17 luglio 2005

Del commercio delle armi

Tutto è iniziato dall'articolo apparso su l'Unità di red, qualche settimana fa, sul commercio delle armi. Prima ancora che scoppiassero le bombe a Londra e il terrorismo internazionale tornasse a diventare il tema principale delle discussioni. Come combattere la guerra al terrorismo? Come combattere la guerra che l'Islam (a sentire Giuliano Ferrara) ci avrebbe dichiarato? Nell'articolo si parla del commercio delle armi internazionale:

L’Italia fa grandi affari con la Colombia, la Repubblica del Congo e la Cina, la Francia invece con il Myanmar e il Sudan. La Russia vende bene in Etiopia, Algeria e Uganda. È il mercato globale, direbbe qualcuno. Peccato però che per il nostro paese si stia parlando del vantaggioso business delle armi leggere, di cui siamo i secondi esportatori mondiali (vi dice qualcosa il nome Beretta?) mentre i nostri cugini transalpini vendono a notori regimi dittatoriali bombe, granate e mine. Le industrie russe invece esportano aerei da combattimento verso paesi che ormai hanno ben poco da distruggere.

Vendere armi a paesi indebitati, del terzo mondo, lacerati da guerre civili, quanto meno è eticamente discutibile. Se consideriamo che a giugno è stato tanto sbandierato il taglio del debito ai paesi poveri “Un taglio soltanto parziale, che però sembra la restituzione con una mano di cio che si prende con l'altra.

Ma il sospetto che questo allegro mercato di armi alimenti anche il sottobosco del terrorismo, non viene a nessuno? Specie dopo quanto dichiarato nell'articolo sul corriere Loretta Napoleoni, economista monetaria. "Per bloccare i terroristi occorre individuare i loro cespiti finanziari, ma nessuno dei leader mondiali si muove seriamente su questo terreno. Sarebbe necessario mettere sotto controllo i conti off shore, quelli cifrati sui quali girano milioni di dollari. Al vertice dell'Unione Europea, che si tenne a Nizza nel dicembre 2000, si discusse delle possibilità di vigilare sulle operazioni delle banche nei paradisi fiscali, con l'intento, alla fine, di smantellarli, ma il governo britannico smontò sul nascere ogni velleità. Il paradiso fiscale più importante non si trova in qualche isola sperduta nei Carabi, ma a Londra ".

E' stata lanciata una campagna, Control Arms, nell'ottobre 2003, che si batte contro la proliferazione delle armi (il rapporto l'ho riportato qui): l’obiettivo da raggiungere entro il 2006 è quello di convincere i governi a firmare un trattato che limiti il commercio di armi, laddove non sia possibile fermarlo. Di questo si sarebbe dovuto discutere al G8 scozzese. “Ogni anno centinaia di migliaia di persone sono uccise, torturate, stuprate, allontanate dalle proprie terre grazie al cattivo uso delle armi. Come è possibile prendere sul serio gli impegni del G8 a eliminare la povertà e l’ingiustizia, se alcuni di quegli stessi governi stanno mettendo a rischio la pace e la stabilità autorizzando consapevolmente trasferimenti di armi verso regimi repressivi, regioni di estremo conflitto e paesi che non possono permettersi di rifiutarle?” si chiede Irene Khan, Segretaria generale di Amnesty International. Si sarebbe dovuto arrivare ad una moratoria internazionale e un trattato condiviso. L'aveva promesso il primo ministro Jack Straw, che ne avrebbe parlato davanti ai suoi omologhi alla prima occasione.

Altre bombe hanno messo tutto a tacere.
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