Il sistema trasversale che nasconde la verità degli abusi e
minaccia la democrazia.
L'abuso della forza e i casi di tortura come strumenti usati dalle
forze dell'ordine. L'omertà nel denunciare questi casi e la
protezione che la polizia mette in atto nei confronti dei
responsabili. Che non sono poche mele marce.
La polizia che si fa partito: i rapporti di amicizia con
magistratura, giornalismo, partiti, imprenditori. Un sistema di
potere che avrebbe scalato i vertici del dipartimento di pubblica
sicurezza e che si sarebbe consolidato attorno alla figura di Gianni
de Gennaro.
Infine, i tanti soldi che vengono gestiti con troppa discrezione e
poca trasparenza dal dipartimento, per appalti in tema di sicurezza.
Tanti soldi che dovrebbero essere investiti in sicurezza, specie al
sud, e che sono stati sprecati. Per imperizia. O peggio.
Questi i tre filoni in cui si articola il saggio di Marco Preve,
giornalista per Micromega e l'Espresso.
La tortura.
“Se un'istituzione, nel nostro caso la polizia italiana, è più temuta che rispettata, allora vuol dire che ci troviamo in un paese che manca di rispetto a sé stesso, un una democrazia incapace di confrontarsi senza paure con una sua componente essenziale.Come potremmo altrimenti spiegarci la vicenda della scuola Diaz? Non le violenze della macelleria messicana, e neppure gli sporchi trucchi per falsificare le prove di un massacro: per quanto enormi e abnormi, sono episodi che che possono accadere. La differenza tra un regime e una democrazia sta, invece, nella capacità dell'istituzione coinvolta di mettersi subito a disposizione di chi ricerca la verità e contribuire a far luce; consiste nell'immediata rimozione da ruoli direttivi e operativi dei pubblici funzionari sotto indagine; si concretizza in una trasparenza, anche mediatica, con cui si informano i cittadini che gli incarichi degli indagati e imputati vengono congelati ..”.
In Italia questo non è
successo. Sebbene le immagini del disastro della Diaz fossero note
fin da subito, come fin da subito si capì che quella delle molotov
era una prova falsa, come falsi erano i verbali e le prove presentate
dalla polizia, nessuno dei dirigenti presenti a Genova e alla Diaz,
durante la macelleria messicana, ha mai avuto problemi di carriera.
Genova, come le violenze alla Raniero
pochi mesi prima, sono state considerate una pagina tabù della
nostra storia e della storia della polizia.
Da rimuovere: chi si permetteva di
chiedere chiarezza, finiva per essere considerato un eversore. Uno
che sta dalla parte dei black block.
Perché quella sera, presenti subito
dopo l'irruzione, c'erano i migliori investigatori italiani:
dirigenti degli uffici centrali che avevano alle spalle arresti
eccellenti nella lotta alla mafia. E che negli anni successivi
avrebbero raccolto altri successi nella lotta al terrorismo (con
l'arresto dei brigatisti che uccisero il giuslavorista Marco Biagi).
Ma questo non giustifica niente:
appare più assurdo, alla luce di questi successi, comprendere come
queste persone, Gratteri, Caldarozzi, La Barbera, Fioriolli, abbiamo
potuto commettere degli errori così gravi. La notte cilena di Genova
è stata considerata da Amnesty “la più grave violazione
dei diritti umani” della
nostra storia.
Eppure si è dovuto aspettare la
sentenza della Cassazione che ha messo nero su bianco le
responsabilità: non solo dei picchiatori in divisa che, in assenza
del reato di tortura, non hanno pagato del tutto le loro colpe. Ma
anche l'intera linea di comando.
Ci sono voluti più di dieci anni. In
cui la polizia non solo non ha chiesto scusa, ma nemmeno si è posto
il problema. Che è soprattutto un problema di garanzia per noi
cittadini: chi ci tutela dagli abusi? La politica che non controlla e
che, anzi, ha pure protetto questi superpoliziotti (impedendo che si
creasse una commissione di inchiesta)? La magistratura che non sempre
indaga come dovrebbe su questi casi (ho in mente la difficoltà a far
partire il processo sulla morte di Giuseppe Uva a Varese)? Il
giornalismo, che in questi anni ha preso le parti degli indagati,
ricordando le medaglie che avevano sul petto (per gli arresti
eccellenti di mafiosi)? La polizia che ha aspettato 10 anni per
chiedere scusa, nella persona del capo Antonio Manganelli?
Sembrava che, dei De Gennaro
boys, non si potesse parlare. Come non si potesse parlare dei casi di
abuso del passato: la tortura per waterboarding in uso presso le
squadre mobili d'Italia sperimentata anche da Totò Riina. Dai
fiancheggiatori delle Br, ai tempi del rapimento del generale Dozier.
Gli abusi di Napoli, al Global Forum
della primavera del 2001, nella caserma Raniero: coi poliziotti
stessi che vollero impedire l'arresto dei colleghi facendo una catena
davanti la Questura.
