30 settembre 2018

Il patto sporco, Saverio Lodato e Nino Di Matteo



Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista

Venticinque anni di solitudine e coraggio
Dottor Di Matteo, venticinque anni di inchieste e di solitudine, di ricerca accanica della verità, di successi e di momenti di amarezza, ma anche di isolamento e di vita blindata. Un quarto di secolo, con la toga addosso, nell'Italia di oggi. Dall'età di trent'anni, a oggi che ne ha cinquantasette.Così è volata via metà della sua esistenza. Ma quando ha inizio l'incubo di una vita blindata giorno e notte? 
Il primo servizio di scorta lo ebbi nel dicembre 1993, alla procura di Caltanissetta. Ero alle prime armi. Mi avevano assegnato un processo che riguardava la guerra in corso in quegli anni fra cosa Nostra e la Stidda, nel territorio di Gela.

Comincia con questo ricordo il libro-intervista del giudice Nino Di Matteo scritto assieme al giornalista Saverio Lodato, autore di diversi saggi sulla mafia (all'inizio era “Dieci anni di mafia”, poi diventato “Venticinque anni di mafia”, fino all'ultimo "Quarant'anni di mafia" .. vedremo mai la fine?).

Il ricordo dei primi passi nella magistratura come uditore nel 1991, l'arrivo a Caltanissetta, la prima scorta, all'inizio vissuta come un cambiamento positivo, per poter lavorare in modo più sicuro.
Scorta che alla fine è diventata come una prigione, che impatta la tua vita e quella della tua famiglia: il livello di protezione si è alzato al massimo livello (“primo livello di protezione eccezionale”) dopo le ultime minacce ricevute. Mai nessun magistrato aveva subito minacce, pressioni, intimidazioni come Di Matteo (bisogna tornare indietro ai tempi di Falcone, Borsellino e al pool di Caponnetto).
Dossier, lettere anonime. E poi dover rispondere del proprio operato di fronte al CSM (per la storia delle telefonate di Mancino).
E apprendere che è già arrivato l'esplosivo per farti saltare in aria, ascoltare dalla voce di un mafioso pentito che sta per arrivare la tua ora: è quello che disse a Di Matteo Vito Galatolo, lei si è spinto troppo oltre nel suo lavoro.
Lei deve stare attento, perché noi siamo molto avanti”.

Come spiegare questo livello di minacce? La risposta sta proprio nelle parole del capomafia: il giudice Di Matteo, assieme a pochi altri magistrati, si era voluto spingere troppo oltre per portare avanti il processo sulla Trattativa Stato mafia.
Dove “oltre” ha il significato di andare oltre le verità di comodo che la politica (e anche parte del mondo del giornalismo) hanno costruito.
Tramite questo processo si voleva capire i perché delle stragi, degli incontri tra uomini in divisa e mafiosi, del perché la magistratura fosse stata tenuta all'oscuro.
Si voleva applicare il principio della legge uguale per tutti, anche per i carabinieri del Ros, per i politici, per i rispettabili signori che hanno portato avanti, negli anni tra il 1992-1994 la trattativa e commesso (direttamente o in concorso) il reato di violenza a corpo dello Stato.

Per questo, Di Matteo è un magistrato tra i meno amati dalla politica, da parte di quel giornalismo garantista (Il Foglio, Il giornale, la fu Unità, Repubblica ..) nei confronti dei potenti quando vengono chiamati davanti ad un giudice.

Questo libro serve a colmare uno squilibrio che si è venuto a creare in questi anni attorno al processo di Palermo e attorno ai magistrati che l'hanno portato avanti: leggere i vari capitoli, con le domande del giornalista e le risposte del giudice, è come ripercorre la storia della mafia in Italia, anzi la storia del rapporto mafia politica, del rapporto di cosa nostra con parte delle istituzioni.
Dallo sbarco in Sicilia degli alleati, a Portella della Ginestra, i cadaveri eccellenti che hanno insanguinato le strade di Palermo (La Torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Costa, Terranova, Chinnici), fino alle stragi della stagione eversiva di Riina e dei corleonesi.
Perché Riina scelse di fare l'attentato proprio a Capaci quando era più semplice uccidere Falcone a Roma?
Chi ha fatto sparire l'agenda elettronica di Falcone (e l'agenda rossa di Borsellino poi)?
Perché quell'accelerazione dopo Capaci, per uccidere Paolo Borsellino con un'altra autobomba?
Chi, in quei giorni, consigliava Riina su come procedere (bisogna fare la guerra per preparare la pace poi)? E chi consigliava i corleonesi (dopo la cattura di Riina nel 1993) gli obiettivi in continente per le altre bombe?

Non tutti i misteri hanno avuto una risposta.
Ma quello che ora è sempre più chiaro (e una sentenza della magistratura ha anche messo nero su banco) è che dopo la sentenza del maxi processo, dopo le condanne all'ergastolo dei capimafia, dopo che per la prima volta la Cassazione aveva ammesso l'esistenza della mafia, come struttura unitaria e verticistica, i vertici di cosa nostra decisero di regolare i conti con la politica.
Cominciando dal capocorrente DC Salvo Lima, nel marzo 1992.

Da qui si deve partire per ricostruire la trattativa politica di pezzi dello stato coi mafiosi: gli ufficiali del Ros che informarono solo alcuni esponenti del mondo politico dei loro incontri con Vito Ciancimino.
La trattativa c'è stata: ci sono stati gli incontri, le promesse, le condotte opache (la mancata perquisizione del covo di Riina, la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso), e ci sono stati anche i segnali di distensione da parte dello stato.
"Questa sentenza di primo grado certifica come la trattativa ci fu e che uomini dello Stato si resero complici con i vertici di Cosa nostra nel ricatto nei confronti di quattro diversi governi della Repubblica. Per la giustizia ci sono voluti 25 anni per affermare, con una sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano, quello che era accaduto. Ma nel libro ci crediamo con amarezza, se quanto oggi consacrato in una sentenza dei giudici non era conosciuto ben prima, da soggetti ed ambienti della politica e delle istituzioni che invece che denunciare hanno preferito tacere, nascondere o preferito cancellare le prove di quel terribile connubio. Oggi possiamo essere soddisfatti del risultato a cui è arrivata la magistratura, ma non cancella questa soddisfazione l'amarezza della reticenza, ed oserei dire dell'omertà istituzionale, che ha caratterizzato ampi settori della politica e delle istituzioni rispetto un tema così delicato e così strettamente intersecato con quello delle stragi che hanno insanguinato la Sicilia e l'Italia intera tra il 1992 ed il 1993".


