31 luglio 2019

Oltre ogni ragionevole dubbio, di Francesco Caringella



Incipit
Un freddo mattino di gennaio 
Il vento s’era placato come d’incanto. 
Un gabbiano planò leggero sul pelo liscio dell’acqua e si bloccò di scatto. Gli occhi avidi intercettarono un uomo e una donna che si aggiravano sullo sterrato appena fuori la spiaggia addossata alla bianca scogliera. Il sole era ancora lontano, il mare avvolto nella foschia lattiginosa dell’alba nascente.
Scostandosi dal viso i capelli neri, la donna si avvicinò nervosa all’acqua e si portò una mano alla bocca, come a soffocare un singhiozzo, o forse un semplice sospiro. Si voltò indietro: l’uomo stava facendo il giro dell’auto e apriva il bagagliaio, e lei lo raggiunse in fretta. Insieme si guardarono intorno a lungo, come ad assicurarsi che non ci fosse nessuno, e solo dopo si chinarono nel vano ad afferrare qualcosa.

Il filone dei legal thriller non ha molta fortuna in Italia, sono pochi i romanzi gialli che appartengono a questo filone, quello successivo alle indagini dove il ruolo di protagonisti spetta ora ai giudici, ai procuratori che sostengono l'accusa e agli avvocati della difesa.
Lo scrittore americano Grisham è uno dei più famosi in questo genere (e La parola ai giurati di Lumet è uno dei film più famosi): il libro del magistrato Francesco Caringella, oggi presidente di sezione del Consiglio di Stato si inserisce in questo filone.
Oltre ogni ragionevole dubbio è il racconto, dal suo interno, dei meccanismi che portano alla sentenza di un processo penale, da parte di una Corte d'Assise.
In che modo otto persone, due giudici e sei persone, estratte a sorte, possono prendere una decisione a maggioranza, dopo aver ascoltato in aula le deposizioni dei testimoni, l'esposizione dei fatti, le arringhe dei difensori e quelle del magistrato che sostiene l'accusa?

Parliamo di otto persone che si trovano assieme per la prima volta, se si escludono i due giudici, il presidente e il giudice.
Sono loro che dovranno prendere una decisione basandosi sui fatti e sulle prove e non sui pregiudizi o sulle prove non ammesse al processo (come le lettere anonime), senza farsi influenzare dalla sua vita personale, dovendo poi fare i conti coi propri dubbi di persona.
.. in quel processo c'era un ulteriore fattore scivoloso: la giuria popolare, le sei persone qualunque che per legge affiancavano i due magistrati togati per comporre la Corte d'Assise. In questo caso erano tre uomini e tre donne diversi per età, studi, esperienze di vita, visioni del mondo.C'è un'alchimia inafferrabile che lega persone normali strappate alla quotidianità per decidere su un caso di omicidio. E' una chimica imprevedibile: può scattare la magia di un'intesa o lo spettro della rivalità.

Il caso riguarda la morte di Michele De Benedictis, imprenditore barese scomparso in una giornata di gennaio: imputati come responsabili della sua morte sono la moglie, Antonella Altavilla, più giovane di lui e sposata dopo aver divorziato dalla prima. E il suo amante, Giulio Maselli.
Non è un caso semplice, sono molte le anomalie, le difficoltà che il giudice e i giurati devono affrontare: il cadavere che manca, le dichiarazioni iniziali date dagli imputati, poi non ripetute di fronte ad un magistrato, dichiarazioni poi contraddittorie tra di loro dove ciascuno dei due scagionava parzialmente l'altro.
Alcune intercettazioni, captate dai due amanti, fanno comprendere che siano stati loro far sparire il cadavere, in quei primi giorni di gennaio.
La stampa, specie quella che segue questi casi di cronaca con delitti “passionali” li ha già dipinto come gli amanti diabolici e ha espresso il suo giudizio di condanna, senza appello.
Il morto sparito, la donna assassina, gli imputati enigmatici, la giuria complessa: quattro anomalie, quattro spessi strati di roccia apparentemente indistruttibili che si aggiungevano alle vertigini già immancabili in ogni Corte d'Assise.

Ma il duro lavoro del presidente, il giudice Virginia della Valle, è proprio quello di tenere lontani giudizi basati su sensazioni, sulla pancia, da quelli che invece emergono dai fatti raccolti: per esempio il comportamento della vittima, De Benedictis, nei mesi precedenti la sparizione:

.. il 7 aprile stipula un contratto di assicurazione sulla vita a beneficio della moglie. Il 10 luglio la sua società è ammessa al concordato preventivo. Il 28 novembre va dal notaio per designare sempre Antonella Altavilla unica erede della quota disponibile. Nei primi giorni di dicembre vende le sue proprietà immobiliari più pregiate. Alla fine del mese ripulisce i suoi conti

Virginia Della Valle si trova in quella situazione che conosce bene, “La solitudine del giudice” la chiama: il dover decidere da sola della vita delle altre persone, il sentirsi addosso il peso e il ricordo di sentenze passate per un verdetto che ancora le pesava, per i rimorsi..
Che giudice era, lei? Aveva l'umiltà necessaria a chi pretende di giudicare gli altri? [..] Lei era davvero più innocente degli uomini e delle donne sottoposti al suo arbitrio?

Si rischia di arrivare ad un nuovo caso Bebawi, un vecchio caso di cronaca giudiziaria in cui grazie alle dichiarazioni contraddittorie, gli imputati (altri “amanti diabolici”) erano stati assolti.
Ora dopo entriamo anche noi in camera di consiglio, assistiamo anche noi al rituale del processo penale, all'incontro scontro di queste persone, tre donne e tre uomini dal carattere completamente divero.
I riflessivo, l'irruento, l'ingegnere metodico, la brillante ricercatrice …

Ma fuori da quella stanza dei giurati, all'interno di una caserma, altri occhi stanno seguendo quel processo: sono quelli del giornalista televisivo Ferdinando Coppolecchia, che aveva pure frequentato un anno di università assieme a Virginia e che ora conduce una trasmissione dove i caso di cronaca sono raccontati, vivisezionati, dove vengono spremuti i sentimenti per raccogliere qualche punto in più di share.
Ospiti della puntata dedicata alla sentenza, la criminologa bionda, il giornalista investigativo e l'ex magistrato che si dividono equamente i ruoli dell'accusa, di quello che deve far sorgere dei dei dubbi e l'innocentista.

Ma Antonella e Giulio sono innocenti? E che fine ha fatto il corpo di Michele? E se non fossero stati loro ad uccidere l'uomo?
Non c'è spazio per queste domanda, nemmeno all'avvocato difensore interessa conoscere la verità, conoscere la storia.
Non interessa all'avvocato difensore, preoccupato della verità processuale; non interessa alla giuria, che deve stabilire se Antonella e Giulio sono colpevoli o meno, “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Non interessa nemmeno ai personaggi del circo televisivo, che si nutrono di quella verità che vogliono sentirsi dire, come il popolo romano nell'arena che voleva solo vedere il dolore e il sangue ..

