove stiamo crescendo molto di più rispetto allo scorso anno.

Certo, c'è la ripresa, ma è una ripresa che non porta ad un aumento di occupazione stabile.

E anche questa non è una cosa da poco, anche qui al nord dove le aziende si stanno ristrutturando.

28 luglio 2021

Politicamente

Le frasi del direttore del Fatto hanno fatto partire una polemica (sui social, il paese aveva altro di cui occuparsi): vergogna, dare del figlio di papà ad una persona che ha perso il padre.. 

Eppure l'accusa più pesante è l'altra, dove Travaglio ha usato un'espressione molto poco fine: ma politicamente ci capiscono qualcosa Draghi e Cartabia?

Politicamente, per cosa verrà ricordato Draghi?

Per l'indirizzo conservatore (fintamente riformista) che ha dato al suo governo? Per aver riportato Berlusconi e Salvini al governo?

Per il wathever it takes nel voler riportare gli studenti in presenza (e come, con quale piano)?

Per una riforma della giustizia che viene sventolata come uno scalpo, come ai tempi del jobs act e dell'articolo 18? Rendere improcedibili i processi dopo 2,3 anni per poter dire, visto, abbiamo tempi certi per la giustizia?

Per lo sblocco dei licenziamenti i cui effetti stiamo vedendo in queste settimane (e il peggio ancora deve venire temo)?

Oppure verrà ricordato per la sua campagna vaccinale, assieme al condottiero generale Figliuolo: AstraZeneca si, AstraZeneca no, obbligo vaccinale si, obbligo forse. Niente assembramenti o forse no, per festeggiare la nazionale (grazie Draghi per aver portato la coppa in Italia).

Essere un leader politico significa avere una visione, politica, saper dare risposte ai problemi e alle richieste che arrivano dal paese.

Paese che si appresta a ricevere i soldi del recovery e che spenderemo in un piano che dovrebbe trasformarlo, renderlo efficiente, veloce, sicuro e non solo sulla carta.

Avete visto le immagini dei nubifragi in Lombardia e nelle altre regioni del nord?

Cosa facciamo? Vogliamo abituarci al fango, alle case e alle strade sommerse dall'acqua?

Sotto che voce mettiamo i costi dei cambiamenti climatici e della cementificazione del territorio? E' debito buono o cattivo?

E il fatto che sempre in questo paese che si stringe a coorte quando c'è bisogno di retorica a buon mercato per affrontare un'emergenza si sia bloccato l'ascensore sociale, è un problema o no?

L'affermazione di essere figlio di papà, ovvero che in questo paese contano più le relazioni, le amicizie, dove nasci e da quale famiglia nasci, che non le tue capacità, è un problema oppure no? (E ogni riferimento al caso Leonardo/Tabacci non è casuale).

La risposta la deve dare il Draghi politico, non il banchiere o il salvatore della patria.

26 luglio 2021

La neve era sporca, di Georges Simenon

 


Senza un avvenimento fortuito, il gesto di Frank Friedmaier avrebbe avuto quella notte un'importanza relativa. Evidentemente Frank non aveva previsto che il suo vicino di casa Gerhardt Holst sarebbe passato di là. Il fatto che Holst era invece passato e l'aveva riconosciuto cambiava tutto; ma Frank accettò sia il fatto che le conseguenze.

Ecco perché ciò che avvenne quella notte vicino al muro della conceria fu ben diverso, per il presente e per il futuro, da una perdita, diciamo, di verginità.

Questa è la storia di un ragazzo cresciuto troppo in fretta che crede di conoscere tutto il mondo e che invece scoprirà il mondo e la verità troppo in fretta e, paradossalmente, al chiuso di una cella.

Frank Friedmaier si chiama così: il romanzo di Simenon è ambientato in un paese del nord Europa, non conosciamo il nome, nemmeno conosciamo la nazione dell'esercito che lo sta occupando, nel corso di una guerra.

Possiamo immagina siano i tedeschi e che la nazione possa essere la Francia, come l'Olanda o la Danimarca.

Ma non importa, volutamente l'autore non ha voluto dare indicazione per far sì che questo racconto possa avere un valore universale.

Che non ha nulla a che vedere con la guerra o con l'occupazione in sé. E' la storia di una crescita, di una scoperta del mondo, di un ragazzo diciannovenne, figlio di una tenutaria di una casa di tolleranza, “tollerata” dalle forze di occupazione e dalla polizia. Forse un po' meno dai vicini di casa di Lotte, questo il suo nome.

Doveva essere una bella donna, una volta e lo è anche adesso. Ma a Frank non importa, non importa nulla del mondo che gli sta attorno.

Cresciuto da una balia, come scopriremo passo dopo passo, nemmeno ha dovuto far fatica a scoprire l'amore, quello fisico intendo. Avendo a disposizione le ragazze della casa.

Come Berthe la campagnola o Minna, la timida ragazza che forse lo ama.

Sempre neve sporca, tutta quella neve che pare marcita, con tracce nere e incrostazioni di detriti. La polvere bianca che ogni tanto si stacca dalla volta celeste, a piccole dosi, come il calcinaccio da un soffitto, non giunge a coprire quel sudiciume

E' sporca la neve che Frank calpesta con le sue scarpe, tanto costose che i suoi vicini di casa non possono permettersi.

Ed è la metafora dello sporco che sta attorno a Frank, delle sue amicizie, piccoli criminali che si vantano in pubblico di loro misfatti, veri o inventati.

Non importa, anche Frank vuole crescere, in tutti i sensi e per questo deve togliersi la verginità uccidendo una persona.

Non gli importa chi sia questa persona, un sottufficiale dell'esercito occupante, un eunuco che passa le serata ad ubriacarsi. E non gli importa nemmeno che un suo vicino lo abbia riconosciuto nel buio, in quel vicolo, col coltello in mano.

Da qui in poi, è una discesa verso il basso, con nuove azioni criminali, senza preoccuparsi troppo di nascondersi, di nascondere quella rivoltella rubata al primo morto, di nascondere quel malloppo di soldi guadagnati rubando degli orologi per conto di Kramer, un altro balordo, conosciuto nel bar di Timo.

Forse era vero: non era triste, ma non provava nemmeno il bisogno di ridere e scherzare. Restava sempre impassibile, ed era questa la cosa che sconcertava

Simenon ci porta dentro la mente di Frank, in questo percorso criminale, che per lui è una scoperta del mondo e della verità: una mente che è allo stesso tempo semplice e complicata, innocente anche se sicuramente colpevole. Non vuole sentire pietà e non vuole suscitare pietà né riconoscenza dalle persone che gli stanno attorno.

Perché è cresciuto così, con la balia che lo chiamava piccolo Frank, con la madre che veniva a trovarlo ogni tanto, mettendosi il vestito buono.

Non ha potuto avere pietà per quel gatto che, ferito, era scappato in cima ad una albero e che qualcuno aveva abbattuto a fucilate (un ricordo della sua infanzia che gli torna in mente). E lo stesso adesso non può provare pietà per Minna e forse nemmeno per Sissy, la figlia del vicino che si è innamorata di lui.

E' buffo. Ha trascorso la maggior parte della sua vita – la maggior parte! - a odiare il destino, di un odio quasi personale, al punto da inseguirlo fin negli angoli per sfidarlo, per azzuffarsi con lui.

Ed ecco che, d'un tratto, quando non ci pensa più, il destino gli fa un regalo.

Ma il destino che Frank ha sfidato fino a quel momento, bussa alla sua vita e il ragazzo che era finito dall'altra parte del fosso, riesce a pensare, riesce a vedere il mondo di fuori, forse per la prima volta. Paradossalmente, come dicevo, al chiuso di una cella che in realtà è una scuola, di fronte ad un funzionario “anziano” dell'esercito di occupazione che deve interrogarlo.

Scopre il mondo, attraverso i gesti quotidiani di una donna che si affaccia al balcone di casa e che lui spia dalla sua finestra. Fino ad un finale di redenzione.

Solo Georges Simenon poteva scrivere un racconto del genere, con un personaggio così difficile da comprendere e che non suscita nessuna simpatia.

Sporco come la neve che calpesta, come il mondo dentro cui è cresciuto, vigliacco e viziato.