I segnali di distensione dello Stato
L'avvicendamento a capo del DAP di Niccolò Amato con Adalberto Capriotti e col vice Francesco Di Maggio (avvicendamento in cui un ruolo determinante lo ebbe il presidente Scalfaro).
Il siluramento di Scotti al ministero dell'Interno, sostituito da Mancino (il ministro che non si ricordava dell'incontro con Borsellino, che da privato cittadino chiedeva protezione al presidente Napolitano, ai vertici della Cassazione).
L'avvicendamento al ministero della Giustizia di Martelli con Conso, il magistrato che, in solitudine, decise di non prorogare i 41 bis. Come segnale di distensione da parte dello Stato, dopo le bombe a Firenze e a Milano e a Roma.
Segnali che hanno avuto delle controrisposte da parte di cosa nostra, come indicherebbe la convergenza dei voti mafiosi dalle leghe del sud al nuovo partito fondato dal paesano Dell'Utri e da Berlusconi, quello di Canale 5.

Il processo si doveva fare proprio per fare luce su tutti questi punti, per porre fine alle troppe menzogne che si sono sentite: la trattativa non ha salvato vite umane, per esempio non ha salvato le persone morte a Firenze, a Milano, le persone della scorta di Borsellino.
Tutto questo – sottolinea il magistrato siciliano – lo affermano i giudici sulla base di prove granitiche, con una conseguenza terribile nella sua cruda semplicità: la Trattativa, la manifestata disponibilità al dialogo con la mafia, il cedimento di una parte dello Stato, rafforzarono in Riina e nei suoi seguaci il convincimento che la scelta di attaccare frontalmente le istituzioni – a suon di bombe, ricatti e richieste – era quella giusta. Serviva a costringere definitivamente alla resa uno Stato che aveva già iniziato a piegare le ginocchia. La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. Con altre stragi, a partire da quella di via d’Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l’interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto”.

La trattativa non è servita a combattere definitivamente la mafia: consegnati nelle mani dello Stato la bassa manovalanza, l'ala militare attorno a Riina, il controllo di cosa nostra passò all'ala moderata di Provenzano, fino alla sua cattura nel 2006.
I giudici del processo non hanno perseguito il reato di “trattativa”, che nemmeno esiste, ma il reato di violenza a corpo dello Stato: aver indotto i governi, da quello Amato a quello Berlusconi compreso, a portare avanti delle politiche che interessavano cosa nostra.
Politiche per arginare l'ondata dei pentiti, per arginare la carcerazione preventiva, far chiudere le super carceri.

Nel libro il giudice Di Matteo ricorda anche una delle fase più delicate: quando furono intercettare le telefonate dell'ex ministro Mancino, tra queste quelle con Loris D'Ambrosio e col presidente Napolitano.
Il fuoco che si aprì contro la procura di Palermo, rea di aver osato intercettare il presidente (cosa falsa), contro Di Matteo accusato di aver rivelato il contenuto delle telefonate (cosa falsa, poiché la notizia era già uscita su alcuni giornali).
Cosa intendeva dire, l'ex magistrato D'Ambrosio al telefono quando esprimeva a Mancino i suoi timori, di essere stato “un inutile scriba di segreti indicibili”?

Il re è nudo, si dicono Lodato e Di Matteo:
Ormai il Re è nudo” scrive Lodato mentre introduce il tema della sentenza sulla trattativa Stato-mafia. “Il Re era nudo da tempo – replica Di Matteo -. Ma nessuno voleva vederlo. I fatti, i personaggi, le solite manine che hanno accompagnato, e in certi casi diretto dall’esterno sia la mafia sia il terrorismo in questo Paese, erano perfettamente individuabili. Ma nessuno voleva trarne le dovute conseguenze. Non si volevano delineare responsabilità politiche, istituzionali, storiche, che avrebbero potuto precedere e prescindere dalla responsabilità penale di soggetti determinati”.

Mentre in Italia si moriva sotto le bombe, qualcuno nello Stato trattava: questa la storia che non andava raccontata, portata alla luce.
Quegli anni dovevano essere sepolti sotto la verità di comodo di una mafia distrutta e di una battaglia vinta dallo Stato.
Ma non è così: quei segreti, quei ricatti, quel do ut des tra mafia e politica (“un gioco di specchi”) ha degli effetti ancora sul presente.
E' servito il processo (e le rivelazioni di Spatuzza, e le carte di Massimo Ciancimino) per far tornare la memoria ai protagonisti di quegli anni: Liliana Ferraro, Martelli, Violante ..

Le 5252 pagine della sentenza

Le ultime due parti del libro sono forse ancora più importanti del dialogo intervista tra giudice e giornalista: c'è un riassunto delle 5252 pagine della sentenza depositata a luglio 2018, dove si mettono nero su bianco le responsabilità, gli episodi, le date: a futura memoria per il paese ma soprattutto per i negazionisti (Scalfari, Fiandaca, Padovani, Deaglio..) della trattativa, non più presunta.
Tutto questo – sottolinea il magistrato siciliano – lo affermano i giudici sulla base di prove granitiche, con una conseguenza terribile nella sua cruda semplicità: la Trattativa, la manifestata disponibilità al dialogo con la mafia, il cedimento di una parte dello Stato, rafforzarono in Riina e nei suoi seguaci il convincimento che la scelta di attaccare frontalmente le istituzioni – a suon di bombe, ricatti e richieste – era quella giusta. Serviva a costringere definitivamente alla resa uno Stato che aveva già iniziato a piegare le ginocchia. La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. Con altre stragi, a partire da quella di via d’Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l’interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto”.

Lasciatecelo dire

L'ultimo capitolo è una raccolta di articoli pubblicato da Saverio Lodato su Antimafiaduemila e pubblicato nel libro “Avanti mafia”, con un'ironia molto amara: sono articoli scritti in questi ultimi anni e che toccano alcuni punti già discussi nel libro
- le occasioni mancate per sconfiggere la mafia
- le telefonate di Mancino e gli “indicibili accordi”
- “Quarant'anni di Stato-mafia emafia-stato?”: dove si pone il confine tra Stato e mafia; perché con le BR si è attuata la linea della fermezza mente con la mafia si è scelto di trattare?
- “Il nuovo anno di un condannato a morte”: il silenzio nei confronti del giudice di Matteo (da parte del governo Renzi); la trappola dentro la proposta di andare a Roma alla DNA (Direzione nazionale antimafia) senza passare per un concorso.
- “Chi sono loro? E chi siamo noi?”: loro sono quelli che lodano i magistrati morti, dell'antimafia di facciata.