Un bel romanzo, dove la psicologia dei personaggi ha un ruolo predominante, non solo quella dei membri della giuria ma, specie nel formidabile finale, anche quella degli imputati.
Arriveremo anche noi lettori a scoprire la verità, unici depositari di un meccanismo infernale, un piano diabolico degno dei personaggi dello scrittore Simenon:
.. racconti di uomini e donne risucchiati dalle ombre del passato, personaggi mediocri, imperfetti, in fuga da se stessi. Esattamente come il protagonista del libro abbandonato da De Benedictis

La scheda del libro sul sito dell'editore Mondadori e il link per poter leggere il primo capitolo
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Come la rana nella pentola

Alla fine ci si abitua a tutto, alle dirette facebook, al linguaggio da bar, al cambiare idea per convenienza, anzi non averle proprio le idee che è meglio.
Ci abitueremo anche alla moto d'acqua fatta provare al figlio del ministro.
Che sarà mai.
Ci abitueremo alle regioni trasformate in piccoli stati centrali o piccoli feudi dove far crescere il clientelismo locale.
Ci abitueremo al crollo del servizio pubblico, dalla Rai di fatto indistinguibile da una tv privata, alla sanità che diventerà cosa da ricchi e ad una scuola pubblica in cui a fare la differenza sarà la regione in cui cresci.
Ci si abitua a tutto, anche alla corsa alle armi, perché siamo insicuri, avete visto quel povero carabiniere morto? Non poteva sparare altrimenti sarebbe stato incriminato.
Ci si abitua a tutto, al mandato zero e anche a vedere un leader ex secessionista fare campagna elettorale al sud (ma la Padania ora è Italy?). 
Anzi, ci siamo abituati ad una perenne campagna elettorale.

Ci si abitua a tutto, anche al livellamento verso il basso dell'informazione, anche questa indistinguibile dal caos primordiale dei social.
Di chi ti fidi? Chi stai a sentire?
Ci si abitua a tutto, a dimenticare le tragedie del passato: il tamponamento dei due tir sull'autostrada a Bologna, ve lo ricordate?
E il crollo del ponte Morandi? Come stanno gli altri ponti e viadotti? Come siamo messi a sicurezza sulle autostrade, nelle scuole, nelle zone a rischio sismico?

Ci si abitua a tutto.
Come la rana nella pentola.

30 luglio 2019

Peggio di un poliziottesco



La tecnica è sempre la medesima: sbatti il mostro in prima pagina, la polizia arresta ma la magistratura li lascia liberi, la gente ha paura ..
Sembrano i titoli dei poliziotteschi degli anni settanta.
Sono i titoli dei giornali della nostra destra, legalitaria con gli altri, garantista con se stessa e i suoi capi.
A proposito, vi ricordate quando si difendeva il diritto alla tortura contro i terroristi di Al Qaeda?
Ecco, oggi invece su La Verità rinfacciano quelle torture agli americani, come vi permettere di puntare il ditino contro la foto dello studente americano ammanettato e incappucciato?


Zerbini e pure ipocriti.
La nostra destra..

Quella che punta il dito contro immigrati, buonisti, sinistra da salotto e poi fa finta di niente sui cambiamenti climatici, sulla secessione delle regioni ricche del nord, sulla disuguaglianze salariali e sociali che si allargano, sulla sanità pubblica minacciata da tagli, dalla carenza di medici, dai finanziamenti ai privati.
La destra che si lamenta che i carabinieri campano con mille euro al mese mentre i politici (come Meloni, Salvini) ne prendono molti di più.
La destra che si dimentica che i tagli alle forze dell'ordine li ha fatti anche lei, sin dai tempi di Maroni.

E allora Bibbiano? E allora il PD..

29 luglio 2019

Rocco Chinnici - il mostro di cosa nostra


A furia di inseguire fantasmi (l'invasione dei migranti, Soros, l'Europa cattiva..) ci dimentichiamo dei mostri veri che hanno riempito le pagine della nostra storia criminale.
Come il mostro della mafia, che ancora esiste in mezzo a noi sebbene in forma meno riconoscibile: la mafia dei colletti bianchi, quella capace di spostare soldi e usare i nuovi mezzi di comunicazione.
Quella che sposta pacchetti di voti, che dispone di enorme masse di denaro con cui comprarsi protezione e con cui colonizzare il mondo dell'imprenditoria.

Non è più la mafia militare dei Riina, che non si faceva scrupoli di eliminare col piombo e col tritolo i suoi nemici: come Boris Giuliano, il capo della Mobile di Palermo uccisio nel luglio del 1979, colpevole di voler mettere le mani sui soldi della mafia.
Come il capo dell'ufficio istruzione Rocco Chinnici, colpevole di voler colpire la mafia dei capitali, di voler entrare in quei santuari che erano le banche che riciclavano i soldi delle famiglie mafiose, i Bontade e gli Inzerillo e poi dei corleonesi, dopo che questi ultimi avevano sterminato i primi nella mattanza.
Rocco Chinnici aveva intenzione di creare un pool di magistrati specializzati nelle inchieste di mafia, in modo che i reati dei mafiosi, gli omicidi e i reati collegati, non si perdessero in mille processi slegati tra di loro.
«Ma cosa credete di fare all'ufficio istruzione? La devi smettere Chinnici di fare indagini nelle banche, così rovini tutta l'economia siciliana .. ». Giovanni Pizzillo, Procuratore Generale di Palermo nel 1982.

Rocco Chinnici, come anche gli altri magistrati del pool, non era amato dai colleghi e nemmeno dalla classi dirigente dell'isola: la sua ostinazione nel voler combattere la mafia dei colletti bianchi, nel voler toccare i suoi capitali gli costò la vita, il 29 luglio del 1983 quando un'autobomba lo uccise in via Pipitone.

Oggi la mafia non mette più le bombe, se deve uccidere un magistrato importante ci pensa due volte.
Ma non per questo è meno potente: semplicemente è più subdola, più difficile da riconoscere e da distinguere, anche perché, oggi come allora, la politica non ha messo quei filtri per tenere cosa nostra a distanza (e la vicenda Montante ex presidente di Confindustria in Sicilia, ex paladino dell'antimafia, dovrebbe far riflettere in tanti).
Si fa in fretta oggi a parlare di antimafia: ma oltre alle parole di circostanza, il mostro di cosa nostra fa ancora paura. A quelli che veramente vogliono sconfiggere la mafia.

Se questa storia fosse un giallo

Mi sto leggendo gli articoli sull'aggressione al vicebrigadiere Mario Rega.

La bufala degli aggressori nordafricani, uscita anche da siti gestiti da carabinieri e rilanciata da giornali senza nessun controllo.
La destra che cavalca la notizia dell'accoltellamento, avvelenando il clima per la speculazione politica contro gli immigrati.
Le versioni iniziali dei carabinieri stessi, con tante contraddizioni.
E poi i due assalitori americani: bravi ragazzi, dicono dalla famiglia, no dei violenti, secondo altre voci.
Due studenti in visita a Roma, che però hanno aggredito il carabiniere in borghese con una mossa da marine.
Con un coltello da 20 centimetri che si sarebbero portati dietro da casa (?).