La scheda del libro sul sito di Adelphi

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25 luglio 2021

Dimmi che curriculum hai

Dunque da politico eletto, l'ex ministra Dadone non può permettersi di criticare la riforma Cartabia, e minacciare le dimissioni, perché non ha il cv all'altezza (come dice Burioni, prima studiate e poi commentate i miei tweet).

E quando fai notare che altri magistrati, da Cafiero De Raho, Ardita, Gratteri, Teresi, critinano il meccanismo dell'improcedibilità, la risposta è quanto mai chiara, "se Gratteri critica la riforma significa che va bene".

E questo la dice lunga sul livello di tifoseria attorno a questo governo (ma vale anche per i precedenti).

Fateci sapere allora che CV serve per fare una critica alla riforma. 

Ragionamento che vale anche al contrario: chi non ha cv a livello, stia zitto.

E tanti saluti alla democrazia parlamentare, alla discussione civile delle leggi dell'esecutivo (quello competente certo).

PS: andrà bene il giudizio di Gaetano Azzariti, docente di diritto alla Sapienza (intervistato oggi sul Fatto Quotidiano)? 



24 luglio 2021

L'eroismo oggi è resistere

 «Non ci sono più gli eroi» disse lei mentre si rivestiva, fingendosi delusa. «Oggi l’eroismo è resistere» ribatté il commissario improvvisamente serio.

Reo Confesso Valerio Varesi

Oggi l'eroismo è resistere a questa restaurazione spacciata per riformismo competente.

Come fanno quelli che dieci anni criticavano il processo breve, la riforma di Alfano per salvare l'allora presidente del consiglio Berlusconi dai processi. Ma noi, che resistiamo, abbiamo ancora memoria e non ci facciamo prendere in giro dagli influencer che parlano di riforma della giustizia attesa da vent'anni, senza cui non avremo soldi dall'Europa.

Resistere a questa assuefazione al ritorno al passato: il fossile, il gas, perfino il mini nucleare perché la vera svolta ecologista non ce la possiamo permettere. Quando invece non possiamo permetterci di continuare ad inquinare il pianeta, l'aria, la terra, il mare con plastiche, rifiuti tossici, co2.

Resistere a queste polemiche su greenpass, dittatura sanitaria e diritti tolti. Quando a settembre riprende la scuola e poco è cambiato, quando ad ottobre si tornerà in ufficio usando i mezzi pubblici.

E per qualcuno il problema purtroppo nemmeno si pone. Saranno quelli lasciati a casa in nome della restaurazione, della ristrutturazione, del boom economico che passa per lo snellimento del personale, dei contratti, dei rami secchi.

Oggi eroismo è resistere alla tentazione di mollare tutto, lasciar perdere, dimenticare.

Dimenticare il G8, Genova, le violenze. Dimenticare Borsellino, la trattativa, il tabù delle torture di stato e del rapporto mafia politica.

Dimenticare la sanità regionale, feudo dei politici e dei loro fedeli, che non verrà toccata.

Dimenticare tutto.

22 luglio 2021

Reo confesso di Valerio Varesi

 


Solo lasciandosi avviluppare dalla noia è possibile sperimentare il sussulto vitale dello stupore. Camminando nel parco Cittadella, Soneri rimuginava questo pensiero osservando la città dall’alto dei bastioni come dalla merlatura di un castello. Era lo stupore a rendergli ancora sopportabile il mestiere di poliziotto.

Scaturiva dal praticare quella sorta di chirurgia della vita altrui che viola l’epidermide dell’apparenza irrompendo di colpo nell’intimo svelato nella nudità della morte.

In una fresca mattina di autunno, in un tempo presente, al commissario Soneri capita quello che, per molti investigatori, potrebbe essere il miglior colpo di fortuna. Imbattersi accidentalmente in una persona, “reo confesso” di un delitto appena commesso.

Una fortuna, un caso che si chiude senza nemmeno doversi aprire, se non per tutte quelle rogne (dal punto di vista investigativo) previste dal codice penale: avvisare il magistrato, garantire assistenza legale alla persona, chiamare la scientifica.

Quest'uomo, che per la sua immobilità all'inizio viene scambiato per un cadavere, inizia a raccontare del suo “esperimento”, rimanere fermo e vedere se qualche persona si interessa lui, cosa difficile in tempi dove siamo disinteressati al prossimo, per timidezza. O per diffidenza, aggiunge Soneri.

«È la prima persona che si è interessata a me» balbettò trasognato l’uomo dando l’idea di parlare a se stesso.

E poi, di punto in bianco, quelle parole: «Ho ucciso un uomo».

Una confessione in piena regola, quella che fa a Soneri questo signor Ferrari: al commissario da il nome della persona che ha ucciso, Giacomo Malvisi e l'indirizzo dove trovare il corpo.

Anche le indicazioni su dove andare a recuperare l'arma del delitto, gettata lungo una roggia vicino alla casa del morto, che poi è un quartiere dove Soneri è cresciuto da giovane.

Conosceva molto bene quella via nel popolare quartiere Montanara, alla periferia sud di Parma. Ci era cresciuto in quella specie di confine tra case e campi,..

Ma è una confessione che a Soneri dà fastidio: all'inizio perché pensa di trovarsi di fronte ad una strana forma di mitomane. Poi, quando il suo ispettore Musumeci effettivamente trova una persona morta all'indirizzo indicato da Ferrari, perché non riesce a decifrare l'atteggiamento dell'assassino che si trova di fronte, il reo confesso.

Perché Ferrari si dimostra stranamente lucido e sereno, come se non fosse nemmeno turbato da quello che ha appena confessato: aver ucciso una persona per vendetta, una rivolta contro una persona che lo aveva tradito, perché “il tradimento presuppone la peggiore umiliazione: quella di farti sentire inetto.”

A peggiorare le cose arriva la scoperta che l'avvocato che difenderà Ferrari è proprio Angela, la sua compagna: come mai una persona che si sta autoaccusando di un delitto, fornendo agli investigatori tutti gli elementi per condannarlo, sceglie proprio uno dei migliori avvocati della città?

«Sospetto sempre delle cose troppo facili. La verità non è mai facile.»

«Un reo confesso come ce ne sono tanti» minimizzò Angela.

«Un reo confesso freddo, quasi compiaciuto. Quanti ne hai visti?»

Tutto troppo facile, troppo lineare, troppo semplice per Soneri. Lo dice alla sua compagna, lo dice anche al magistrato che conduce le indagini, la pm Falchieri.

E condivide i suoi dubbi anche con i suoi collaboratori.

Forse è malfidenza nei confronti di questa persona che più che un assassino, sembra uno che voglia confessarsi al suo prete per avere una assoluzione dei suoi peccati.

Forse perché il morto era una persona quanto più distante possa esserci con lui: figlio di un commercialista che aveva gestito i patrimoni della Parma bene, il giovane Giacomo Malvisi aveva bruciato i soldi della famiglia e anche i soldi delle persone che a lui avevano affidato i beni. Come il signor Ferrari, l'assassino confesso.

Aveva subito diverse minacce, si era ridotto a cambiare posizione per lo studio, dal centro ad un quartiere di periferia. Ma lo stesso amava vivere la sua vita a base di lusso, di droga e di donne.

O forse la sua è solo curiosità. Quella cosa che gli permette dopo tanti anni di continuare a fare il poliziotti e occuparsi di delitti e criminali.

O persone come il truffatore che sta mettendo in ridicolo la Mobile: si tratta di una persona che è abile nel truffare piccoli imprenditori, presentandosi di volta in volta con un volto e un travestimento diverso, una volta postino, una volta grossista, per le sue truffe.

Un suo collega, uno meno curioso e meno capace, in tanti mesi non ha combinato nulla e ha lasciato a Soneri questo fascicolo.

Ormai vedevano il truffatore in ogni dove. La città pareva ronzare di una tensione elettrica e tutto ciò gli creava una molesta apprensione.

Indagine che si rivela più complesso di quanto Soneri pensasse: per l'abilità del truffatore nello sfuggire alla tela che la polizia gli ha teso attorno, perché attorno a questo caso sta montando una certa tensione da parte dei giornali, dei politici locali, in nome della sicurezza, attaccando la polizia che non riesce a difendere gli inermi cittadini ..

La soluzione del caso del truffatore arriverà grazie ad un suggerimento di un ex nobile decaduto che, diversamente dal morto, il Malvisi, ha perso la sua fortuna spendendola per il bello, per l'arte, per il suo gusto estetico. Per trovare la soluzione deve usare l'immaginazione, perché il suo fiuto, il suo mestiere di investigatore, sembra tradirlo, sia per l'indagine sul truffatore che per il delitto del consulente finanziario.