Altri articoli
- Il dossier sul processo di Palermo sul sito di Antimafiaduemila

La scheda del libro sul sito di Chiarelettere
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


28 settembre 2018

Avanti popolo

In nome del popolo.
Per il popolo.

Il governo del (presunto) cambiamento ha approvato al consiglio del ministro la nota al DEF con cui si accetta di arrivare alla percentuale del 2,4% del deficit sul pil per la prossima manovra.
La manovra del popolo appunto, quella che sconfiggerà la povertà (anzi, avete voi notizie dei poveri?).
Manovra annunciata dal balcone di Palazzo Chigi di fronte alla folla dei follower entusiasti.

Entusiasmo fuori luogo perché quei miliardi di debito in più ricadranno sulle spalle delle generazioni future: sono soldi per un pezzetto del reddito di cittadinanza, per un condoni mini per i piccoli evasori, la Fornero.
Se tutto questo non dovesse portare benefici o se i mercati dovessero iniziare ad innervosirsi, potrebbe essere un problema: non basterà attaccare i poteri forti, Soros e l'Europa ingrata.
Il viaggio di nozze tra governo e paese (non i tifosi del web) potrebbe finire, dunque.
A Genova, dove le persone si aspettano risposte ora.
A Taranto, per le promesse non mantenute.

Il cambiamento sta passando per troppi compromessi: l'alleanza con Salvini, la nomina di Foa, il condono, la mancata cancellazione del jobs act ..
Il popolo è una bestia feroce a volte

27 settembre 2018

Cosa dice la sentenza sulla Trattativa (da "Il patto sporco" di Lodato Di Matteo)



Il processo sulla Trattativa Stato mafia: il processo che non si doveva fare, per cui i magistrati che lo hanno voluto portare avanti sono stati chiamati eversori, magistrati che perdono tempo, che non rispettano le prerogative del capo dello Stato.
Perché non c'è nulla di male nel trattare, in guerra si tratta - questo scriveva Scalfari su Repubblica, il decano del giornalismo sul giornale della borghesia democratica.
Ma nelle carte della sentenza (5252 pagine!) c'è scritta tutta la storia del rapporto Stato mafia, del reato di violenza a corpo dello Stato (il reato contestato agli imputati) e la ricostruzione di tanti misteri, delitti politici e stragi avvenute in Italia

5252 pagine. Ogni pagina una pietra, un pugno nello stomaco di chi per anni non aveva capito o aveva fatto finta di non capire. Per i distratti e i "negazionisti" per vocazione. Quelli per cui la mafia è solo bassa macelleria criminale.Non impressiona tanto il dato numerico. c'è molto altro. la chiarezza espositiva, la profondità di ogni argomentazione in fatto e in diritto, la dimostrazione della grande autonomia intellettuale dei giudici che non si sono mai pregiudizialmente e acriticamente adeguati alle tesi delle parti processuali.Una visione d'insieme, in quadro generale che ha permesso di valutare la condotta di ciascun imputato in relazione alla sua personalità, al suo comportamento processuale, ai suoi trascorsi criminali o professionali.Una ricostruzione che ha consentito di dipanare un filo rosso che collega vicende apparentemente distinte: la Trattativa- il dialogo che attraverso Vito Ciancimino i carabinieri del Ros ottennero con i vertici di cosa nostra - la minaccia dei mafiosi nei confronti del governo della Repubblica che ne conseguì, i misteri legati alla cattura di Riina e alla mancata perquisizione del suo covo, l'interminabile latitanza (quarantatré anni!) di Provenzano e le coperture istituzionali di quella vergogna; le minacce, le rivendicazioni, i sinistri preannunci della «Falange Armata» che accompagnarono stragi e attentati tra il 1991 e il 1994; le vicende istituzionali connesse all'avvicendamento del ministro dell'Interno Scotti, il siluramento del capo delle carceri Nicolò Amato, il segnale di distensione che lo Stato volle dare alla mafia con la mancata proroga di 334 decreti di sottoposizione al 41 bis di importanti esponenti della criminalità organizzata; l'evoluzione delle strategie politiche di Cosa Nostra: dal sogno federalista all'appoggio, incondizionato e condiviso dalle diverse anime dell'organizzazione mafiosa, al nascente partito politico di «Forza Italia». La formazione del primo «governo Berlusconi» nel 1994 e il rinnovo della Trattativa e delle minacce non più attraverso il canale dei carabinieri ma,. stavolta ricorrendo a quello già sperimentato in passato, di Dell'Utri-Berlusconi.Tutto è collegato, tutto si tiene; ciascun passaggio della ricostruzione illumina la comprensione degli altri.Una storia complessa che la motivazione della sentenza ripercorre in parallelo a quello delle stragi che insanguinarono il nostro paese.Quelle siciliane e quelle del «continente».Quelle realizzate e quelle fallite; gli omicidi eccellenti eseguiti e quelli il cui progetto venne improvvisamente abbandonato. Stato e mafia. Una mossa dello Stato, una contromossa di cosa nostra. Un gioco degli specchi, una guerra di posizioni giocata ad alti livelli, un intreccio di apparenze create ad arte per nascondere una realtà indicibile. Verità destinate per sempre a rimanere nascoste e che, per questo, venivano ostinatamente taciute anche da uomini dello Stato che avevano l'obbligo di non tacere.[..]La Trattativa non evitò altro sangue. Lo provocò. con altre stragi, a partire da quella di via D'Amelio, che muovevano dalla logica di intimorire ancora di più l'interlocutore istituzionale, la controparte di un dialogo scellerato e segreto.

Il patto sporco -  Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista, di Saverio Lodato e Nino di Matteo

I difensori della stampa

Oggi siamo tutti difensori della libertà di stampa e dell'ordine dei giornalisti.
Specie dai nuovi governanti che vorrebbero abolirlo per sostituirlo non si sa con cosa.

Tutto bello, peccato che questa battaglia si sia trasformata in una battaglia tra bianco contro nero, pro o contro, dove la difesa dell'odg è un pretesto per attaccare il governo.
E allora Casalino?
E allora Consip?
E allora le fake news?
E allora la bollinatura della ragioneria sul decreto Genova?