E poi la foto di uno dei due indagati (che hanno già confessato) bendato in caserma. Chi l'ha fatta uscire e perché?
Il pusher che denuncia ai carabinieri il furto del borsello da parte dei due americano stessi...

Ci sono talmente tante cose che non tornano in questa storia, da pensare male.
Come se ci fosse un regista che sta volutamente creando questo clima di caos in cui sono tutti coinvolti.
Se fosse la trama di un giallo forse sarebbe anche interessante, ma non è così: quel carabiniere è morto veramente, quei ragazzi hanno confessato l'aggressione.

Di mezzo c'è la credibilità dei giornali, delle forze dell'ordine, delle istituzioni, del paese: fermate il frullatore, fermate questo caos..

28 luglio 2019

Quattro piccole ostriche, di Andrea Purgatori


Incipit

Markus Graf era stato una spia. E da spia aveva tradito. In quel mondo di donne e uomini la cui vita è spesso doppia o tripla e che qualcuno chiama circo, nessuno si è mai scandalizzato per questo. Tradire è uno degli eventi possibili. Come ingannare e uccidere. O essere uccisi.

Una storia di spie, di tradimenti, non solo del proprio campo politico ma anche tradimenti sentimentali.
Una storia di spie cresciute dall'altra parte del muro di Berlino, dentro la Stasi, il servizio segreto della DDR, la repubblica democratica tedesca che si era sgretolata, come il suo muro, nell'arco di poche settimana.

Era il novembre del 1989 e il mondo era diviso nei due blocchi, quello atlantico sotto il controllo americano e quello sovietico, sotto il controllo del russi.
Bastarono quelle parole del portavoce del governo tedesco, Shabowski, nella conferenza in cui annunciava nuove regole per rendere possibile ad ogni cittadini di attraversare i posti di confine, quelli presidiati dai VOPO armati.
Quando verrà applicato questo regolamento, gli chiesero:
«Das tritt nach meiner Kenntnis … ist das sofort, unverzüglich » [Per quanto ne sappia, subito]

Una folla di berlinesi dell'est si riversò in strada, finalmente liberi di poter circolare senza preoccuparsi della polizia, dei check point, liberi di muoversi: tra questi anche il capitano Markus Graf, che aveva appena tradito il paese per cui aveva spiato, interrogato e altro migliaia di berlinesi.
Mescolato nella folla stava scappando verso la sua nuova vita in Svizzera, a Flims nel cantone dei Grigioni con un passaporto nuovo e i soldo del tesoro segreto della Stasi.
Abbastanza per rifarsi una vita nel lusso e lasciarsi il resto alle spalle, la madre malata di Alzheimer e Greta, il suo superiore, con cui aveva (o aveva avuto) una relazione.

Ma ora, passati trent'anni dal crollo del muro, qualcuno lo ha cercato: gli hanno spedito una busta con dentro la copertina di un 45 giri dei Beatles Magical Mistery Tour.
Un messaggio proprio per lui, ex spia, da un'altra spia, proprio Greta: un messaggio che potrebbe essere collegato ad un omicidio appena avvenuto a Berlino, quello del consigliere politico dell'Ambasciata russa in realtà il referente del servizio segreto FSB (erede del KGB).

Per salvare la sua seconda vita e quello che aveva costruito, doveva scoprire perché avessero deciso di tirarlo per i capelli dentro un delitto che anche a distanza di ottocento chilometri puzzava di regolamento di conti tra spie.

Markus è costretto ad abbandonare il suo rifugio e a tornare a Berlino per capire il perché di quel messaggio e forse anche per rivedere Greta, forse l'unica donna di cui si è innamorato.
Abbiamo detto che questa è una storia di spie e di traditori, ma anche di segreti che i personaggi si portano dentro: segreti del loro passato, come quello che lega Markus a Greta.
Segreti come quello di Nina Barbaro, giovane commissario dell'antiterrorismo, sezione scientifica (MEK) che oggi, nel tempo di oggi, deve indagare su quel delitto tanto strano.
L'assassino non ha lasciato tracce e l'unica pista possibile è una vendetta da parte dell'Isis per i bombardamenti in Iraq dei russi.
Ma è una pista flebile che non convince Nina e che invece è ritenuta credibile dal servizio di sicurezza tedesco, ansioso di scavalcare la polizia in questo caso.

Anche Nina ha un segreto, consumato trent'anni prima, che la lega ad un altro personaggio, Peter, oggi addetto presso l'hotel Adlon a Berlino. Un segreto che parla di droga ma da cui ha trovato la forza per riscattarsi e diventare funzionario di polizia, nonostante le sue origini italiane.

Due vecchie spie, una poliziotta giovane, un addetto di un hotel di lusso, uno spione russo ucciso.
C'è tanta pressione sulla polizia tedesca, a breve arriveranno a Berlino i capi di Stato delle maggiori potenze mondiali, compreso lo zar delle Russie, ex spia del KGB tra l'altro, per l'anniversario della caduta del muro...

Una guerra di spie non è tale se non ci sono segreti da nascondere a qualunque costo: in questa storia il segreto dietro il delitto dello spione russo è legato ad un progetto del KGB tenuto nascosto per anni, il progetto Walrus, così chiamato in onore della canzone dei Beatles I’m the Walrus («Io sono il tricheco» dell’album Magical Mystery Tour).
Un progetto in cui l'ipnosi viene usata per addestrare degli assassini inconsapevoli (), da attivare grazie ad una parola chiave pronunciata da uno psichiatra che ha cresciuto questi quattro ragazzi, chiamati semplicemente Uno, due, tre, e quattro, un qualcosa che ricorda Il candidato della Manciuria di Richard Condon.
«Li abbiamo svuotati e poi trasformati in macchine per uccidere. Abbiamo rubato le loro vite, Markus. In nome di un ideale fallito.»

Un progetto delirante, tenuto in vita dal KGB (e da questo psichiatra) anche dopo il crollo del comunismo, anche perché l'allora ispiratore di questo piano a Berlino ora siede sulla poltrona più importante della Russia.
Ma nessun progetto, per quanto ben congegnato, può tener conto di tutte le variabili esterne: per esempio la reazione di Markus a quella lettera da Berlino che lo richiama in azione.
Che proprio uno di questi quattro assassini contravverrà agli ordini tassativi di non innamorarsi.
E che il commissario Barbaro non si fiderà della finta pista dell'Isis ...

In un continuo avanti e indietro nel tempo riviviamo quasi in presa diretta le settimane di quel novembre 1989, il crollo del regime comunista, la paura della caccia all'uomo, la fretta nel bruciare tutti gli archivi degli informatori, degli agenti, delle persone che nel corso di decenni erano stati spiati, messi all'indice e imprigionati.
Per poi tornare al tempo presente, dove sempre in presa diretta, seguiamo la caccia agli assassini del funzionario dell'ambasciata, sia da parte della squadra dell'antiterrorismo di Nina, sia da parte dei due agenti della Stasi, dove le indagini si mescoleranno con le vicende personali dei protagonisti.