Per la prima volta Soneri si sente trasportato dagli eventi, non è più lui a condurli e se fa un passo avanti è solo per un caso. O grazie all'immaginazione.

Gli pareva di essere costantemente anticipato e sopraffatto dagli accadimenti. Annaspava ignaro sentendosi trascinare dagli accadimenti

L'indagine sul truffatore dai molti travestimenti e dai molti volti diventa metafora dei tempi che sta vivendo: anche per quella maledetta mascherina che si deve indossare, per la pandemia stiamo diventando tutti irriconoscibili, rendendo difficile capire chi ti sta di fronte.

Vale per le persone che vivono nella tua stessa città ma che fanno parte di circoli esclusivi, dove si entra in base al conto corrente.

O anche le persone che lavorano al tuo fianco, che Soneri ha sempre tenuto a distanza per quel disprezzo istintivo, fino ad arrivare alla compagna della vita, Angela, con cui deve portare avanti uno difficile rapporto, essendo per la prima volta da due parti diverse della barricata. L'avvocata e l'inquirente.

Camminando solitario per le vie di Parma, immerso nella nebbia, seguiremo Soneri immerso nei suoi pensieri, fino ad arrivare alla soluzione del delitto, una “pièce così umana da essere assurda quanto la vita”.

Mai come in questo romanzo non riuscivo a non pensare al Maigret di Simenon: certo siamo a Parma e non a Parigi, non ci sono le luci sfavillanti di bistrot e locali perché la nebbia avvolge tutto, ci si sente come in un bozzolo dentro cui si è al sicuro.

Ma le sensazioni sono le stesse: quelle che prova un investigatore curioso che osserva il mondo che sta fuori, alle prese con le meschinità degli uomini, nascosti dietro le maschere dell'ipocrisia e con un suo senso etico che, in questo caso, non potrà coincidere con la legge che deve rispettare.

La scheda del libro sul sito di Mondadori

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20 luglio 2021

Genova venti anni dopo

 

Immagine presa da Varese news

Venti anni fa a Genova sono state sospese le garanzie costituzionali dei cittadini italiani, la più grave violazione dei diritti umani avvenuta in Italia dal dopoguerra, la definì Amnesty.

Venti anni fa cittadini che manifestavano per le strade di Genova sono stati picchiati, torturati, insultati, privati della libertà senza che avessero commesso reati.

E tutto questo è stato fatto dalle forze dell'ordine di uno stato democratico.

La cronaca dei tre giorni di Genova, in quell'inutile G8 dove i grandi della terra si arrogavano di decidere per tutto il mondo su commercio, immigrazione, mercati, è stata già raccontata da tanti. Da Carlo Lucarelli in una puntata di Blu Notte (dove si parla di reflusso della strategia della tensione), al libro di Gianni Agnoletto “L'eclisse della democrazia - Feltrinelli”, fino al racconta fatto da un agente della Digos che era in piazza proprio in quei giorni, “Genova G8 2001– cronaca di un disastro annunciato di Gianluca Prestigiacomo Chiarelettere”.

Il clima di tensione creato da veline dei servizi (quali saranno state le fonti), la gestione della piazza lasciata a poliziotti che avevano poca esperienza di manifestazioni, i black bloc lasciati arrivare, sfilare, devastare la città per poi sparire all'arrivo dei reparti.

Le manganellate col tonfa, indiscriminatamente a tutti, i gas lacrimogeni (urticanti e anche pericolosi), i proiettili sparati, la carica inutile e scellerata contro il corteo delle tute bianche, la reazione dei manifestanti, il fuggi fuggi, l'aggressione al defender dei carabinieri e quel colpo di pistola al volto di un ragazzo, colpevole di voler lanciare un idrante vuoto ad una jeep da una distanza di 4 metri.

Ancora oggi si parla della teoria strampalata del sasso che ha deviato il colpo di pistola, la tesi con cui un giudice della procura di Genova ha archiviato tutto. Nessun processo.

Me la ricordo ancora quella sceneggiata del vicequestore contro uno dei manifestanti: “bastardo, sei stato tu, col tuo sasso...”

E poi l'assalto alla Diaz. La notte cilena su Genova: non deve succedere mai, in una democrazia che si ritiene tale, che le persone debbano temere l'arrivo della polizia, che debbano avere paura per la loro incolumità.

Non deve succedere che le persone siano picchiate, insultate, umiliate, torturate, una volta che sono nelle mani dello stato, come le persone finite nel carcere di Bolzaneto.

No, la democrazia non c'era in quei giorni a Genova. Non c'era quando la polizia non ha collaborato con le indagini della procura. Non c'era quando la politica, il governo, i vertiti della polizia hanno scelto di non vedere.

Non sono poche mele marce, non è stato solo il comportamento di pochi agenti e funzionari.

Come ha raccontato il pm Zucca (che ha seguito le indagini sui fatti della Diaz) nell'intervista a Il Manifesto, non ci si improvvisa torturatori, non si imparano certe cose in un giorno.

Il filo rosso delle varie condanne della Corte di Strasburgo negli ultimi 20 anni dimostra che quando la tortura emerge è solo apparentemente sporadica. Si ha infatti paura di riconoscere che la tortura è per sua natura “istituzionale”, perché ha necessità di tecniche, addestramento e pratica: non esiste neppure nella fiction il “torturatore solitario”. Già dai tempi del G8 il fenomeno doveva essere affrontato come tale. Non si tortura alla Diaz e a Bolzaneto se non si è già capaci e pronti a farlo. Con Genova 2001 appare chiara un’altra cosa: i diritti garantiti dalla democrazia e scritti nelle carte fondamentali non lo sono tuttavia per sempre e ad ogni costo, come il modello presuppone. I fatti del G8 hanno mostrato ciò che sarebbe poi successo in questi due ultimi decenni durante i quali si è praticata la tortura non più nel segreto ma cercandone, dopo secoli, una qualche giustificazione legale.

E secondo lei perché questo avviene?

Io credo che questo avvenga quando una democrazia ha paura del conflitto e, quindi, muta la sua stessa caratteristica. Sono d’accordo con chi sostiene che il modo migliore per difendere la democrazia sia quello di attaccarla con le critiche, la protesta e il dissenso. Così la si rafforza non la si indebolisce.

C'è qualcosa di sbagliato dentro le forze dell'ordine, che si sono opposte ad una legge sulla tortura (spalleggiati dai partiti di quella destra non democratica sempre difesa dai giornali governativi), ad un numero di identificazione sulle divise.

E c'è qualcosa di sbagliato nelle nostre istituzioni se hanno paura delle critiche, dei movimenti, delle piazze, del dissenso. E questo valeva venti anni fa e vale ancora oggi, dove dobbiamo aspettarci mesi di forte tensione per il Covid e per la crisi innescata dalle ristrutturazioni industriali (anche qui, senza regole, senza una visione, senza che lo stato possa dire qualcosa).

Tutto questo è successo a Genova in quei giorni in cui in piazza c'era una moltitudine di persone, da tutto il paese, da tante associazioni diverse, non solo le “zecche comuniste” (definizione che identifica come FASCISTA chiunque la pronunci), che chiedevano un mondo diverso da quello che avevano in mente i grandi della terra davanti alla tavola apparecchiata da Berlusconi.

Avevano ragione quelle persone: la critica ad una globalizzazione senza regole, ad un mercato senza regole, la questione ambientale e sugli immigrati.

Si è voluto criminalizzare, quell'insieme di movimenti, quelle persone e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze.

19 luglio 2021

Il paese dei ricatti

Borsellino e la sua scorta (immagine presa da Antimafiaduemila)

Deve essere un vizio per questo paese e per le sue istituzioni, quello di dover subire ricatti da persone ed entità senza titoli.

L'ultimo caso, la trattativa stato – Bonucci per poter sfilare su un pullman scoperto per le vie di Roma, altrimenti disertiamo l'incontro col presidente del consiglio (e ci portiamo via la coppa).

Ma 29 anni fa lo stato italiano subì un ricatto ben peggiore da entità di tutt'altra natura e per altri fini: parliamo della stagione delle bombe della mafia, del ricatto allo stato, della trattativa stato mafia (sempre presunta per gli irriducibili della teoria “è stata solo mafia”) e delle vittime di questa guerra contro lo Stato che costò decine di vittime innocenti.