La libertà di stampa e la libertà nel pubblicare anche le notizie scomode vanno difese sempre.
Anche quando danno fastidio a qualche inserzionista come i Benetton.
Di seguiti le prime pagine di alcuni giornali nel giorno in cui è uscita la relazione sui tecnici del ministero, per il ponte di Genova crollato




26 settembre 2018

Quello che Matteo Messina Denaro non può non sapere

Dal libro intervista del giudice Nino di Matteo ("Il patto sporco" Chiarelettere editore), il giudice che si è spinto troppo oltre nella lotta alla mafia (sono le parole usate dal boss Galatolo): quali segreti custodisce il boss Matteo Messina Denaro, probabilmente l'erede di Riina dentro cosa nostra?
Ci sono cose che il capomafia non può non sapere - risponde il giudice al giornalista Saverio Lodato:
Non può non sapere se Giuseppe Graviano, nel periodo delle stragi siciliane, aveva davvero rapporti con Berlusconi anche in funzione della successiva creazione del nuovo movimento politico, denominato «Forza Italia». Non può non sapere perché la strategia delle bombe venne esportata in continente con l'adozione di modalità terroristiche mai appartenute, in precedenza, a cosa nostra.
Ma c'è dell'altro. Non può non sapere se, come appare logico pensare, la scelta dei singoli obiettivi da colpire venne suggerita ai macellai di cosa nostra da uomini ed entità esterne di altri poteri.
Infine non può non sapere perché, subito dopo il fallito attentato all'Olimpico - quando il 23 gennaio 1994 la morte di centinaia di carabinieri fu evitata per un soffio dal cattivo funzionamento del telecomando - il progetto venne accantonato e l'intera strategia stragista improvvisamente interrotta. Sono questi i terribili segreti che Matteo Messina Denaro detiene, in una parola: la sua straordinaria arma di ricatto che spiega forse la sua interminabile latitanza

Il patto sporco -  Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista, di Saverio Lodato e Nino di Matteo

Gli attentati a Lima, Falcone, Borsellino, le bombe a Milano, Firenze, Roma, gli omicidi di valorosi commissari di polizia e ufficiali dei carabinieri. Lo Stato in ginocchio, i suoi uomini migliori sacrificati. Ma mentre correva il sangue delle stragi c’era chi, proprio in nome dello Stato, dialogava e interagiva con il nemico.La sentenza di condanna di Palermo, contro l’opinione di molti “negazionisti”, ha provato che la trattativa non solo ci fu ma non evitò altro sangue. Anzi, lo provocò. Come racconta il pm Di Matteo a Saverio Lodato in questa appassionata ricostruzione, per la prima volta una sentenza accosta il protagonismo della mafia a Berlusconi esponente politico, e per la prima volta carabinieri di alto rango, Subranni, Mori e De Donno, sono ritenuti colpevoli di aver tradito le loro divise. Troppi i non ricordo e gli errori di politici e forze dell’ordine dietro vicende altrimenti inspiegabili come l’interminabile latitanza (43 anni!) di Provenzano, la cattura di Riina e la mancata perquisizione del suo covo, il siluramento del capo delle carceri, Nicolò Amato, la sospensione del carcere duro per 334 boss mafiosi.Anni di silenzi, depistaggi, pressioni ai massimi livelli (anche dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), qui documentati, finalizzati a intimidire e a bloccare le indagini. Ora, dopo questa prima sentenza che si può dire storica, le istituzioni appaiono più forti e possono spazzare via per sempre il tanfo maleodorante delle complicità e della convivenza segreta con la mafia.

L'equazione sulla sicurezza

Prima di parla del decreto sicurezza, una piccola parentesi a commento della relazione della commissione del ministero sul crollo del ponte di Genova: dopo la privatizzazione, la spesa per la manutenzione è "crollata" a 23mila euro l'anno. Pur di tenere alti i profitti, si è giocato d'azzardo sulla pelle delle persone.

“All ’interno dell’importo totale dei lavori strutturali, pari a 24.610.500 euro, si nota che il 98 per cento dell’importo è stato speso prima del 1999 (anno della privatizzazione di Autostrade); dopo il 1999 è stato speso solo il 2 per cento di questo importo; l’investimento medio annuo è stato pari a 1,3 milioni di euro nel periodo 1982-1999” 
“L’investimento medio annuo è stato invece pari a 23 mila euro circa nel periodo 1999-agosto 2018. (...) L’investimento medio annuo nel periodo 1999-agosto 2018, per interventi non strutturali”(di -versi cioè dagli interventi strutturali e relativi a barrierespartitraffico, con aumento di carico senza corrispondenti rinforzi, e passerelle) è statopari a 423 mila euro circa, per un totale, nel periodo, di 8,7 milioni di euro circa”. 
IN NOME DEL PROFITTO. “Emerge una irresponsabile minimizzazione dei necessari in-terventi da parte delle strutture tecniche di Aspi, perfino anche di manutenzione ordina-ria. (...) Da ciò una considerazione: non fare oggi semplice manutenzione ordinaria significa voler fare domani molta manutenzione straordina-ria a costi certamente più alti,con speculare maggiore remuneratività, passando gli interventi dal quadro di previsione F1 al quadro F2 ovvero al paragrafo C2 tratto 2 previsto nel piano economico finanzia-rio (significa passare da lavori a carico del concessionario a in-terventi straordinari scaricati sugli automobilisti attraverso i pedaggi, ndr). Ne discende, come logico corollario, una massimizzazione dei profitti utilizzando a proprio esclusivo tornaconto le clausole contrattuali”. E i dividendi dei Benetton volavano. (Giorgio Meletti sul Fatto Quotidiano)

Sicuramente gli attuali ministri sono persone con poca preparazione, quelli che presentano i decreti coi puntini al posto delle cifre a copertura.
Ma che dire allora dei "competenti" che c'erano prima?

Anche la gestione delle infrastrutture, delle scuole pubbliche, riguarda la sicurezza dei cittadini.
Ma per il ministro Salvini l'unica equazione che ha senso è questa: 

meno immigrati = più sicurezza 

Che il decreto omonimo traduce in: 

più immigrati clandestini = maggiore propaganda per i populisti

Perché questo sarà l'effetto del decreto, una volta convertito: meno integrazione, meno sprar, più carcere per gli irregolari, più espulsioni (sulla carta), una condanna (o un'accusa solo) e perdi cittadinanza e diritti.
Quanto piace a Salvini questa parola, clandestini. Chi entra nel nostro paese senza rispettare le regole è un clandestini, semplice no?
Ma se le regole per entrare in Italia sono tortuose, se c'è un percorso a ostacoli, lungo, significa che il tuo obiettivo è averli sul territorio i clandestini: immigrati a cui non è concesso alcun percorso sul territorio che in qualche modo dovranno campare.