«Speriamo non finiscano come la quattro ostriche col tricheco» se ne era uscito Kasprik una domenica, alzando all'improvviso gli occhi da un libro che stava leggendo nel soggiorno. 
«Quali ostriche?» chiese Greta, anche se sapeva benissimo a cosa si stesse riferendo. 
«Quelle del poemetto sul Tricheco e il Falegname di Lewis Carrol, quello di Alice nel paese delle meraviglie». E cominciò a citare a memoria: «”Ostriche, unitevi a noi!” fece il Tricheco con foga latina. “Parliamo, facciamo due passi, vicino alla spiaggia marina: non possiamo accettarne che quattro, per tenervi la mano piccina”» 
«E come va a finire?» domandò Greta. 
«Le ostriche seguono il Tricheco e lui se le mangia.» 
Kasprik sorrise. Ma seguì una lunga pausa di silenzio. E di gelo. 
«Cosa stai cercando di dirmi, Leo?» 
«Niente» rispose Kasprik. «Niente» 
E su quel “niente” riprese a leggere.

Quattro piccole ostriche è un thriller che ci porta dentro il mondo delle spie, dentro la lotta al terrorismo: un romanzo che tiene legato il lettore alle pagine..
Ma perché Purgatori, che avevo già apprezzato anni fa nel romanzo-fiction A un passo dalla guerra, non ha scritto altri thriller?

La scheda del libro sul sito dell'editore Harper Collins
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27 luglio 2019

Il delitto della parola


Il commento più intelligente da parte di un politico è stato quello di Pippo Civati: bisognerebbe aspettare almeno 48 ore, prima di commentare un fatto di cronaca, specie se poi si vuole dare un colore politico a questo fatto.
Il riferimento è alla tragica morte del carabiniere, il brigadiere Mario Cercello Rega, accoltellato durante un'operazione in borghese: sulla morte del carabiniere si sono buttati a pesce tutti i noti soggetti della nostra destra sovranista e populista.
Perfino un ex garantista (almeno di Berlusconi) come Capezzone (pure un ex radicale) se l'è presa coi giornaloni che, nelle prime ore dopo l'accoltellamento, stavano nascondendo il fatto che gli assassini erano nordafricani.

Meglio aspettare almeno qualche ora, capire come stanno le cose e poi, eventualmente se si ha qualcosa di intelligente da dire, si dice.
E invece no: Meloni, Salvini, Gasparri e poi a ruota Di Maio (nella rincorsa con Salvini a chi è più legalitario). Tutti pronti a dare sentenze, contro i nordafricani sicuramente colpevoli.

Ma poi la storia ha preso una piega diversa: i nordafricani mechati erano due turisti americani, giovani, e il signore rapinato era uno spacciatore che aveva venduto roba scadente ai due americani.
Dubito ora che il ministro dell'interno chieda di mandare queste due persone ai lavori forzati...

Lo ripeto: non abbiamo bisogno di leoni da tastiera né di commentatori da bar, in Parlamento e dentro la classe dirigente.
Se volete passare il vostro tempo sui social, nelle dirette, a fomentare rabbia e odio, liberi di farlo. Ma senza ricoprire alcun ruolo pubblico.

26 luglio 2019

Le morti continuano

Ieri è avvenuta la più grave tragedia del 2019 nel Mediterraneo: si parla di 150 morti, migranti che cercavano di attraversare quel braccio di mare tra Libia e Italia.
Tra le prigioni libiche (e tutto ciò da cui stavano scappando) e un futuro diverso.
Non basta bloccare le ONG, rinforzare la guardia costiera libica, minacciare i volontari con multe e sequestri: gli sbarchi continuano, facendo meno rumore rispetto alle navi delle ONG e continuano pure le morti in mare.

Sempre a proposito di morti, nella giornata di ieri sono morte tre persone sul lavoro: quest'anno il numero di morti sul lavoro è aumentato del 6%.

Cosa ne pensano di questo i difensori dei valori cristiani, gli indignados per i ladri di bambini di Bibbiano?
Ci si aspettava, da questo governo così attento al popolo, maggiore attenzione anche a queste tematiche di sicurezza, che forse parlano meno alla pancia delle persone rispetto ai vari decreti sicurezza e daspo (che attirano anche sindaci di sinistra, come Sala a Milano).

25 luglio 2019

Il leader da copertina



Ma veramente Salvini è un politico vincente perché un bravo comunicatore?
Leggetevi il tweet di ieri sera di Rotondi (https://twitter.com/grotondi), per esempio, dove l'ex DC ci fa sapere della sua stima per il Salvini politico e comunicatore.
Ecco, dove sarebbe la sua bravura di politico?
Il politico che scappa dalle sue responsabilità, non presentandosi in Senato e nemmeno davanti la commissione antimafia per spiegare i rapporti della Lega con Arata.
il politico che ha mentito al paese, che non ha fornito tutte le informazioni che il presidente del Consiglio gli aveva chiesto per riferire in aula.
Il politico che dovrebbe occuparsi di sicurezza e che invece passa il tempo sui social per attaccare le ONG, gli alleati di governo che non ubbidiscono, di grandi opere e via discorrendo.
Il politico che fa i selfie coi gattini da salvare, che va a Bibbiano a difendere i bambini dalle grinfie di quelli del PD poi non si fa scrupoli di gettare per strada famiglie che occupano stabili abbandonati, che non si fa scrupoli di consegnare i migranti nelle mani delle milizie libiche.

E quali sarebbero le sue doti di buon comunicatore?
Solo perché parla come normalmente si parla di calcio al bar?
Solo perché il popolino si riconosce nelle sue parole?

Zecche comuniste, calci in culo, sinistri ...

La realtà è ben diversa: a furia di abbassare l'asticella della buona politica, dell'etica e perfino della buona educazione, dai tempi di Berlusconi.
E ora ci troviamo un altro giovane leader che domina le copertine dei giornali di gossip che pubblicano i suoi scatti rubati (per modo di dire ).
Non è vero che ogni paese ha i politici che si merita: non ci meritiamo questo personaggio, che ha costruito la sua immagine da finto "vincente" anche grazie ad una stampa che ha inseguito i suoi insulti, i suoi tweet.
E anche grazie a degli estimatori insospettabili, tipo Rotondi.

24 luglio 2019

Il potere logora anche chi non lo ha

Il potere logora chi non ce l'ha - dice la massima.
Ma anche chi ha il potere e non è pronto ad usarlo, anche chi pensava di governare cavalcando slogan e riforme buone solo sulla carta (come il reddito di cittadinanza, di cui manca ancora la parte di reinserimento nel mondo del lavoro).
La parabola dei 5 stelle è illuminante: sono partiti con qualche buon proposito ma dimenticandosi che governare significa affrontare le questioni andando oltre la superficie delle cose, dimenticandosi che quando sei al governo rispondi del tuo lavoro e delle tue scelte, mica si può sempre tirare in ballo i governi precedenti.