Tra queste, i due giudici Giovanni Falcone, ucciso con la moglie e la scorta, il 23 maggio 1992 sull'autostrada per Palermo a Capaci. E Paolo Borsellino, ucciso assieme alla sua scorta 58 giorni dopo, con un'autobomba in via D'Amelio.

Quegli anni di bombe, contro uomini dello Stato e contro obiettivi dal valore simbolico, di strani incontri tra mafiosi e uomini in divisa (gli ufficiali del ROS De Donno e Moro con Ciancimino), di 41 bis tolti da ministri in solitudine (l'ex ministro Conso), sono un buco della nostra storia.

Un buco che ha inghiottito le vite delle vittime, che ha sporcato la credibilità delle istituzioni, quelle che ogni anno celebrano i due santini, Falcone e Borsellino, ma che poco fanno per fare vera luce sulle zone d'ombra.

Perché pezzi dello stato, a cominciare dall'ex Questore La Barbera (lo stesso della Diaz a Genova, ma questa è un'altra storia), hanno messo in piedi la finta pista del pentito Scarantino, poi spazzata via da un altro pentito, Gaspare Spatuzza che nella sua ricostruzione tira in ballo persone esterne alla mafia?

Perché è stato ucciso in quel modo Giovanni Falcone, facendo saltare in aria un pezzo di autostrada, quando era più semplice colpirlo a Roma?

Cosa stava facendo di così importante, pericoloso per cosa nostra (e forse non solo), Falcone a Roma al ministero?

E perché Borsellino è stato ucciso, solo dopo 58 giorni, con un altro attentato così rumoroso? Riina non sapeva che lo stato avrebbe dovuto rispondere, quanto meno per dare l'impressione di un paese allo sbando?

Sono tanti i misteri ancora da risolvere dietro queste stragi, dietro queste bombe: se è stata solo mafia, se Borsellino è stato ucciso perché voleva riprendere in mano il rapporto del ROS su mafia e appalti, come mai i depistaggi, la sparizione dell'agenda rossa, come mai, anno dopo anno, si è cercato di smontare quelle riforme volute proprio da Falcone per contrastare cosa nostra? Dai pentiti, ai tentativi di ridurre la portata del 41 bis, dell'ergastolo.

Oggi, se fosse vivo, Borsellino sarebbe attaccato dai garantisti all'italiana, per le sue parole oggi dimenticate:

.. si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l'ha condannato, ergo quell'uomo è onesto… e no! [...] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be' ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest'uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest'uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!

D'altronde, e anche questo va ricordato in questo paese senza memoria, o con una memoria che filtra quello che deve rimanere nascosto, tabù, pochi ricordano che da vivi Borsellino, Falcone, il pool, furono attaccati per il loro lavoro. Giudici comunisti, che vogliono attaccare la DC, gli imprenditori siciliani. Si è parlato di teorema Buscetta, quasi a voler sminuire le sue rivelazioni su cosa nostra, struttura unitaria e verticistica.

Ci vorrebbe ora un altro Buscetta, da dentro lo stato, da dentro le istituzioni, per togliere il velo finalmente a questo tabù dei rapporti stato mafia.

Rapporti che si basano su ricatti, sul potere dei soldi, sul condizionamento della politica, non solo quella siciliana perché la mafia, o meglio, le mafie, sono un problema nazionale.

Prima che questo paese torni a respirare “quel fresco profumo di libertà” evocato dallo stesso Borsellino in uno dei suoi ultimi discorsi, serve sciogliere questo rapporto tra stato e antistato.

La lotta alla mafia deve tornare nelle agende del governo, non solo con singoli provvedimenti di legge (come la legge sul voto di scambio, modificata dal governo Conte), ma deve coinvolgere anche imprese, sindacati, mondo della finanza, professionisti.

I discorsi di circostanza, che sentiremo oggi, dove si parla di lotta alla mafia, della vittoria dello stato, del sacrificio degli eroi, i due giudici e gli uomini delle scorte (Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e poi Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro), suonano come discorsi vuoti, di circostanza.

Perché non tutti si sono dimenticati del sistema Montante, l'ex presidente di Confindustria Sicilia (e paladino della lotta alla mafia sulla carta) la rete di spionaggio che lo informava delle inchieste a suo carico.

Dell'inchiesta che ha coinvolto il consulente della Lega per energia Paolo Arata, assieme a Paolo Nicastri, il re dell'eolico vicino a Messina Denaro, boss della mafia latitante da più di 30 anni.

Che un partito di governo, che regge l'attuale maggioranza, è stato fondato da una persona condannata per mafia, Dell'Utri, coinvolto anche nel processo sulla trattativa Stato Mafia.

Sono passati più di trent'anni da quel 19 luglio 1992, non bastano i santini della lotta alla mafia, dobbiamo arrivare ai mandanti di quelle stragi, a chi ha ordinato i depistaggi di Stato, a chi ha protetto la latitanza dei boss, da Riina a Provenzano a Messina Denaro.

Spezzare il legame tra mafia e politica, rompere l'omertà di imprenditori e professionisti che non denunciano le pressioni le minacce.

Rivedere il sistema degli appalti togliendo i massimi ribassi, rinforzando i controlli su imprese appaltanti.

Sempre che si voglia fare vera lotta alla mafia.


18 luglio 2021

Il paese dei diritti fittizi

Si fa un gran parlare oggi del green pass, obbligatorio o no: renderlo obbligatorio anche per entrare nei bar e nei luoghi dove potrebbe esserci un assembramento, oppure lasciare le cose come sono (cioè indefinite, al momento), dove non si capisce ancora bene cosa farne di questo green pass.

I contrari al green pass e ai suoi obblighi tirano in ballo i diritti delle persone: perché obbligarmi al vaccino, con le due dose, se voglio andare al bar, in ristorante, in luoghi al chiuso con altre persone?

Sono le stesse persone che ci ripetono la favoletta che non si può ingessare il mondo del lavoro, perché di troppi diritti si muore (forse l'ha detto anche Marchionne).

Vale più il diritto ad un lavoro con un salario dignitoso o il diritto a farsi una bella cenetta nel ristorante preferito?

E non dovrebbe esserci anche il diritto alle cure? Tutti i TG ripetono che nonostante la ripresa dei contagi per la variante delta, la pressione sugli ospedali è in calo.

Provate voi a prenotare una visita, oppure un intervento, per vedere cosa vi rispondono? Se i morti e malati in terapia intensiva calano, come mai negli ospedali (e parlo per esperienza personale) ci sono code di attesa lunghe?

Altra vittima sacrificale di questi giorni di nuovo rinascimento, di ripartenza, di orgoglio nazionale è la scuola che a settembre ripartirà portandosi dietro tutti i problemi che abbiamo lasciato sotto il tappeto. Assenza di personale, aule piccole e non sempre a norma, traporto pubblico insufficiente.

Ma sì, meglio scontrarsi sul green pass, sulla dittatura sanitaria, sulla libertà di infettarsi e di infettare gli altri.

17 luglio 2021

Tempo cinque o sette anni e il problema dei negazionisti dei cambiamenti climatici nemmeno si porrà più.

Gli effetti delle nostre azioni, presenti e passate, sul clima, saranno a tutti evidenti, anche qui in Italia: la serie di alluvioni che sono avvenuti in Germania, in Belgio e parzialmente anche in Svizzera, sono solo un assaggio di quanto dobbiamo aspettarci, come anche le stagioni roventi nei paesi del nord del mondo.

Già ora è tardi per agire, eppure sembra di assistere all'ultimo ballo sul Titanic: a Milano ad esempio le prossime elezioni comunali verteranno sul tema dello stadio (e della nuova colata di cemento per costruire strutture commerciali o case di lusso), sulle piste ciclabili da togliere, sull'affare immobiliare dei privati che metteranno mano agli scali ferroviari su cui sorgeranno gli alloggi olimpici.

A Venezia forse riusciremo a togliere le navi dai canali, che forse passeranno per Marghera, dove serviranno però altri lavori (e altri soldi pubblici) per farle passare.