Perché si campa sulla lotta ai migranti, mica sulla lotta agli evasori, sulla lotta alla corruzione o, addirittura, sulla lotta alle mafie.
Cosa c'è, nel decreto Salvini contro le mafie?
Chiacchiere.
Nessun disegno organico su come contrastarle, su come gestire i beni confiscati, sulle misure per contrastarne i reati "civetta".
Eppure "mafia capitale" ci ha raccontato di quanto la mafia (non solo quella siciliana) sia capace di inserirsi dentro tutti i settori dell'economia, di quanto siano avvicinabili i politici locali e nazionali.
Occorre agire sul do ut des tra mafioso e politico, sulla semplificazione delle norme sugli appalti.

Ma forse temono che la propaganda contro i mafiosi non funzionerebbe bene come quella contro i ragazzotti con l'iphone e i 35 euro.
Evasori, mafiosi, votano e finanziano associazioni politiche.

25 settembre 2018

Il cinese di Andrea Cotti



La prima inchiesta del vicequestore Luca Wu a Roma
Incipit
Dolore e paura. Un dolore vasto e profondo come un abisso, una paura buia e soffocante. Questo è tutto ciò che sente la ragazza. Il suo mondo è soltanto dolore e paura. Però è ancora viva. Il cuore continua a battere, lei continua a respirare, e a poco a poco il perimetro del suo mondo si allarga fino a comprendere le altre due ragazze nella stanza.Sono cinesi come lei, e sono arrivate lì nel suo stesso modo. Sa che provano il suo dolore e la sua paura.

Tre ragazze chiuse in una stanza, sembrerebbe l'incipit di un romanzo del terrore non di un noir ambientato nella Roma odierna. Ma queste ragazze hanno provato veramente quel terrore che le inchioda a quelle pareti spoglie di una stanza di tortura.
Quale colpa devono scontare queste ragazze cinesi, per provare un dolore che è come “una pianura in fiamme” e chi è il demone che le viene a visitare e che compie il suo rito sui loro corpi?

Sono solo tasselli di un disegno più grande e pauroso che si ricostruirà solo alla fine, per merito del vicequestore Luca Wu, dirigente del commissariato di TorPignattara a Roma, ex commissario della Mobile a Bologna e chiamato a Roma dal Questore per dirigere uno dei commissariati dei quartieri “cinesi” della capitale. E non solo solo per una questione “politica”, perché serviva un poliziotto con gli occhi a mandorla da sbandierare di fronte a giornalisti e cittadino.
Il vicequestore Luca Wu è uno bravo, uno di quei poliziotti che non sta dietro una scrivania a firmare moduli e a seguire casi facili per fare carriera e compiacere i superiori.
Sono il vicequestore aggiunto Luca Wu, ho trentaquattro anni, e sono nato in Italia da genitori cinesi. Sono italiano e sono cinese.

Luca Wu è uno di quegli “sbirri” nati per fare questo mestiere: seguire gli indizi, non fermarsi alle apparenze, andare fino in fondo alle indagini. Lo aveva fatto a Bologna e lo fa anche qui a Roma.
E' un poliziotto figlio di un ex poliziotto cinese (“Silenzioso” Wu) fuggito dal suo paese perché non riusciva a sopportare certe cose del suo regime e che in Italia è riuscito a rifarsi una vita, che ha insegnato al figlio il Ving Tsun, una delle arti marziali cinesi derivate dal Kung Fu.
Una moglie un figlio, rimasti a Bologna, dopo che i rapporti in casa si sono incrinati.
«Chi sono i due morti?»
«Un uomo e una bambina di quattro anni, sua figlia. La moglie ha assistito.»
Un ago gelido mi si conficca nella nuca. Giacomo ha cinque anni.
«Sono cinesi…»

Wang Jiang, chiamato "abile" Wang e la figlia, Wang Fanfang, la "profumata": sono loro il padre e la sua figlia uccisi per strada, proprio a Tor Pignattara, di fronte alla madre, nel corso di una rapina.
Il caso viene assegnato al commissariato e non alla Mobile dal sostituto che segue il caso come gesto di stima nei confronti di Wu, fiducia che però ha come contropartita l'ottenere dei risultati:
«Wu, domani in televisione e sui social parleranno di una povera bambina cinese di quattro anni uccisa a colpi di pistola. La comunità cinese a Roma conta. E tanto».

Man mano, conosciamo la storia del vicequestore, della sua famiglia e dei suoi collaboratori che hanno accettato (più o meno) l'arrivo di un nuovo capo da fuori e per di più “cinese”.
A cominciare dall'ispettore Missiroli, la mente del gruppo che gli fa quasi da padre.
L'autore ci racconta anche la storia del quartiere dove è avvenuto il delitto, la massiccia immigrazione che ha causato la rottura di vecchi equilibri, sempre in bilico, l'arrivo della droga.
Ma nonostante questo, un quartiere tranquillo: ecco, quei due morti, in una rapina con molti punti oscuri, fanno sorgere tante domande.
A cominciare dall'atteggiamento di Saverio Liberati Wang Xinxia, la moglie: “ha appena perso il marito e la figlia, eppure sul suo viso non riesco a leggere niente. È una vittima, è traumatizzata, ma non so cosa pensare”.

E poi tutti gli altri personaggi della comunità cinese del quartiere che arrivano al commissariato per aiutare le indagini, senza però dare alcun contributo. Come se invece volessero solo capire cosa i poliziotti hanno in mano.

Il presidente dell'associazione di imprenditori cinesi, Huong o anche “Vecchio” Zhao presidente di un’associazione culturale, il Cerchio Felice.
Tutti persone legate alla famiglia Wang da vari interessi. Non sempre trasparenti:
Guanxi è una parola semplice che in mandarino rimanda a un concetto molto complesso. Significa “rapporto, relazione, legame”.

La squadra del vicequestore Wu lavora bene: lavorando sulle immagini delle telecamere, arriva ad individuare persino i due rapinatori, due croati, e lo sfasciacarrozze a cui si sono appoggiati. Ma è come se qualcuno anticipasse le loro mosse: uno dei due rapinatori viene trovato morto, sgozzato, nell'auto in fiamme.
Lo sfasciacarrozze viene trovato decapitato.
Missiroli si volta verso di me. Un morto con la testa tagliata può essere un caso, due no. E sappiamo entrambi cosa può significare.