Avevi promesso che il TAP non si sarebbe fatto, che il tunnel per il TAV in Val di Susa non sarebbe partito, che l'Ilva sarebbe stata risanata?
Bene, allora per queste promesse serviva un alleato vero di governo, con un programma politico.
Il 5 stelle si è preso tutte le grane di governo, consentendo al partito di Salvini di spadroneggiare con le sue promesse a costo zero, dall'immigrazione alla legittima difesa.
E ora si deve rimangiare tutte le promesse (e quella sul TAV è la più clamoroso, se veramente si procederà con l'opera).

La politica si fa facendo politica e non è vero che i partiti non servono, che non serve il radicamento, che destra e sinistra non esistono.
Il piegarsi alla necessità del momento (che non è il mediare, perché Di Maio di questo non è capace) vuol dire solo sopravvivere, tenersi la poltrona.
E, potrà sembrare strano, ma gli elettori (non i tifosi, ma gli elettori che credono ancora alla politica) la capiscono la differenza.

Come verrà ricordato il m5s?

23 luglio 2019

Sulla speculazione del caso Bibbiano

La brutta storia di Bibbiano è diventato un caso mediatico e politico perché di mezzo c'è un sindaco del PD: ne parla Selvaggia Lucarelli questa mattina sul Fatto Quotidiano ricordando che vicende forse analoghe, come quelle raccontate da Pablo Trincia in Veleno, non hanno avuto tanta eco.
Da una parte i Cinque stelle, Salvini e la destra compatta per cui il Pd è Erode e il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti la dimostrazione che i comunisti forse non mangiano i bambini ma li danno in pasto a orchi che modificano ricordi, disegni, testimonianze e li strappano alle loro famiglie naturali. Ed è bizzarro, perché il caso dei diavoli della Bassa modenese emerso grazie alla recente inchiesta di Pablo Trincia che ha scoperchiato un sistema di commistioni tra psicologi, medici, sistema degli affidi e malagiustizia non aveva creato la stessa indignazione. Eppure c’erano filmati che testimoniavano manipolazioni sui bambini, c’erano medici che “la bambina fu abusata, se risulta vergine è perché l’imene con la pubertà può ricrescere”, c’erano suicidi, 16 bambini allontanati, morti di crepacuore, bambini ormai adulti che avevano negato gli abusi. Mancava però l’elemento più grave, quello che da solo avrebbe smosso hashtag, uffici stampa e coscienze: un sindaco del Pd coinvolto nella faccenda.
Il libro di Trincia parla di bambini manipolati, bambini tolti ai genitori per presunti abusi e riti satanici in cui di mezzo c'era la stessa onlus da cui provengono gli psicologi coinvolti nel recente caso di Bibbiano.
Anche Presa diretta nel lontano 2015 (lontano in termini mediatici) aveva raccontato nell'inchiesta "Famiglia abbandonate" di diversi casi di affidi di bambini concessi da giudici legati poi a queste strutture
Altra storia è quella raccontata da Sebastienne: era finito in comunità dopo la separazione dei genitori. Il tribunale dei minori ha fatto delle accuse alla madre, accuse basate su una relazione che lei ritiene piena di falsità: il figlio le è stato tenuto lontano, per delle sole chiacchiere.Francesco Morcavallo, ex giudice del Tribunale dei minori: è ora uno dei principali accusatori dell'operato degli ex colleghi: racconta di decisioni prese in base a relazioni superficiali, di giudici onorari che fanno relazioni ma che si trovano in conflitto di interesse. Perché hanno quote o partecipazioni in comunità di accoglienza. Soci, direttori, fondatori.
Come a Venezia, alla comunità Cedro: un giudice onorario è sia membro della comunità che relatore di relazioni per il tribunale.Spes è un ente pubblico a Padova che si occupa di minori: il presidente è anche giudice onorario a Venezia. E nel tempo libero si occupa della struttura.Per diventare giudice onorario si deve partecipare ad un bando e decide la CSM: ma sono nomine clientelari, dice Mauro Imparato, ex giudice, che pure lui denuncia indagini superficiali e casi di conflitto di interesse.

Chissà, se una volta terminata questa macchina del fango cominceremo ad occuparci di bambini e di famiglie.

Viaggiare sui treni





L'incidente (o presunto attentato) alla linea dell'av sui treni sulla linea per Firenze è stato usato per l'ennesima speculazione politica, come il caso dei bambini di Bibbiano.
Anziché preoccuparci di capire se è stato un attentato, come mai quella dorsale è così fragile, si è strumentalizzato il blocco della circolazione per la faida interna nel governo.
Da una parte Salvini che ha attaccato il ministro del no.
Dall'altra parte Toninelli ha dato a Salvini del ministro che non blocca le ong.

Nel frattempo, si è data la colpa agli anarchici, che non fa mai male: basta un fiammifero per bloccare l'Italia?
Siamo veramente così a rischio?
E la soluzione per questi problemi è aprire cantieri per altre linee ad alta velocità al nord?

E come siamo messi a sicurezza sui treni? In questi anni sulle linee ferroviarie sono avvenuti diversi incidenti, dalla strage di Viareggio all'incidente a Portello nel gennaio 2018: oltre agli investimenti per l'alta velocità, che è remunerativa, investiremo anche in sicurezza?

22 luglio 2019

Fino a che punto

Fino a che punto vogliamo spostare verso il basso l'asticella della comunicazione?
Dice Di Maio (parlando di eventuali alleanze) che mi risulta essere ministro della Repubblica, lui non vuole andare col partito di Bibiano, col partito che ruba i bambini alle famiglie.
Spero che non si trinceri dietro all'immunità e che risponda di questo (su Valigia Blu un'analisi dei fatti noti).

Povero ministro del lavoro che è costretto ad inseguire Salvini nel suo linguaggio e nei suoi modi (trovandosi bene, a quanto vedo): il ministro delle zecche rosse, dei bacioni, costretto a seguire le indicazioni di Washington senza però scontentare l'amico russo.

Povera opposizione costretta a scimmiottare la comunicazione dei 5 stelle e di Salvini, non avendo capito che a furia di sguazzare nel fango ci si sporca tutti.

E nel frattempo l'autonomia regionale (altrimenti nota come secessione delle regioni ricche) va avanti, le crisi industriali non vengono risolte, la sanità pubblica e la scuola pubblica perdono colpi e via discorrendo..

21 luglio 2019

Le menzogne che faticano a morire


Anni fa era uscito un libro che si intitolava Tutto ciò che sai è falso”: un saggio sulla disinformazione che spiegava come la nostra percezione della realtà fosse distorta.
Reduce dalla lettura del bel libro di Concita De Gregorio, “Nella notte”, mi è tornato in mente e mi ha fatto riflettere su quanto sia vasto il problema della disinformazione e quanto sia paradossale che succeda oggi nel mondo di internet, dei social media, dove l'informazione dovrebbe essere alla portata di tutti.
Ma non è così: basta partire da quanto successo la passata settimana cominciando dai conti ancora aperti col G8 di Genova e la morte di Carlo Giuliani, la morte dell'ex procuratore Borrelli e con i nostalgici della prima Repubblica quelli che parlano del complotto di Mani pulite; l'anniversario della strage di via D'Amelio e il depistaggio di Stato, di cui finalmente si parla.
Per arrivare a quelli che si abbeverano sui social media dove si parla di invasione di immigrati, di porti da chiudere di invasione. E' veramente così?