I reati commessi, tra cui anche il
sequestro di persona, sono finiti in prescrizione. Le carriere dei
dirigenti (come il questore Izzo) sono andate avanti.
Da dove arriva questa anomalia?
Dice all'autore Filippo Bertolami, poliziotto e sindacalista,
“negli ultimi anni si è assistito al paradosso di un sistema
capace da un lato di coprire e premiare i colpevoli di violenze e
insabbiamenti, dall'altro di punire chi ha 'osato' mettersi di
traverso”. Vince la paura. E perde il paese.
Per approfondire l'argomento, il giornalista ha intervistato poi
l'avvocato Anselmo: questi ha parlato del meccanismo di difesa
che scatta nei confronti degli imputati in difesa. La denigrazione
della vittima:
“A Federico, Stefano, Giuseppe e a tutti gli altri è andata così perché in fondo c'è una ragione. Perché lui se ne stava in giro alle cinque del mattino, perché l'altro era tossicodipendente, perché quello in fondo era balordo. Lo stato, una certa parte dello stato, ha bisogno che il cittadino reagisca con questi automatismi. E addirittura può anche sollecitarli”.
Il partito.
Preve ha anche intervistato il pm dell'inchiesta sulla Diaz,
Enrico Zucca.
Il magistrato ha spiegato le difficoltà incontrate nell'operare
assieme alla polizia per l'insofferenza nel ruolo assegnato con la
riforma del codice penale. Ora è il magistrato che coordina, in
autonomia rispetto alle pressioni della politica. Una parte della
polizia ha difficoltà a rispettare questo ruolo perché ritiene che
il campo delle indagini sia sua prerogativa; che per raggiungere i
risultati si possa anche non rispettare tutte le procedure. Che il
vero poliziotto da strada, prima si fa l'azione e poi si chiede
l'autorizzazione. Come il famoso commissario Montalbano, personaggio
che però ha sempre avuto rispetto per le persone:
“Non è un caso e non è una sfumatura che nel romanzo Il giro di boa che affronta la vergogna del G8, della Diaz e di Bolzaneto, il nostro commissario nemmeno si soffermi troppo sull'ovvia presa di distanza dalla violenza sugli inermi, ma s'indigni sulla falsificazione del verbale”.Zucca si sofferma su un punto importate: non si potevano processare (né condannare) quei poliziotti per non privare il paese dei suoi elementi migliori. Una sorta di ragione di stato: ma dalle contestazioni mosse (e confermate dalla Cassazione) si comprende “una spaventosa sottovalutazione dei doveri che accompagnano l'esercizio dei poteri. L'aver sottoscritto un atto di arresto illegale, che costituisce il reato di calunnia oltre che di falso, viene concepito come una leggerezza..”.
Nessuno di questi superpoliziotti si è accorto del giornalista
Mark Covell agonizzante a terra, ma non ha saputo spiegare
come mai non si sia riuscito ad identificare nemmeno la firma del
verbale d'arresto degli occupanti della Diaz.
Ma queste persone non avevano di fronte dei super mafiosi. In
aula, davanti ai giudici, nemmeno si sono tolti la divisa, come un
cittadini qualunque.
Conclude, il pm: “Non possiamo accettare di credere che
questa istituzione non possa offrire schiere di funzionari capaci e
onesti, in grado di rimpiazzare gli insostituibili.”.
Per comprendere chi faccia parte del
partito della polizia, l'autore cita le linee editoriali dei maggiori
quotidiani italiani, di condanna per le violenze ma anche di
copertura dell'operato dei vertici. Sempre per il principio che non
si può privare la polizia dei migliori investigatori. Quelli dei
verbali e delle prove false, abbiamo detto prima.
Nonostante un'assenza di cultura
democratica. Nonostante il cinismo dimostrato nei confronti delle
persone picchiate e private della libertà.
Ci sono anche i politici, tra gli amici
del partito: la destra, che ha sempre difeso l'indifendibile. Ma
anche a sinistra dove, nonostante fosse presente nel programma di
Prodi del 2006, ha affossato l'idea di una commissione di inchiesta.
Violante, il senatore DS e ora saggio
del Quirinale, che aveva conosciuto De Gennaro ai tempi della
commissione antimafia durante la stagione delle bombe della mafia.
Peppino Calderola, intellettuale dei
DS.
Luigi Li Gotti, deputato Idv, difensore
di Buscetta e difensore di Gratteri (l'ex capo dello Sco, condannato
per i fatti della Diaz).
Perfino una persona come Forgione,
deputato di rifondazione e persona impegnata nell'ambito
dell'antimafia, ha speso parole di stima nei confronti dei poliziotti
indagati. Per i loro meriti passati.