Mentre la Germania finisce sott'acqua, contando morti e dispersi, qui si discute ancora di idrocarburi, di stoccaggio del gas sotto il mare (coi soldi del PNRR), di nuove opere come il ponte di Messina. Il ministro della presunta transizione ecologica, che ha speso parole a favore del mini nucleare, ha tagliato fondi ai parchi, alle nostre aree verde, al nostro polmone.

Quante persone dovranno ancora ammalarsi per l'aria inquinata delle nostre città?

Tempo pochi anni e il susseguirsi di eventi drammatici (come la tempesta in Veneto di due anni fa che distrusse la foresta degli abeti rossi), la continua erosione delle coste e la sparizione delle spiagge, saranno la norma – racconta a Il Manifesto il climatologo Pasini - e ci metteranno di fronte al fatto compiuto. E, come da canovaccio, i responsabili dell'inazione o delle scelte sbagliate (sul cemento, sui trasporti, sulla cura del territorio, sulla transizione ecologica non fatta), daranno la colpa ai verdi, agli ambientalisti, a quelli che sanno dire solo di no.

14 luglio 2021

Tutto è perdonato

 


Nel giorno della presa della Bastiglia noi potremmo celebrare la presa della pastiglia.

Non quella per il mal di testa, ma la pastiglia di Matrix, quella offerta a Neo, pillola blu o pillola rossa?

Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant'è profonda la tana del bianconiglio. Ti sto offrendo solo la verità, ricordalo.

Noi celebriamo a pillola azzurra: la vittoria dei campionati europei (grazie Draghi), la finale a Winbledon, i record nella vaccinazione (grazie Figliuolo), il boom che ci aspetta dietro l'angolo, la crescita del PIL, la fine della dittatura sanitaria: finalmente possiamo abbracciarci (grazie Veltroni), possiamo scendere in piazza ed esultare!

Tutto è perdonato e dimenticato.

La sanità territoriale, senza le nomine clientelari, senza la logica dei profitti al privato.

La scuola in presenza (scuola che non è più ascensore sociale, ora c'è il calcio).

I traporti pubblici potenziati (non solo per evitare assembramenti al chiuso).

L'aria delle città che uccide e avvelena migliaia di persone ogni anno.

Una ripresa economica e industriale che non si basi solo sul precariato, sui bassi salari, sul far west normativo, sul caporalato.

Tra un po' dimenticheremo anche gli sforzi fatti per arrivare ad una legge sui diritti civili, il DDL Zan, affossato dalle manovre di palazzo dei due Mattei.

Ci dimenticheremo del reddito di cittadinanza perché basta sussidi per tenere i fannulloni sul divano, i sussidi devono andare solo alle imprese come la Gianetti (che li ha presi dalla regione Lombardia di Fontana e della Lega, per poi delocalizzare).

E ci dimenticheremo anche delle violenze di Santa Maria Capua Vetere: altro che numeri identificativi, altro che legge sulla tortura, altro che commissione di inchiesta.. 

Dimentica, Neo.

13 luglio 2021

G8. Genova 2001 – storia di un disastro annunciato di Gianluca Prestigiacomo

 


Annus horribilis 2001

Tornare ai fatti di Genova vent'anni dopo, per raccontarli dal punto di vista umano e professionale di un operatore della Digos che li ha vissuti in prima persona, come si suol dire, sul campo.

Ecco il senso di questo libro. Non avrei mai immaginato di trovarmi in un contesto come quello del G8, in cui lo Stato, attraverso i suoi rappresentanti, fece l'esatto contrario di quello che, con gli istruttori, insegnava durante i corsi di aggiornamento o di formazione professionale.

Quello che è successo nei tre giorni del G8 di Genova, venti anni fa, è stato immortalato in tanti scatti, in migliaia di video che hanno mostrato gli scontri, le manganellate, le devastazioni fatte da parte dei black bloc, il sangue e il fumo.

Mancava, fino ad oggi, il racconto da parte di un agente di polizia che era per strada e che ha visto tutto e che ha cercato di ricordare tutto.

Ci sono state, al processo per le violenze alla Diaz, le testimonianze di Michelangelo Fournier, il funzionario del settimo reparto Mobile che si rese responsabile della mattanza nella scuola.

Ma gli errori, fatti in modo consapevole, le scelte di come gestire la piazza, visti dalla parte di chi indossa la divisa e dunque rappresenta lo Stato, quello mancava ancora.

Per questo il lavoro che l'ex agente della Digos di Venezia, Gianluca Prestigiacomo, è così importante: perché smonta, una per una, tutte le giustificazioni sentite in questi anni da parte dei vertici della polizia. Il “non si poteva fare diversamente”, “avevamo ricevuto dai servizi notizie allarmanti” ..

A Genova, in quei giorni di fine luglio 2001, le cose avrebbero potuto andare diversamente, ci dice l'autore, anche lui chiamato assieme ai colleghi delle altre Digos a gestire la piazza, a cercare una mediazione coi manifestanti, a far si che fossero rispettati i diritti di tutti. Il diritto alla sicurezza, da parte dei cittadini genovese e anche il diritto a manifestare.

Altrimenti non si chiama più democrazia. Altrimenti crolla tutto come un castello di carte: non tutti i poliziotti e i carabinieri che sono stati a Genova in quei giorni si sono macchiati dei reati e degli errori commessi, ci sono stati uomini in divisa come Prestigiacomo.

Ma l'atteggiamento tenuto dai vertici della polizia, dagli uomini a capo di quel governo (dal presidente Berlusconi al ministro Scajola) e dalle opposizioni (tentennanti sulla commissione di inchiesta) fa venire cattivi pensieri, sulla tenuta democratica di questo paese.

Il 2001 fu l’anno dello «spartiacque». Fu la fine del terrorismo che avevamo conosciuto a partire dagli anni Settanta, la fine delle strategie militari mirate – a modo loro – a mantenere la pace nel mondo. Basti pensare ai rapporti tra Russia e America: tensioni che avevano solo scopi politici, più che militari.

In quell'anno ci fu il cambio di governo, l'attacco alle Torri Gemelle, la scoperta di quanto fossimo vulnerabili al terrorismo islamico, in Occidente. Erano anni in cui il mondo si apriva in modo sconsiderato al mercato, alla globalizzazione senza regole, senza tener conto delle disuguaglianze, dove i grandi della terra si riunivano attorno ad un tavolo a parlare di commercio (anche delle armi) tenendo fuori i paesi poveri. Ancora oggi paghiamo il prezzo di quella mancanza di visione, chi era in piazza a Genova (e prima ancora a Seattle), stava dalla parte della ragione

Le violenze e le devastazioni del blocco nero, del cui arrivo a Genova si sapeva, nulla inficiano di quella manifestazione oceanica, dove dentro trovavi persone così diverse ma unite nel chiedere un mondo diverso.

Sotto i colpi della violenza, il dissenso venne fatto passare per un atto da condannare. Al contrario, il vero obiettivo di quel vertice fu nascondere con finte teorie ciò che stava accadendo.

E invece le cose andarono in modo diverso: è un passaggio su cui l'autore torna più volte, sul perché di quella devastazione, sul perché di certe scelte sbagliate. Come se ci fosse una volontà politica nel marchiare quel movimento politico e sociale come composto solo da violenti.

Come se ci fosse la volontà politica di nascondere le proteste e anche di nascondere quel G8, l'inutile G8 delle cui discussioni nulla è rimasto.

Il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi e si stava apprestando a organizzare la più grande celebrazione del nulla, il summit dei potenti, utile solo a offuscare le reali intenzioni del nuovo assetto economico internazionale.

Stava per mostrare al mondo intero che avrebbe dato una sonora bastonata alla sinistra italiana e a tutti i dissidenti, a ogni forma di contestazione. Non c'era occasione migliore per accreditarsi al cospetto delle forze economiche e politiche del momento, soprattutto agli occhi dell'amico George Bush. L'unica a non capire che cosa stesse accadendo fu forse proprio la maggioranza dei rappresentanti della cosiddetta sinistra.

A Genova è successo che la gente comune scappasse di fronte a persone in divisa. Che persone per strada siano state picchiate selvaggiamente senza alcun motivo. Che persone in divisa abbiamo fabbricato prove false per accusare delle persone di reati gravi.

Che delle persone siano state arrestate solo per risollevare l'immagine della polizia di fronte all'opinione pubblica.