Tu quello che sappiamo sulle bombe della mafia della stagione 1992 1994 non racconta tutta la verità di quello che è successo, la verità giudiziaria che ci rimane non spiega la genesi della seconda Repubblica e la fine dei partiti politici della prima Repubblica spazzati via dalle bombe, dalla corruzione e anche dal fatto che non avevano più elettori che li votavano.
Il golpe giudiziario, che avrebbe toccato solo i partiti di centro destra e non il PCI (che pure non esisteva più dal 1989) è dovuto al fatto che non c'era più quel “muro” che costringeva l'Italia a mantenere quel blocco di potere attorno alla Democrazia Cristiana.
Con buona pace dei golpisti, Mani pulite ha toccato anche funzionari del PCI a Milano e Torino: eppure ieri, in occasione delle morte dell'ex procuratore Borrelli si è tornato a parlare di golpe, di Craxi esule lontano dall'Italia.

Il 19 luglio invece si è tornati, ma solo per un giorno, a parlare di mafia: torniamo sempre a parlare di quel biennio, 1992-1994, della fine della prima Repubblica e delle bombe della mafia in Sicilia e poi a colpire luoghi d'arte. Lo Stato ha sconfitto la mafia? Abbiamo dato giustizia a tutte le vittime?
Oppure quelle bombe erano il frutto di un dialogo di un pezzo di Stato mafioso e un pezzo di Stato deviato (che vedeva dentro anche pezzi di servizi): la morte di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone serviva a firmare quel patto, spazzar via vecchi residuati politici, l'ala militare mafiosa per dare l'impressione di un rinnovamento che di fatto non c'è stato

Il 20 luglio è stato l'anniversario della morte di Carlo Giuliani, ucciso in piazza Alimonda da un carabiniere: legittima difesa, hanno detto, Carlo stava assaltando la camionetta dei carabinieri.
Ma, come per Mani Pulite, per le stragi di mafia, si dive alzare la prospettiva con cui si guardano le cose e non fermarsi a quello scatto che mostra un un ragazzo alto un metro e 65 cm con un mano un estintore vuoto.

Crediamo di sapere tutto sul G8 di Genova, sulle devastazioni dei Black bloc, sugli scontri di piazza, sulla morte di Carlo Giuliani, ma non è vero.
Bisogna guardare il film di Daniele Vicari per conoscere la storia della macelleria messicana alla Diaz, le violenze psicologiche nel carcere di Bolzaneto.
L'inerzia della polizia nel colpire i black bloc che agivano indisturbati a Genova nei primi due giorni.

Ma, nel caos informativo di questi giorni, chi le racconta queste cose?
Chi racconta che a Milano (e nel resto d'Italia) si faceva la cresta su ogni appalto e non per finanziare il partito? Che le tangenti favorivano i cattivi politici e i cattivi imprenditori, penalizzando le imprese oneste?

A Milano si è stimato che la MM3 sia costata 192 miliardi/km.
Ad Amburgo 45.
I costi per il passante sono stati di 100 miliardi/km per 7 anni.
A Zurigo è costato 50 miliardi.
Negli anni 80 il debuto pubblico è salito alle stelle: si è passati (rapporto PIL/debito pubblico) da 60% nel 1980, al 118% nel 1992.

[Da Blu Notte Tangentopoli]

Chi racconta che è impossibile che funzionari di polizia abbiamo creato da soli la falsa pista Scarantino e che giudici e magistrati l'hanno ritenuta credibile?
Chi racconta che nel 2001 quelli che chiedevano un mondo diverso, i no global, sono stati colpiti e ridicolizzati e che quelli che erano allora i nemici dei No Global oggi sono proprio i sovranisti, diventati no global fuori tempo massimo.
L'irrinunciabile linea del Piave di cui parlava Borrelli nel ultimo discorso da procuratore generale deve essere un monito anche per noi, deve spingerci ad andare a cercare la verità e non fermarsi alle verità di comodo, quelle confezionate da altri e che la macchina della menzogna ha trasformato in verità di comodo.

20 luglio 2019

Depistato, di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco



Quella che state per leggere è la storia di una grande bugia di Stato, figlia di una colossale mistificazione che dura da ventisette anni. È una storia che nessuno racconta ..

La storia che nessuno racconta (o che al limite viene solo accennata) è la storia della più grande e grave menzogna della nostra recente: il depistaggio di Stato suiresponsabili della strage di via D'Amelio dove, il 19 luglio 1992, perse la vita il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, Traina, Catalano, Li Muli, Cosina ed Emanuela Loi, la giovane agente che Borsellino considerava quasi come una figlia, troppo giovane per morire:
«Questa ragazza mi sembra un farfalla, potrebbe essere mia figlia. Non voglio morti così giovani sulla coscienza. Intesi, Catalano?»

La storia che i due giornalisti raccontano è la storia di un'indagine che sin dall'inizio è stata messa sui binari della messa in scena, per individuare un responsabile di comodo, Vincenzo Scarantino e per allontanare l'attenzione dai veri responsabili, dai veri mandanti.
In questa storia non ci sono buoni e cattivi, il confine è veramente labile: ci sono agenti in divisa come Gioacchino Genchi, che hanno cercato le tracce dei responsabili seguendo la pista dei cellulari clonati (pista che porta dentro al mondo dei servizi).

E ci sono agenti che hanno costruito un finto pentito, Scarantino, vestito come un pupo e istruito a suon botte e violenze psicologiche affinché imparasse la lezione.
Sono gli agenti della squadra messa in piedi dal Viminale attorno ad Arnarlo La Barbera e che oggi sono stati rinviati a giudizio per la loro condotta, si tratta di Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei (La Barbera nel frattempo è morto).

Un'indagine che è nata attraverso una forzatura, l'assegnazione delle indagini da parte del procuratore Tinebra ad un funzionario del Sisde, Bruno Contrada.
E proprio dal Sisde arrivarono le prime veline su Scarantino e le sue parentele mafiose, che servivano a costruire il personaggio di rango mafioso.

Sembra di rivedere il film di Piazza Fontana e di altri misteri d'italia: solo che in questa storia, Scarantino è stato ritenuto credibile non solo dai magistrati di Caltanissetta (e anche da Ilda Boccassini, almeno nei primi mesi del suo pentimento, finché non parlo anche della strage di Capaci), ma anche dai giudici che ritennero vere le sue rivelazioni, in primo grado fino in Cassazione.

«Il lavoro di questa procura – dice la Boccassini – è stato possibile perché tutti i pezzi dello Stato si sono compattati. Il mio ringraziamento alla dottoressa Liliana Ferraro che non ha mai abbandonato Caltanissetta [..] Ringrazio il collega Di Maggio la cui esperienza, professionalità e il coraggio dimostrato [..]
Senza l’aiuto di Di Maggio, senza la collaborazione del direttore di Pianosa e di tutti gli agenti non sarebbe stato possibile gestire per la prima volta con Scarantino nel carcere di Pianosa gli eccellenti risultati che stiamo ottenendo».