Amicizie ben rappresentate da una foto,
scattata durante un attovagliamento all'hotel Eden a Roma nel 2009:
una cena organizzata dall'onorevole PDL Destro alla cui tavola
sedevano politici come Scajola, giornalisti come Annunziata,
imprenditori come Bellavista
Caltagirone. E anche Antonio Manganelli. Un affresco dell'ultra
stato. Cosa
voleva sapere l'imprenditore romano dal ministro e dal
poliziotto?
Il vicequestore Filippo Bertolami fa
parte dei poliziotti indignados e dice:
“Il collante di questo sistema si è basato da una parte sula debolezza crescente di una classe dirigente di destra o sinistra comunque in declino, in quanto balia degli sprechi, privilegi e scandali, dall'altra sul potere dei vertici di un Dipartimento della pubblica sicurezza trasformato negli ultimi anni non solo in un collettore di favori (passaporti, permessi di soggiorno, porti d'arma, sfratti, eccetera), ma soprattutto in un gestore centralizzato di informazioni riservate relative sia alle indagini in corso sia ai privilegi e vizi delle 'personalità' scortate, ormai esposte, più che agli attentati, al linciaggio dell'opinione pubblica, mentre tanti operatori della Polizia di Stato assistono indignati, seppur silenziosamente impotenti”.
Per concludere:
“Qualcosa potrebbe cambiare se ci fosse una presa di coscienza più forte all’interno della polizia di Stato, improbabile se non preceduta da un vero rinnovo della classe dirigente, che stimoli i più indignati a prendere coraggio.”I soldi.
I soldi sono l'ultimo capitolo: lo stesso Manganelli ha ammesso
nel 2012 (per difendere l'operato del suo sottoposto Nicola Izzo,
coinvolto nell'inchiesta sugli appalti di Finmeccanica a Napoli) “noi
non siamo formati per essere esperti manager nel campo della
contabilità”.
Peccato che quella contabilità, nello specifico, assommi a 1
miliardo e 200 milioni di fondi anche europei, per la sicurezza nel
sud. Soldi che, se sprecati, sarebbero un favore alla criminalità
organizzata.
La cittadella della polizia a Napoli è stato un progetto
stoppato.
Vedremo ora come proseguirà l'inchiesta, nata dalla lettera anonima del "corvo", che ora è stata spostata a Roma.
Marco Preve cita diversi episodi che hanno coinvolti funzionari di
polizia e strane storie di soldi: il questore poi prefetto Fioriolli,
a Genova, e i suoi rapporti (e favori e soldi) con l'imprenditore
siriano Hadj Fouzi. Fioriolli è stato promosso direttore della
Scuola di ordine pubblico.
Mentre queste storie non hanno mai interessato né la magistratura
né la polizia, per fare chiarezza.
Diversamente da quanto successo al vice capo della polizia Izzo,
finito indagato (ma ora la sua posizione è stata archiviata), in una
inchiesta sull'uso dei fondi PON, appalti che hanno sfiorato il
miliardo di euro, tutti decisi all'interno del Viminale.
Una fetta di potere, gestito in modo assolutamente discrezionale
dall'ufficio logistica per appalti sui Centri Cen (centro elettronico
nazionale), sulla videosorveglianza, sul software da usare nelle
pattuglie, sull'appalto affidato a Telecom per telefonia e dati.
La relazione tecnica del prefetto Frattasi ha messo nero su bianco
tutte le negatività di questa gestione: appalti concessi senza fare
alcuna gara né alcuna analisi sul mercato, con tanto di
secretazione.
Perché i poliziotti sono bravi nelle indagini ma non a fare i
manager e, conclude la relazione, questi dovrebbero essere tolti
dalla polizia e affidati ad un ente esterno.
“Chi paga per tutto questo”, è la domanda che ci si deve porre: arrivati al termine del libro rimangono le parole usate dal giornalista, la polizia è il termometro della società. Se la società sta male, si riflette anche nell'ambito della sicurezza, perché in fondo ogni paese ha la polizia che si merita, come la politica che si merita e la burocrazia statale che si merita.
“Chi paga per tutto questo”, è la domanda che ci si deve porre: arrivati al termine del libro rimangono le parole usate dal giornalista, la polizia è il termometro della società. Se la società sta male, si riflette anche nell'ambito della sicurezza, perché in fondo ogni paese ha la polizia che si merita, come la politica che si merita e la burocrazia statale che si merita.
Criticarne i malfunzionamenti (la difficoltà a premiare la
meritocrazia, i meccanismi di copertura per i vertici, la poca
trasparenza, i cattivi rapporti di ossequio con la politica) non
significa essere contro.
È uno sprone per arrivare ad un modello più efficiente, moderno
e “democratico”, anche per quella maggioranza silenziosa
all'interno del corpo che soffre nel vedere tutte le situazioni qui
raccontate.
La scheda del libro sul sito
Chiarelettere.
L'intervista
dell'autore alla trasmissione Pane Quotidiano, con Concita De
Gregorio.
Intervista all'autore sul blog Cado
in piedi.
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