Che di fronte alle domande dei PM i vertici della polizia, funzionari e agenti abbiamo tenuto un atteggiamento omertoso, impedendo l'identificazione dei responsabili della mattanza alla Diaz

.. coloro i quali crearono prove false, impedendo anche la libera contestazione, di fatto furono il braccio armato di un potere molto più ampio, che riuscì a portare il mondo intero verso la catastrofe sociale.

Dopo anni di indagini, per l'impossibilità di identificare gli agenti che hanno compiuto i reati a Bolzaneto, nella Diaz, si è arrivati alle condanne dei soli vertici della polizia, i De Gennaro boys di cui parla il giornalista Marco Preve nel suo saggio “Il partito della polizia”.

… i colpevoli sono stati condannati, ma dopo avere «pagato» il conto con la giustizia, alcuni di loro sono rientrati in servizio. Un «regalo» che permise – o sta permettendo – proprio a quei fedeli di arrivare alla pensione.

Non una parola di scuse, di rammarico da parte della politica, né quella di destra che a Genova ha voluto mostrare i muscoli, colpendo i movimenti e che poco tollera(va) il dissenso.

E nemmeno da parte del centro sinistra, che pochi mesi prima ai tempi del Forum di Napoli (dove la polizia andò a prendere i manifestanti dagli ospedali), era al governo.

Da una parte rappresentanti dello stato zelanti di fronte ad un meccanismo di potere che premia i fedeli del capo, calpestando i diritti delle persone sentendosi sicuri della loro impunità.

Dall'altra parte persone che, nello Stato, nei suoi rappresentanti in divisa ci credevano.

L'autore riporta nel libro uno spunto interessante, a proposito dei mandanti delle violenze al G8, citando un episodio legato alla carica sconsiderata fatta contro il corteo autorizzato delle tute bianche: mentre era alla testa del corteo assieme ad un altro collega della Digos, fu fatto allontanare da “strani” personaggi, armati di mazze, che si erano presentati come servizio d'ordine del corteo. Molto probabilmente erano provocatori, infiltrati nel corteo. Poco dopo il loro allontanamento, partì la carica dei carabinieri.

Tante cose non sarebbero accadute – è il rammarico che si porta dietro – se avesse fatto, se avesse potuto fare altre scelte.

Gli scontri in piazza Alimonda, magari anche la morte di Carlo Giuliani.

Sono passati vent'anni, è arrivato il momento di fare luce su tutte le zone d'ombra rimaste attorno al G8 di Genova con una vera commissione di inchiesta per arrivare ai veri mandanti: lo si deve nei confronti delle persone ferite e umiliate, lo si deve fare anche per dare credibilità a queste istituzioni che, come scrisse una volta Sciascia, se non vogliono essere vilipese devono esserci, non essere strutture vuote.

I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

12 luglio 2021

La vittoria agli europei

Se si esclude qualche quotidiano locale e Domani, la prima pagina di tutti i quotidiani riguarda la vittoria agli europei della nostra nazionale ieri sera a Wembley contro l'Inghilterra, padrona di casa.

Vittoria sofferta a cui si è arrivati alla fine dei calci di rigore, quella famosa "lotteria" che negli anni passati ci aveva spesso punito.

Nelle finale delle competizioni internazionali, sei volte avevamo perso i rigori (nel mondiale in Italia, nel 1994 negli USA) e tre volte avevamo vinto.

Questa volta è andata bene: non basta essere bravi, dal dischetto serve anche lucidità, non aver paura e un po' di fattore c, quello che nel passato è mancato.

Vittoria meritata per una ragione: dopo il gol a freddo, abbiamo un po' sbandato, ma poi pian pianino ci siamo ripresi, abbiamo iniziato a fare noi gioco, abbiamo iniziato a far paura agli inglesi.

Considerando i giocatori che abbiamo perso, gli infortuni, siamo stati bravi: più della squadra allenata da Southgate, che non ha dimostrato la giusta maturità per imporsi.

Ma, ricordiamoci, oggi è un altro..

11 luglio 2021

A 20 anni dal G8 – la criminalizzazione del dissenso

 Per certi aspetti i cosiddetti liberali, che si palesavano solo quando il vento era loro favorevole, cavalcavano la tesi secondo cui la contestazione si poneva fuori dai confini costituzionali. Perciò, contestazione e dissenso rientravano in un ambito eversivo.

Non c'era una distinzione, e forse non c'è neanche oggi, nel 2021. Sventolare il timore che il periodo storico del terrorismo possa riattualizzarsi, nel tentativo di far presa su una parte dell'elettorato con la paura che il contenzioso politico potrebbe sfociare in una situazione di crisi, pare diventata una costante a partire dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

Anzi, probabilmente tale strategia (della tensione) potrebbe addirittura risalire al Piano Solo (1964), il fallito colpo di stato progettato dal generale dell'Arma dei carabinieri Giovanni De Lorenzo. E' una strategia che abbiamo visto anche nel 1994, quando forze liberali e pezzi di una destra che già mostrava desideri fascisti, mentre l'inchiesta Mani pulite scemava, si misero assieme nel tentativo - neanche tanto velato - di riportare al governo un modello conservatore. Ma questa è un'altra storia.

G8. Genova 2001 Gianluca Prestigiacomo - Chiarelettere (i link per ordinarlo su Ibs e Amazon)

Questo non è un paese che ama molto il dissenso, anzi, è un paese dove prevale la logica del servile omaggio al capo del momento, sapendo che costui saprà essere riconoscente.

Leggete i giornali come oggi raccontano la finale dei campionati europei a Londra, mettendoci sopra un cappello politico (per l'aria nuova che si respira con Draghi).

I licenziamenti che iniziano a sbocciare qua e là nel paese alla faccia dell'accordo non vincolante tra Confindustria e sindacati? Cose che succedono.

Le nomine fatte dal governo per reclutare i consulenti che valuteranno gli impatti del Pnrr: persone competenti e chi le critica viene tacciato di brigatismo.

Il pezzo citato è parte del libro scritto da un agente della Digos che venti anni fa era presente a Genova durante il G8: vale oggi quanto scritto dall'autore venti anni fa, tutto quanto è in contestazione con la narrazione prevalente, specie se riguarda movimenti di massa, deve essere attaccato, criminalizzato, in modo che non possa far presa nelle persone l'idea che possano esistere altre soluzioni, altre idee, altri mondi.

Allora si parlava di globalizzazione, dell'immigrazione dai paesi poveri, tenuti fuori dai tavoli dei potenti.

Oggi si parla di soluzioni economiche fallite ovunque e che nonostante questo vengono riproposte: detassazione dei redditi alti, deregolamentazione, flessibilità massima, una giustizia per chi se la può permettere, una sanità pubblica che rimarrà nelle mani dei privati.

A chi protesta, come i sindacalisti del Si Cobas, le manganellate dei vigilantes privati e i fogli di via. E poi i processi per aver violato le norme sulla sicurezza, per i blocchi per strada, davanti le aziende.

A chi contesta la riforma della giustizia, la patente di forcaiolo giustizialista.

10 luglio 2021

La sabbia brucia, di Fausto Vitaliano

 


San Telesforo Jonico

Piazza Regina Margherita

5 luglio 1982, giorno del famoso Italia – Brasile 3-2 ai Mondiali di calcio in Spagna

I primi due, vale a dire Nicola e Gregorio, avevano fatto le elementari al paese disopra, presso la scuola intitolata al celebre poeta dell'altitàlia Giovanni Pascoli. Stavano addirittura nella stessa sezione, la A, quella maschile, ma non si può dire che fossero amici. Non erano nemmeno vicini di banco: uno, Nicola, stava seduto in prima fila per via del fatto che era il figlio del medico; l'altro, Gregorio, vagava a centro classe dato che lui il padre non ce l'aveva [..]

Il terzo, Michele, andava alla Marina, alla scuola elementare dedicata a un altro famoso poeta, Giacomo Leopardi, che di origine era più che altro del centro, mezza collina con vista mare.

Il secondo romanzo di Fausto Vitaliano con protagonista il maresciallo Gori Misticò (il primo è "La mezzaluna di sabbia" Bompiani) è in realtà una sorta di prequel, un salto all'indietro nel passato che racconta come e quando Misticò fu trasferito in quattro e quattr'otto da Milano, dal nucleo investigativo dove dava la caccia ai terroristi, in Calabria, nella piccola caserma del suo paese nativo.