Come è stato possibile?
Come è stato possibile credere che Riina affidasse ad un personaggio (che aveva alle spalle piccoli reati per spaccio) una strage così importante?
Importante per la fretta, per quei soli 57 giorni che la separavano dalla bomba di Capaci.
Eppure questo è successo: ancora oggi i familiari del giudice chiedono conto allo Stato, all'autorità giudiziaria, al CSM e alla Cassazione del depistaggio in atto.
I due autori riportano le dichiarazioni di questi giudici: prima enfatiche, per la soddisfazione di aver dato subito giustizia alle vittime, per il racconto di questo pentito che veniva considerato un novello Buscetta.
Dichiarazioni ai limiti dell'imbarazzo, poi, quando la menzogna venne svelata, dall'ennesima ritrattazione di Scarantino e dall'arrivo delle dichiarazione di Gaspare Spatuzza.
Il libro di Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco racconta la storia assurda di questi processi, la pista seguita da Genchi sui cellulari clonati usati dai mafiosi, pista poi stoppata, dei rapporti tra Tinebra (il procuratore capo di Caltanissetta) e il Sisde, la pista scartata che portava a “faccia di mostro”, l'agente di polizia che per mesi si è ritenuto responsabile di diversi delitti eccellenti nell'isola (come quello dell'agente Agostino nel 1989).

Troppe domande rimangono ancora senza risposta, ancora oggi, quando sono passati 27 anni da quella bomba: la prima riguarda i poliziotti che hanno messo in bocca a Scarantino quella menzogna.
Difficile che agissero da soli, senza un input superiore. E dunque lecito chiedersi chi ha ideato il depistaggio che tra l'altro mescola anche pezzi di verità che dovevano arrivare da personaggi che hanno partecipato alla strage in prima persona (per esempio, la 126 imbottita di esplosivo, che esce fin da subito dai documenti degli investigatori).

Sia la versione di Spatuzza che quella di Scarantino convergono sulla centralità della mafia: Spatuzza ha raccontato un particolare che alza lo scenario ad altri partecipanti:
L’unico inquietante spiraglio aperto da Spatuzza su scenari inediti, quell’avvistamento nel garage di via Villasevaglios di uno sconosciuto che assisteva al «caricamento» della Fiat 126,

Molte testimonianze raccontano di personaggi dei servizi segreti presenti sulla scena della strage sin dall'inizio: come facevano ad essere presenti lì in così poco tempo? Qualcuno li aveva avvisati prima?
Lo racconta il vicesovrintendente Giuseppe Garofalo, in servizio alla sezione volanti: “il poliziotto nota un uomo in borghese, con indosso la giacca (nonostante il torrido clima estivo) e pochi capelli in testa.”

Ecco dunque lo scenario che si apre a nuovi personaggi, come una macchina da presa che allarga l'inquadratura: non solo il piccolo criminale di borgata, non solo il mafioso di Brancaccio, il killer dei Graviano. Ma anche il mondo dei servizi deviati, per cui è lecito cosa cercassero tra le auto in fumo e i cadaveri carbonizzati: forse quell'agenda rossa dove Borsellino stava annotando tutte le sue scoperte, come quelle sulla strage dell'amico Giovanni Falcone?

Tutto questo ci conduce alla domanda più importante: perché? Perché quella strage, perché così in fretta?
Dopo via D'Amelio lo Stato e il Parlamento dovettero approvare il decreto Falcone che altrimenti sarebbe decaduto. Esso conteneva il 41 bis, una legge che a Riina non doveva proprio piacere.
Chi ha consigliato allora a zu Totò quella bomba?

Quello che Borsellino sapeva, quello che aveva capito, doveva essere messo a tacere per sempre. Per questo non bastava eliminare il giudice

Domanda che porta a quella convergenza di interessi tra boss mafiosi, non dell'ala militare di Riina, politici collusi con la mafia, servizi deviati all'interesse di quest'ultimi e, se vogliamo dare ascolto all'ex ministro Pomicino, anche servizi americani:
Non si può non rilevare, secondo Pomicino, che in quel momento c’è stata una «convergenza di obiettivi» tra Cosa nostra e i servizi segreti atlantici, per provocare in Italia un enorme scossone politico.

Dopo 27 anni, dopo quattro processi, è arrivato il momento di fare luce su tutti questi misteri, aprendo gli archivi della commissione antimafia e anche quelli dell'ex Sisde: dobbiamo pretenderla tutti questa verità, se vogliamo liberare la nostra democrazia da ricatti e segreti (da cui è nata la seconda Repubblica, a cominciare dal partito di Dell'Utri e Berlusconi) e “respirare quel fresco profumo di libertà”.

La scheda del libro sul sito di Chiarelettere
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

19 luglio 2019

La storia di Paolo Borsellino




La storia di Paolo Borsellino è quella di un uomo dello Stato che credeva nelle istituzioni, di un giudice che credeva nella legge e nella giustizia, nella legge uguale per tutti, non nella legge che tutela solo i più forti.

La storia di Paolo Borsellino è quella di un magistrato coraggioso, che ha fatto il suo dovere fino in fondo, che ha sopportato enormi sacrifici assieme ai colleghi del pool.
Un magistrato che è stato ucciso due volte: la prima volta per mano della mafia (e probabilmente di altra manovalanza) ma su mandati di poteri che vanno oltre la mafia in una strage molto strana, perché seguiva di soli 55 giorni quella del collega e amico Giovanni Falcone, a Capaci.
Strana strage perché Borsellino è stato ucciso una seconda volta dallo Stato, per quell'indegno depistaggio di cui è stato vittima e che fu organizzato dal uomini dello Stato.

..la storia del depistaggio di via D’Amelio: la fabbrica del falso pentito Vincenzo Scarantino, artigiano semianalfabeta, orchestrata dagli investigatori di Arnaldo La Barbera

Ci sono voluti anni e l'autoconfessione di Gaspare Spatuzza affinché si facesse giustizia, di Borsellino ma anche dei balordi condannati (Candura, Orofino e lo stesso Scarantino) per quella finta pista che partiva da un piccolo spacciatore del quartiere di Guadagna che era stato “vestito” come un uomo d'onore da La Barbera e considerato dai magistrati di Caltanissetta (Giovanni Tinebra e i suoi collaboratori, Anna Palma, Ilda Boccassini e Giordano).

Un depistaggio fatto non per conquistare meriti, ma “allo scopo di non individuare i veri colpevoli di quella strage. E i veri responsabili sotto il profilo dei mandanti.”
Sono le parole dell'ex poliziotto Genchi che aveva seguito le indagini seguendo i tracciati dei cellulari dei sospettati.

Non si può, dunque, ricordare Borsellino e non parlare del depistaggio di Stato, della trattativa stato-mafia che ha portato (al momento solo in primo grado) alla condanna di ufficiali del Ros (l'ex capo del Sisde Mori) e di esponenti politici (Marcello Dell'Utri, fondatore del partito Forza Italia).