E' come se qualcuno avesse voluto firmare quei delitti: una firma che porta dritta verso la mafia cinese, le Triadi, da anni ormai ben radicate nel nostro paese e in buoni rapporti con le altre mafie italiane.
Le Triadi sono poco interessate ai codici e ai rituali mafiosi, e non mirano a esercitare un controllo del territorio come invece fanno Cosa Nostra, la Camorra e la ’Ndrangheta. Codici, rituali e controllo del territorio sono un mezzo. Perché alle Triadi importa una cosa sola: fare soldi.

Le indagini prendono una direzione precisa: si indaga sull'impresa artigianale dei Wang e sui rapporti con Vecchio Zhao, che Luca Wu ritiene essere il capo, la “Testa del Drago”, il capo della struttura mafiosa nella terminologia delle Triadi cinesi.

A questo punto l'inchiesta si trasforma nel gioco delle scatole cinesi in cui ogni scatola una volta aperta, ne ne nasconde una più piccola: partendo dall'inchiesta sul duplice omicidio si arriva via via a traffici criminali sempre più ampi, sempre più difficili da inquadrare e inchiodare. Delitti che nascondono altri delitti, che portano gli investigatori sempre più vicini ai vertici della cupola del “Drago con la Testa e con la Coda”, un organizzazione criminale di tipo mafioso.

Per la diffidenza e l'omertà della comunità cinese, per la complessità nel decifrare i meccanismi della Triade, per le difficoltà umane che questo caso comporta: a cominciare da quelle di Luca Wu, che dovrà dimostrare le sue capacità a tutti i poliziotti della sua squadra, per essere accettato del tutto.
Perché il protagonista è sì un poliziotto in gamba, ma è anche un uomo che non è stato capace di tenere in piedi il suo matrimonio, per il suo vizio di andare dietro alle donne. Come se avesse dovuto ogni volta dimostrare qualcosa a sé stesso, una conferma, “una definizione di sé stesso”.
.. sono Luca Wu, il cinese nato in Italia da genitori cinesi, che oscilla costantemente tra queste due radici. Troppo cinese per gli italiani, e troppo italiano per i cinesi. Una banana, appunto.

Però, con un lavoro da certosini, mettendo assieme tutti i tasselli (telefonate, intercettazioni, le carte delle società dei Wang e del Vecchio Zhao) e mettendo assieme anche alcuni dei suoi vecchi colleghi di Bologna (come Carmelo, l'ispettore della scientifica con cui era cresciuto), la squadra di Wu, assieme al pm Caruso, riuscirà ad arrivare ad una soluzione del caso.
Un caso che toccherà molto da vicino lo stesso Wu, anche per motivi sentimentali.

“Il cinese” è il primo di una (spero) lunga serie di gialli: seguendo i tweet dell'autore, ho letto che è già pronto un nuovo capitolo del poliziotto cinese a Roma.
Che ha tanto da raccontarci ancora sulle sue inchieste e sulla sua vita personale, con troppi fili da riannodare.
Ho letto pochi libri come questo, così ben documentati sul modo di lavorare della polizia: come affrontare i casi e l'analisi delle prove, i rapporti con gli altri corpi delle forze dell'ordine, Carabinieri e Finanza e con i rivali della Mobile, l'elite della Polizia.
I rapporti che si instaurano tra persone che devono passare delle ore assieme e che, alla fine, diventano come una famiglia (se non si scannano prima..).
E, infine, c'è il racconto molto interessante della cultura cinese, della loro mentalità e della loro cultura che mescola storia e leggende.

A proposito, che fine hanno fatto quelle ragazze cinesi dentro quella stanza, terrorizzate a morte da un demone senza volto?

La presentazione del libro da parte dell'autore:



La scheda del libro sul sito di Rizzoli
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon

Presa diretta: Capitale umano

Nel giorno in cui esce il decreto sicurezza, che passerà al vaglio dell'ufficio giuridico del Quirinale (potrebbe avere profili di incostituzionalità, potrebbe violare dei trattati internazionali..) Presadiretta si occupa di lavoro e di capitale umano.

Ma prima, l'intervista il presidente della Camera Roberto Fico.
Si parla di sicurezza, dell'Egitto di Regeni e dei recenti provvedimenti del governo.

La visita in Egitto era già programmata e ho voluto che ci fosse un punto a piano: la tortura e la morte di Giulio Regeni – racconta Fico.
La procura di Roma ha fatto un bel lavoro, anche senza un protocollo ufficiale: Regeni è sparito dentro una ragnatela, ci sono stati tanti depistaggi sulla fine di Giulio.
Ho chiesto ad Al Sisi l'inizio di un processo vero, guardandolo negli occhi.
Dopo l'incontro Al Sisi ha fatto una dichiarazione per uscire da questa situazione di stallo: i rapporti tra i nostri parlamenti possono riprendere se si risolve questa situazione sul caso Regeni.

La questione sicurezza: Fico ha tenuto un atteggiamento diverso da quello di Salvini e di parte del M5S (e di Di Maio).
C'è un dibattito aperto tra me e Di Maio, dibattere è il sale della democrazia.

Che differenza tra politiche securitarie e percezione della sicurezza?
Ci si deve occupare ai diritti dei cittadini alla cultura, all'acqua pubblica, alle cure: quando si rispettano questi diritti i cittadini sono più sicuri.
Solo col bastone, con la politica sicuritaria, non si ottiene persone più sicure.

Sulle diverse visioni all'interno del movimento.
Il movimento è un contenitore di idee, né di destra né di sinistra nel senso di andare oltre le divisioni. Il dibattito nel movimento deve esserci.

Ci sarà un avvicinamento col PD?
Non è previsto: nei giorni della crisi, prima della formazione del governo, Fico ricorda la distanza del PD dal movimento.

La partita con la Rai.
Fico è stato presidente della commissione di Vigilanza: ai tempi del governo Renzi aveva contestato la riforma della Rai; questa va superata mettendo assieme partiti e governo, per arrivare ad una Rai indipendente.
È nel programma di contratto, se così non sarà sarà un fallimento.
Serve una legge sulla governance della Rai, per liberarla dai partiti e sul conflitto di interesse, che non è un problema solo di Berlusconi.

Il mercato del lavoro italiano e i suoi paradossi.