Ma l'autore ci regala anche un altro pezzo della sua infanzia, degli anni in cui si cementò la sua amicizia con Nicola, il futuro medico che poi dovrà anche prenderlo in cura, e Michele, il terzo del gruppo morto giovane, investito da un camion a 16 anni.

Tutto nacque il giorno in cui questi tre ragazzi si ritrovarono nella piazza del loro paese: mentre l'intera nazione seguiva la partita di calcio Italia Brasile, loro decisero che quei ghiri tenuti nella gabbietta da Rosaròne dovevano essere liberati.

Ecco, se dovessimo stabilire un momento in cui tre dodicenni di nome Michele, Gori e Nicola divennero amici per sempre - o, almeno per il tempo che venne loro concesso - fu quando Michele, Gori e Nicola si resero conto che quella storia l'avrebbero potuta sapere solo loro, che nessuno, a cominciare dal padre di Michele, avrebbe mai potuto avere notizia di quanto accaduto.

Andando avanti e indietro con la storia, scopriremo cosa è successo a Milano, tanto da far saltare l'operazione sotto copertura del maresciallo, la sparatoria con una ragazza dentro la cellula di terroristi che l'aveva riconosciuto, la notizia della sua identità finita sui giornali.

La scelta di lasciare Milano, il suo lavoro di investigatore, la ragazza con cui aveva una relazione. Scelte, fatte anche con sacrificio, ma anche con l'idea di non lasciarsi nulla alle spalle.

Questo andare a ritroso nel tempo passato, il passato di Gori Misticò, è interrotto da brevi pagine di “preludio”. Perché lo scorso romanzo era terminato con un viaggio, a Milano, per fare quell'operazione contro quel suo male, tanto a lungo sottovalutato.

Ma anche questi interludi, dove vediamo il bisturi del chirurgo entrare nel suo corpo per operare, la mente di Gori vaga nella sua memoria. Chi è quella persona sulla spiaggia che crede di conoscere? E quelle altre persone, da quale anfratto dei suoi ricordi sono usciti?

E dopo un'altura, ecco lo Jonio, tale e quale a come Misticò se lo ricordava: un minuto oceano dolce e feroce, come la terra che bagnava. Le spiagge lunghe e bianche, deserte, ideale approdo per chiunque volesse essere accolto o depredato. Anche quella terra era amorevole e vendicativa, che se la amavi ti amava, ma appena ti distraevi ti chiedeva severamente conto. [..] La verità è che la Calabria è una parentesi chiusa in mancanza di una aperta. Arrivi qui per terminare il discorso, non per cominciarlo.

E cosa è venuto a fare qui, Gori Misticò?

Nel paese di San Telesforo lo attende una caserma in malo stato, un appuntato molto timido e impacciato, una piazza con i tre “fenomeni” del bar, 'u filosofu, 'u saputu e 'u rinatu. Nessun delitto, nessun caso di cui occuparsi, giornate passare una uguale all'altra.

Nel mezzo, una breve indagine sul furto di una reliquia in chiesa, un osso di San Bartolomeo, una indagine che lo porterà in mezzo ai boschi, nella “Timpa d'o Perdùtu” ad inseguire un pastore che ha scelto di stare da solo, come atto di amore estremo.

In queste lunghe giornate la vita di Gori si incrocia con quella di una comunità di “fratelli”, che vivono assieme presso Villa Algìda: sono i fratelli di Demetra, il nome che si è data la loro santona, Regina Filangeri. Una comunità che accoglie persone che dietro hanno una storia di sofferenza e che in questa comunità, è stato promesso loro, potranno ricevere un percorso per uscire da questo dolore.

La gente muore in continuazione”, aveva detto a un certo punto Regina. “E chi sopravvive vuole trovare pace.”

I primi volantinaggi li organizzarono fuori da chiese e cimiteri. La voce si sparse rapidamente e in breve non ci fu più bisogno di andare a trovare discepoli addolorati: arrivavano da soli. Di lì a poco il problema fu selezionare. Charlou accettava solo quelli messi finanziariamente meglio e più facilmente manovrabili..

Persone sole, con un lutto alle spalle, manovrabili, che per non affogare nel dolore hanno solo bisogno di una nuova comunità dentro cui ritrovarsi. E a cui affidare i loro beni.

Per credere nelle parole di Demetra, per sentirsi tutti fratelli. Come le api in un alveare, dove ciascuna ha il suo ruolo: chi operaia, destinata a lavorare per gli altri, chi fuco e chi ape regina. Come Regina appunto: un'ape regina che ama circondarsi di giovani fuchi da amare e poi mangiare, con cui anche Gori intreccia uno strano rapporto.

C'è anche un'indagine vera, con dei morti, che comincia alla fine del racconto: un'indagine su fantasmi, di padri e di bambini abbandonati (in una storia speculare a quella di Gori), a testimonianza del fatto che questo non è solo un racconto giallo, un noir.

La sabbia brucia è un racconto, con buone dosi di houmor, quasi interamente incentrato su questo strano investigatore, sulla sua fuga dal mondo, sul suo continuo guardarsi alle spalle, al suo passato, sulla sua solitudine, sulla sua perdita di identità.

In fondo, pensava Gori, è quello che facciamo tutti – ci mimetizziamo per difenderci o per attacca, per dissuadere un attacco o per nasconderci e passare inosservati.

A volte la solitudine e la perdita di identità si facevano difficili da sopportare. Le pastiglie magiche gli consentivano di sopportare il problema...

Ma viene un momento in cui non si può più scappare, “perché il passato è passato, nessuno può cambiarlo. Al limite si può cercare di capirlo”.

La scheda del libro sul sito di Bompiani.

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09 luglio 2021

La riforma della giustizia e l'uguaglianza della legge

Draghi tira dritto anche sulla giustizia: non essendo Conte o Bonafede, lui può farlo, ovvero impostare una riforma della giustizia come va bene a lui, dove si reintroduce la prescrizione di fatto, con la scusa che lo chiede l'Europa. Cosa non vera, poiché l'Europa chiedeva di avere processi in tempi minori, che non durino anni oppure finiscano nel nulla della prescrizione.

Questa riforma non tocca i tempi dei processi anzi spingerà ancor di più agli imputati che se lo possono permettere di dilungare i tempi, andare sempre in appello. 

Come noi, scrive Antonella Mascali sul Fatto Quotidiano, solo la Grecia fa proseguire la prescrizione va avanti anche a processo in corso.

Ma ce lo chiede l'Europa e dunque è giusto avere un Draghi "schiacciasassi" come lo definisce oggi sul Foglio il direttore Cerasa.

Peccato che a rimanere schiacciate saranno le vittime poco illustri di processi che riguarderanno i potenti: il processo sulle morti per amianto, per la strage di Viareggio, contro le violenze della Diaz e nel carcere di Bolzaneto, il processo per l'avvelenamento dell'Ilva a Taranto, il processo per il crollo del ponte Morandi.

Ma evidentemente non tutte le vittime e non tutti gli italiani sono uguali davanti la legge.

07 luglio 2021

L'arte della mediazione

E' interessante come i renziani (la minoranza più rumorosa su twitter) cerchi di difendere la posizione di Renzi sul DDL Zan, tirando in causa la necessità di una mediazione con la destra.

Meglio una legge con qualcosa di meno che non avere proprio una legge.

Ecco, la figurina del Renzi mediatore politico mi mancava: negli anni d'oro del renzismo, quando approvava riforme costituzionali e leggi elettorali a colpi di canguro me lo ricordavo ben poco mediatore.

E poi, mediare con questa destra? Con Salvini? E dopo queste mediazioni, le aggressioni e gli insulti a trans, lesbiche e gay saranno sempre considerate un reato punibile?

La politica è anche mediazione, tra diversi interessi, ma sempre nel rispetto della Costituzione dell'interesse generale.

Per cui va bene mediare al ribasso sul DDL Zan, mentre nessuna mediazione sullo sblocco dei licenziamenti.

Nessun ripensamento sui soldi alla cosiddetta guardia costiera libica.

Ma in quest'ultimo caso l'interesse generale non riguardava i valori cristiani.

05 luglio 2021

Uno dei primi peccati originali della Repubblica - la morte di Giuliano

 



Il 5 luglio di tanti anni fa il cadavere di Salvatore Giuliano, la prima rossa di Montelepre, veniva ritrovato dentro il cortile di una casa a Castelvetrano, di proprietà di un avvocato presso cui Giuliano aveva trovato rifugio.