Ecco perché alla strage di via D'Amelio e alla morte Paolo Borsellino solitamente si dedicano solo poche parole di circostanza: la mafia sconfitta dallo Stato, lo Stato che è stato capace di arrestare tutti i mafiosi colpevoli delle bombe della stagione eversiva di cosa nostra tra il 1992 e il 1993.
Lo Stato ha vinto perché ha sconfitto la mafia militare di Riina e Bagarella .. (e la mafia dei colletti bianchi, la mafia che viaggia a braccetto con la massoneria?)

Meglio non infilarsi in discorsi troppo lunghi, altrimenti gli uomini delle attuali istituzioni, ministri, politici, dovrebbero spiegare come mai Arnaldo La Barbera (su input di chi?) e la sua squadra si inventarono il finto mafioso Scarantino convinto a furia di botte e torture psicologiche a confessare di essere lui dietro l'autobomba in via D'Amelio.
Altrimenti dovrebbero spiegare come mai il magistrato capo di Caltanissetta Tinebra affidò al Sisde di Bruno Contrada le prime indagini sulla strage.
Quel Bruno Contrada poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa su cui la procura di Palermo e Borsellino stesso avevano forti dubbi, per i suoi contatti con mafiosi come Saro Riccobono: contatti che la revisione della Corte Europea dei diritti non ha mai smentito.

Troppe cose non tornano sulla morte di Borsellino: la fretta di quella strage, il fatto incredibile che nessuna bonifica fosse stata fatta sulla via dove risedeva la madre del giudice.
Il fatto che in quei 57 giorni la procura di Caltanissetta non sentì mai Borsellino, non ritenne opportuno convocarlo, nemmeno dopo il suo discorso del 26 giugno a Palermo dove disse, alla folla che lo ascoltava, che i segreti che custodiva li avrebbe riferiti solo all'autorità giudiziaria.
Non torna il depistaggio, certamente: depistaggio che è servito a spostare l'attenzione lontano dai veri responsabili di quella strage, i mafiosi di Brancaccio, per esempio, i fratelli Graviano.
E, dai fratelli Graviano, su su fino ai mandanti a volto scoperto: tutti i politici coinvolti nella trattativa tra stato e mafia (che per anni è stata sminuita, chiamandola “presunta”), nata a seguito dell'omicidio di Salvo Lima e della sentenza del maxi processo, con le condanne definitive all'ergastolo di quel gennaio 1992.
E poi, come in altri delitti eccellenti della mafia (se fu solo mafia) ci sono dei pezzi mancanti: è sempre Genchi ad avere scoperto ma manina che “dopo il «botto» di via D’Amelio, si è incaricata di far sparire il traffico telefonico in entrata sul cellulare di Borsellino. «I tabulati delle chiamate – come ha rivelato Genchi – sono stati sottratti”.

Ci sono poi le telefonate dei tabulati fatti dai mafiosi tramite cellulari clonati:
a utilizzare quei cellulari clonati sono mafiosi, camorristi, ’ndranghetisti collegati a soggetti dei servizi segreti, che Genchi reincontrerà anni dopo in altre inchieste in Calabria.

Cellulari e numeri che partono dai mafiosi (come Gioè e La Barbera) e portano dentro uffici dei servizi, a Roma.
Tra i pezzi mancanti anche la memoria del databank Casio di Falcone, i sigilli rimossi dall'ufficio di Falcone a Roma e l'intrusione sui computer, con la cancellazione dei file.
E poi l'agenda rossa da cui Borsellino non si separava mai e di cui oggi non sappiamo che fine abbia fatto.

Oltre ai pezzi mancanti, c'è anche la memoria di politici e di altri magistrati che è mancata: da Martelli a Liliana Ferraro, che per anni si erano dimenticati di aver parlato col magistrato della trattativa, di cui Borsellino molto probabilmente era al corrente, essendo poi stato informato dagli ufficiali del Ros stesso, Mori e De Donno.
A mancare è stata la memoria dell'ex ministro Mancino (che non si ricorda dell'incontro col magistrato al Viminale, nel giorno in cui Borsellino incontra anche Contrada) ..
Ma la storia della strage va inquadrata in uno scenario molto più ampio e inquietante: la storia delle bombe della mafia del 1992 – 1993 si intreccia alle rivendicazioni della Falange Armata, alla grigia vicenda dei gladiatori che volevano essere messi in pensione senza pagare il prezzo per le operazioni sporche portate avanti in Italia durante la guerra fredda.
Si intreccia con l'esigenza, da parte della mafia (o delle mafie) e dei loro riferimenti politici di un nuovo accordo, di un nuovo equilibrio: occorreva spazzar via tutti i vecchi testimoni della mafia militare, da una parte, e i vecchi politici troppo collusi dall'altra.
Qualcuno dovrebbe spiegare come mai dall'autunno 1993, o dal gennaio 1994, dal fallito attentato allo stadio Olimpico, non sono più scoppiate bombe in Italia.
E forse collegare questo con l'arrivo di Forza Italia, partito fondato da quel compare palermitano di cui Graviano parlava con Spatuzza. Marcello Dell'Utri.

Recentemente si stanno desecretando le audizioni fatte presso la commissione antimafia, nella speranza di fare luce su tutti i misteri insoluti della storia mafiosa.
Forse serviranno a poco ma di certo sentire dalla voce di Borsellino la sua amarezza fa molto riflettere: il sentirsi solo, come molti altri magistrati antimafia, dover arrabattarsi per la scarsità di mezzi e di personale.

Eccolo lo Stato, o almeno una parte dello Stato, che porta avanti un'antimafia solo di facciata: lo stato di quei politici che da una parte parlano di sequestri e arresti di mafiosi ma poi si fanno pochi problemi per le candidature di personaggi poco raccomandabili.
Di quei politici che accettano pacchetti di voti da mafiosi.
Di quegli imprenditori che accettano i servizi di mafia spa per connivenza o perché meno costosi.

No: a 27 anni dalla strage di via D'Amelio non possiamo più accontentarci di una verità di comodo, di una verità dimezzata che si ferma solo ai tre poliziotti della squadra di La Barbera oggi a processo (Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei).
Vogliamo sapere chi c'era sopra di loro e perché è stato organizzato tutta questa messinscena?
Vogliamo sapere perché Borsellino è stato ucciso, perché questa fretta da parte di Riina nell'organizzare l'attentato?

I due giornalisti Lo Bianco e Rizza nel loro libro Depistato spiegano questa fretta con le informazioni che Borsellino aveva sulla strage di Capaci:
Tra i suoi impegni, oltre alla trasferta in Germania, c’era un appuntamento: un nuovo interrogatorio di Mutolo, che gli aveva parlato di Contrada anticipando rivelazioni sui rapporti tra servizi segreti e mafia.

Finché non si farà luce su questi rapporti, su questi segreti e ricatti, lo Stato non potrà essere credibile quando parla di lotta alla mafia.

Tutte le citazioni di questo post sono prese dal libro DepiStato di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza – Chiarelettere