Le aziende italiane cercano lavoratori e non li trovano: a Rovereto Presadiretta è andata ad intervistare i manager della Bonfiglioli, un'azienda in crescita che in questi anni ha assunto 60 persone.
Ma questa azienda fa fatica a trovare lavoratori dentro il mondo degli istituti tecnici e degli ingegneri: cercano persone con esperienza pregressa.
C'è ne sono tante di aziende che fanno fatica a trovare personale: per questo l'università di Trento ha aperto un laboratorio di meccatronica per avvicinare la domanda e l'offerta.
Questa decisione, all'interno dell'università, è stata vincente: chi si iscrive alla facoltà di meccatronica trova lavoro entro un anno.

In Italia abbiamo pochi laureati: sono laurati solo 18 persone su 100, tra gli ultimi al mondo.
Per questo sono nati gli ITS, gli istituti superiori di tecnica dove gli studenti fanno anche un tirocinio presso delle aziende.
Scuola e formazione per poi approdare ad un contratto di lavoro: le aziende fanno comunque fatica a trovare personale nel settore tecnico, rispetto a Germania a Francia sforniamo pochissimi diplomati.
Il vicepresidente di Confindustria, intervistato dalla giornalista di Presadiretta, ha spiegato come mancano ancora oggi migliaia di persone in settori tecnici: il capitale umano va formato e preparato per il lavoro.
Di questo dobbiamo occuparci se vogliamo vincere la battaglia sulla disoccupazione: formare gli studenti, puntare sulle professioni che hanno valore per le imprese, potenziare i centri per l'impiego.

I centri per l'impiego.
La giornalista Roberta Ferrari di Presa diretta è andata in Molise, nel distretto del tessile e dell'agroalimentare a Campobasso messo in ginocchio dalla crisi.
La regione e i centri per l'impiego non hanno fatto molto per i disoccupati, per le persone in cassa integrazione.
Solo il silenzio dai centri per l'impiego dove, dalla riforma del jobs act, si dovrebbero incontrare domanda e offerta, dove si dovrebbero offrire corsi per le persone in difficoltà.
Invece niente: computer vecchi, banche dati che non si parlano, tra quelle statali e quelle regionali. E chiaramente niente corsi per i disoccupati.
E la situazione di Campobasso è comune ad altre città: anche a Roma, al centro impiego di Cinecittà.
Se le regioni non dialogano succedono storie come quella di Benevento: qui si sono selezionate persone per lavorare in Germania, nel settore medico.
Ma i ragazzi che hanno aderito alla domanda non sapevano il tedesco e non avevano visibilità delle altre domande qui in Italia.
I 552 centri, costano 600 ml di euro l'anno: in Germania ci sono 100mila operatori e si spendono 11 miliardi per i centri.
Il risultato è che in Germania il 20% delle persone trova lavoro in questi centri: i nostri, dopo il fallimento del referendum di Renzi, i centri sono stati abbandonati alle regioni.
Si chiama Anpal la struttura centralizzata che doveva supervisionare i centri, hanno solo parte delle offerte e nemmeno hanno potere sanzionatorio.

Ma ci sono anche storie diverse: a Foggia al Salone del lavoro organizzato dall'università, sono riusciti a far incontrare domanda e offerta.
Alla fine della giornata, 6000 ragazzi hanno fatto un colloquio e 200 ragazzi hanno firmato un contratto.

Cosa farà il governo Conte?
Cosa bolle in pentola in Parlamento?
Come spendiamo i soldi dei fondi europei? In studio Iacona è stato affiancato dal giornalista Sergio Rizzo.

Marcello Bracciaroli è andato a vedere dove finiscono i fondi europei per la formazione: sono 7 miliardi nel periodo 2014-2020 per il “capitale umano”.
Capire come sono spesi è difficile? È un caos capirlo, perché sono fondi in mano alle regioni e ciascuna fa di testa sua.
Nel Lazio c'è il bando per chi vuole andare all'estero, c'è il contratto di ricollocazione per gli over 40, il contratto generazioni.
Bisogna prima iscriversi al centro per l'impiego e scegliere un ente di formazione che si prenderà 800 euro per persona: sono enti che fanno sì formazione ma non si occupano di contattare le aziende.
Anzi, nemmeno formazione: solo qualche lezione per fare il cv, per come presentarlo.
La regione Lazio spende per i centri di formazione per 500ml di euro: di questi, 48ml servono per finanziare enti privati accreditati per fare formazione.
Enti che dovrebbero ricevere soldi solo se riescono a dare un lavoro alle persone, ma non è così: gli 800 euro, dice la responsabile delle politiche per il lavoro, sono un loro rimborso spese.

Livorno è una città che è stata colpita dalla crisi, qui si sono persi migliaia di posti di lavoro: per rilanciare il porto e creare occupazione si sono investiti 500ml.
La regione Toscana ha finanziato dei corsi specifici per posizioni di lavoro legate all'industria livornese: sono corsi veri ma i posti sono limitati.
Anche qui ci sono poi i corsi d formazione erogati da enti accreditati: molti di questi però sono legati alla ristorazione, alla cura della persona ..

Le aziende hanno bisogno di competenze tecniche ma ci sono troppi corsi per il turismo, per fare i barman, come mai?
Come mai la regione non controlla i corsi erogati, specie quelli privati?
Tecnici informatici, metalmeccanici .. non c'è bisogno di badanti,barman, estetista, operatore assistenziale o guida turistica.

Come si difendono gli enti? Si difendono dando la colpa alle persone che arrivano da loro, che si scelgono i corsi che ritengono migliori, che daranno loro le migliori prospettive.
La moda del cuoco e dello chef stellato..
Colpa della regione Toscana, dicono.
E la regione Toscana dice che loro i dati, sugli indirizzi, li ha pubblicati.

La regione ha speso in voucher 7ml di euro, una buona parte dei fondi, per i corsi di formazione: il governatore Rossi si è auspicato la creazione di una unità centralizzata sui centri per l'impiego e la formazione, cosa che doveva avvenire con la riforma costituzionale.
La regione controlla i centri privati: dei 500 enti, almeno 60 sono stati sanzionati e alcuni di questi si sono visti togliere i fondi.

La vicenda Almaviva: nel 2016 il colosso dei call center manda a casa 1600 dipendenti a Roma; il governo vara il piano Almaviva per re inserire almeno l'80% dei lavoratori.
Dopo due anni il piano è fallito: molti degli ex dipendenti non hanno trovato lavoro e ora sono disposti ad accettare qualsiasi lavoro.
Altro che formazione: molti di loro hanno anche una certa età e sono penalizzati rispetto a persone più giovani.
I corsi di formazione si sono rivelati mini corsi da 30 40 ore, molti enti accreditati si sono ritirati e non hanno rilasciato nessun attestato.
Tra l'altro, visto che gli ex Almaviva sono entrati dentro il progetto Anpal, non hanno potuto accedere ai corsi regionali.