La morte di Giuliano, per come fu raccontata dai carabinieri, fu uno dei primi misteri d'Italia, dopo la strage di Portella della Ginestra e i suoi mandanti (di cui Giuliano voleva fare i nomi nel suo memoriale): "l'unica cosa certa è che è morto" titolò l'Europeo con l'articolo del giornalista Tommaso Besozzi.

Uno dei primi peccati originali della Repubblica italiana, nata fra tanti compromessi e con tanti paletti (essere dentro il blocco occidentale impediva l'arrivo delle sinistre al governo, a tutti i costi).

Col tempo ne sarebbero arrivati altri.

Dal G8 di Genova agli accordi con la Libia, di cui finanziamo la cosidetta guardia costiera dal 2017 per quel memorandum firmato da Minniti che il parlamento domani dovrà approvare (sia la destra di Salvini che i partiti di centro sinistra, vorremo mica mettere in crisi il governo Draghi?).

04 luglio 2021

A vent'anni da Genova - storia del G8 di Genova, il disastro annunciato

In occasione dei vent'anni dai fatti di Genova per il G8, è uscito per Chiarelettere un libro scritto dall'allora agente della Digos, Gianluca Prestigiacomo: "G8. Genova 2001. Storia di un disastro annunciato" .

Disastro che costò la vita di un ragazzo, una città distrutta e vandalizzata, ragazzi picchiati e torturato. Un intero movimento politico che chiedeva ai grandi del mondo di essere ascoltati che fu criminalizzato.

Sul Fatto Quotidiano è uscita l'intervista all'autore dove racconta quei giorni

“A Genova c’era un piano per reprimere i no global”

di Alessandro Mantovani | 14 GIUGNO 2021

Vent’anni dopo un poliziotto in pensione racconta in un libro il G8 di Genova e il suo disgusto per la feroce repressione del movimento no global: “C’era un disegno per fermarlo”, dice Gianluca Prestigiacomo, autore di G8. Genova 2001. Storia di un disastro annunciato (Chiarelettere). Simpatizzante della sinistra, era entrato in polizia negli anni 80. Lavorava alla Digos di Venezia, trattava con Luca Casarini e i Centri sociali del Nord-est e a Genova era nel piccolo gruppo di poliziotti in borghese che accompagnava il corteo delle Tute bianche appena trasformate in Disobbedienti, quello con gli scudi di plexiglass che voleva “violare la zona rossa”. Il 20 luglio 2001 il corteo doveva arrivare in piazza delle Americhe, al limite della zona rossa, e invece fu fermato 300 metri prima, all’angolo tra via Tolemaide e Corso Torino, da una carica dei carabinieri di cui nessuno si assunse mai la responsabilità, iniziata dopo un lancio di oggetti da parte di un gruppo di black bloc. Da lì si scatenò l’inferno. Tre ore dopo un carabiniere sparò a Carlo Giuliani, 23 anni e lo uccise. Era una carica illegittima secondo il tribunale di Genova, lo stesso che condannò a pene fino a 11 anni (poi si arrivò a 15) alcuni manifestanti accusati di devastazione e saccheggio.

Lei racconta che prima della carica arrivò un gruppo di persone e vi mandò via, c’era uno con i Ray-ban, un altro disse che erano “del servizio d’ordine dei centri sociali di Roma”. Chi erano?

Eravamo davanti al corteo, a 300 metri da Brignole dove c’era il reparto di polizia schierato. Ci siamo allontanati, altrimenti le avremmo prese da quelli lì. Quando partì la carica un funzionario tirò un bestemmione, diceva “falli tornare indietro”, c’è un filmato su youtube. Quelli erano 5-6, forse una decina. Uno ci filmava con una telecamera. Neanche un bambino avrebbe creduto che fossero dei centri sociali…

I Servizi?

O provocatori, non lo so.

Un funzionario che era nel suo gruppo conferma: “Siamo stati espulsi dal corteo”. Però ritiene che quelli fossero davvero dei centri sociali romani. Poco dopo partì la carica, prima i carabinieri e poi anche la polizia. Se era un errore non bastava fermarsi?

Nessuno capì cosa sarebbe successo, davanti al corteo non c’erano poliziotti in divisa perché così era stato concordato. Il piano era questo: sarebbero arrivati alla zona rossa, avremmo fatto un po’ di teatro, quattro fumogeni, le cose che si facevano allora… E Luca (Casarini, ndr) sarebbe entrato nella zona rossa a fare una conferenza stampa. Ma invece bisognava fermarli, è stato tutto preordinato.

Sì ma era dalla mattina che i dirigenti della polizia non rispondevano al telefono ai responsabili del corteo. Chi ha preordinato? L’uomo con i Ray-ban?

Non è mai stata fatta chiarezza. Bisognerebbe riaprire l’inchiesta, o fare una commissione parlamentare.

Come tanti altri, specie delle Digos di Roma e Milano che conoscevano i no global, lei non andò alla scuola Diaz la sera del 21 luglio. Finì con 87 feriti e 93 arrestati con prove false. Perché non andaste? Cosa avevate percepito?

Non pensi che ci siamo accordati per non andare. Io ero con il mio collega Mirko, era partito l’ordine di arrestare tutti quelli che avevano a che fare con le proteste contro il G8.

Lo riferì al processo, senza che riuscissero a smentirlo, Ansoino Andreassi, l’allora vicecapo della polizia recentemente scomparso. Ma a lei chi lo disse?

Un collega di Genova, non ricordo il nome. Gli diedi il mio numero e gli dissi “se vuoi ci chiami”. Poi ho spento il telefono. Mi sono poi ritrovato, l’ho scritto nel libro, con Pietro Troiani, il funzionario che la sera portò le due bottiglie molotov alla Diaz. Ci ordinò di arrestare due poveretti che non avevano fatto niente. Rifiutai. Non era quello il modo di operare. L’allora capo della polizia Gianni De Gennaro ha partorito quel meccanismo, un sistema repressivo anziché preventivo. Dovevano lasciar fare ad Andreassi.

E invece arrivò Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. Ma secondo lei può succedere ancora quello che è successo a Genova?

No. Gli attuali vertici li conosco. Conosco l’attuale direttore della prevenzione, il vicecapo della polizia Vittorio Rizzi, lo stesso Lamberto Giannini (il capo, ndr) e Franco Gabrielli, che ha detto cose importanti su Genova. Non potrebbe più succedere anche a prescindere da loro. Potrà scivolare la mano, una manganellata, ma non quello. Non avrebbe mai fatto quelle cose neanche Francesco Gratteri (condannato per falso nel processo Diaz nel 2012, interdetto per cinque anni quando di lui si parlava come di un possibile futuro capo della polizia e da allora in pensione, ndr). Passati vent’anni, dovrebbe dire chi gli ha dato l’ordine.

L’ordine di fare cosa? Non credo di massacrare tutti alla Diaz. Di arrestarli con prove false?

Servirebbe una commissione parlamentare per fare domande a tutti, ci sono persone ancora viventi che possono parlare.

Ultima questione. Si è discusso della riammissione in servizio di alcuni dei condannati per la Diaz e per Bolzaneto dopo il periodo di interdizione. La legge italiana lo prevede, la Corte europea dei diritti umani raccomanda invece la rimozione per fatti di tortura o collegati. In entrambi i casi l’Italia è stata condannata a Strasburgo per tortura. Lei come la vede?

Sono stati fatti rientrare solo per farli arrivare alla pensione.

Gilberto Caldarozzi, allora vice di Gratteri e anch’egli condannato per i falsi verbali della Diaz, dal 2017 per due anni è stato numero due della Divisione investigativa antimafia. Per qualcuno era troppo.

Caldarozzi e Gratteri hanno obbedito a qualcuno. Se tu sei il mio dirigente e mi dici “fai questo” io mi fido, anche perché sei quello che mi nomina. Se fosse arrivato un ordine di De Gennaro avrebbero dovuto obbedire. C’era un disegno generale, un contesto, c’era anche Gianfranco Fini (allora vicepremier, ndr) nella centrale operativa dei carabinieri. Ma del resto a Napoli, sotto il governo di centrosinistra di Giuliano Amato, era andata allo stesso modo. Bisognava fermare il movimento. E ci riuscirono. Da lì in poi tutti hanno avuto paura.