Su 1200 figure, questo sistema ha ricollocato meno del 10%.

L'ente di formazione Ciapi di Palermo ha speso migliaia di euro per formare pochi apprendisti: i soldi presi dai fondi europei sono finiti in giri politici.
È una storia che è stata raccontata da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella nel loro libro “Se crolla il sud”: il sistema dei centri per l'impiego alimenta solo sé stesso, non serve affatto per trovare lavoro.
E' un sistema concepito male: pochi controlli, fondi sbriciolati in mille rivoli che alimentano clientele, regioni che non sanno gestire i fondi.
O come la Calabria, spesi per finanziare la nazionale di calcio.
Troppi centri per l'impiego che non sono confrontabili, regione per regione: capire se i soldi dei fondi strutturali europei sono spesi bene o male è impossibile.

Servirebbe una centralizzazione nella gestione di questi fondi: di questo è convinto Rizzo.
Una struttura che sappia sanzionare le regioni e gli enti inadempienti: era stata pensata dai governi Monti e Letta ma poi non se ne è fatto niente.
Dei 7 miliardi di fondi, ne abbiamo impegnati solo 1,1.

Le riforme pensate del governo.Il 7 agosto il decreto dignità voluto dal ministro Di Maio è legge: ci sono vincoli sui contratti a termine, una estensione sui voucher, sanzioni per le aziende che delocalizzano.
L'obiettivo è aumentare i contratti a tempo indeterminato: l'inps però ha stimato una perdita dei posti di lavoro; contro il decreto anche pd, fi e fdi.
IL jobs act non è stato smantellato – ha spiegato la deputata Serracchiani: la riforma ha confermato pezzi della riforma di Renzi.

Contrari, per motivi diversi, anche CGIL e Confindustria: la prima perché non c'è il ritorno dell'articolo 18, la seconda per l'irrigidimento delle norme del lavoro.
Marco Bentivogli, segretario FIM Cisl parla di una grande operazione di marketing, che farà perdere posti di lavoro: si deve investire nella formazione sulle persone e un incentivo alla stabilità.

Il decreto dignità non tocca né i centri per l'impiego, né il reddito di cittadinanza, né l'articolo 18 e nemmeno la formazione: alcuni di questi saranno affrontati nei prossimi mesi, ma l'articolo 18 no, non è nel contratto di governo.

Dal servizio che abbiamo visto si capisce una cosa: serviranno tempi lunghi e molte risorse per sistemare le cose nei centri per l'impiego.
E poi c'è l'effetto collaterale della riduzione della durata dei contratti a tempo da 36 a 24 mesi: nelle aziende dove il capitale umano vale meno, si tenderà ad una maggiore rotazione del personale.

L'uscita dall'euro.
Di uscita dall'euro non si parla nel contratto di governo, che all'interno ha delle promesse molto esose per le nostre casse: a meno che non si riescano a pescare i soldi da qualche parte, c'è il rischio che si arrivi alla svolta indicata nell'ultimo libro di Rizzo per Feltrinelli, un romanzo di fantapolitica che immagina una nostra uscita dall'euro in due anni.
Il default dello Stato, le aziende che chiudono, il fallimento dell'export (per i dazi messi dalle nazioni straniere): uno scenario che Rizzo ha studiato andando ad ascoltare diversi economisti che hanno studiati questi scenari.

Il mondo dei centri per l'impiego in Olanda
In Olanda si può perdere il lavoro a 50 anni e ritrovarsi a lavorare in un settore completamente diverso: in questo paese i centri sono solo 35, sono tutti collegati e seguono le persone in cerca di lavoro giorno per giorno.
Sulla piattaforma web si tengono corsi online veri per far incontrare domanda ed offerta: le agenzie vanno a cercare persone anche all'estero, purché qualificati.
Lo Stato ha puntato sulla flexsecurity: ti aiuta a trovare lavoro supportandoti nella formazione e con sussidi di disoccupazione pari all'ultimo salario.
E non c'è solo il sussidio, ma anche il reddito minimo garantito che arriva a 900 euro: se non arrivi a questa cifra, il resto lo mette lo Stato.
500mila persone prendono i sussidi in Olanda: sono erogati fino a 65 anni, poi c'è la pensione sociale e sono gestiti dai comuni.
Coi sussidi le persone poi non lavorano?
Gli enti pubblici lavorano affinché le persone non debbano dipendere da sussidi: “noi crediamo nelle persone” dicono.
L'Olanda aiuta molto le persone in difficoltà e anche gli stranieri: chiunque arrivi ha un codice, il BSN, con cui accedere ai servizi.

Il paese crede nelle persone, per rimettere in circolo l'energia, per far ripartire le aziende e l'economia.

In attesa che sia il governo a prendere a copia il modello olandese, alcune aziende private, le più illuminate, hanno deciso di puntare sul capitale umano per la loro crescita: hanno creato un sistema di welfare aziendale che mette al centro la persona.

Succede alla Gefran (società che si occupa di automazione e sensori), dove i corsi di formazione li paga l'azienda stessa e sono svolti durante l'orario di lavoro: come il corso per “public speaking” a cui Iacona ha potuto assistere.
Se le persone stanno meglio, lavorano meglio – racconta un dirigente dell'azienda: quello che cercano qui non è solo l'esperienza ma l'approccio al lavoro, improntato alla voglia di imparare.
Perché il lavoro che fai oggi non è detto che ci sia domani.
La fabbrica nata negli anni 60 sul lago d'Iseo è oggi una multinazionale che realizza sensori che misurano temperatura e pressione, che vengono venduti anche nei mercati emergenti.

Gefran è un'azienda che, per essere vincente e competitiva nel mercato internazionale ha deciso di investire nelle persone, nella loro formazione, nel loro benessere, le aiutano a crescere e a sviluppare il loro talento.

Qui essere donne e madri non è un handicap, non preclude le promozioni: “l'azienda sono le persone” racconta la responsabile del personale, Patrizia Belotti.
E la presidente Maria Chiara Franceschetti aggiunge “le persone hanno imparato ad imparare e questo ha fatto sì che oggi è il nostro capitale umano ..”.