31 dicembre 2020

Ma perché siamo ancora fascisti (un conto ancora aperto) di Francesco Filippi

 


Perché in Italia è ancora difficile considerare l'antifascismo come base di questa democrazia?

Perché in Italia non è considerato tabù (anzi) essere fascisti?

Perché è ancora importante porsi queste domande sul fascismo, oggi, a più di settant'anni dalla fine del regime fascista e dalla promulgazione della Costituzione?

Francesco Filippi di lavoro fa lo storico, formatore presso l'associazione di Promozione Sociale Deina, già autore del saggio “Mussolini ha fatto anche cose buone”, prova a rispondere alle prime domande: la risposta all'ultima cerco di darla io ora.

Il fascismo è l'antitesi della democrazia, dei suoi principi, delle libertà garantite dalla nostra Costituzione: non è un'opinione come le altre. E' la negazione di tutto ciò che è stato conquistato durante la guerra di liberazione, di quanto scritto dai nostri padri costituenti nella carta costituzionale: libertà di espressione, di associazione, di riunirsi in sindacati. Una stampa libera non sotto il controllo dell'esecutivo, una magistratura libera e indipendente (che non risponde ai desiderata del potente di turno).

Se ancora oggi siamo ancora a chiederci come sia possibile che in Italia il fascismo sia ancora apprezzato da una parte o comunque non temuto da una buona maggioranza di cittadini (gli indifferenti di Gramsci), significa che la nostra democrazia non gode di buona salute. Teniamolo a mente.

Ma come siamo arrivati a questo? L'autore parte dal confronto tra quanto è successo in Germania e in Italia con due film, che seguivano un copione simile. Il film tedesco è “Lui è tornato” di David Wnendt, basato sul libro “Er ist wieder da” di Timur Vermes: Hitler torna in Germania dopo più di sessant'anni e capisce che tutto è cambiato ma lo stesso comincia a fare proselitismo coi suoi discorsi.

Scritto in chiave umoristica, il libro e anche la sceneggiatura, entrambi hanno suscitato un ampio dibattuto in Germania: si può ridere di Hitler? Cosa succederebbe nel nostro paese se arrivasse un politico che si mette a parlare come Hitler?

In Italia il film di Luca Miniero, “Sono tornato” non ha suscitato lo stesso dibattito e nemmeno ha sfondato al botteghino. Partiamo da qui, da questa differenza tra i due paesi da cui sono nati i due totalitarismi che hanno caratterizzato (oltre alla dittatura sovietica) il novecento.

Ci sono differenze storiche, spiega Filippi, tra come la Germania e l'Italia hanno vissuto gli ultimi anni dei rispettivi regimi. Ci sono state differenti visioni storiche, su cosa sia stato il nazismo e cosa invece sia stato il fascismo in Italia: mentre in Germania nessun politico si sognerebbe di riusare espressioni della propaganda nazista, di gesticolare in pubblico come Hitler, in Italia tanti politici ormai pescano a piene mani in quel frasario, Dio patria e famiglia, la difesa dei confini (e degli italiani, della razza italiana).

Fascismo 1922-1943: una dittatura orfana

Pare proprio che la prima domanda da porsi sia: se nazismo e fascismo hanno convissuto fraternamente per una parte consistente della loro storia, se Hitler stesso dichiara in più occasioni che Mussolini e la sua attività sono stati una preziosa fonte di ispirazione per il nazionalsocialismo, se le due dittature condividono fin da subito ideali, avventure internazionali e i disastri di una guerra mondiale, per quale motivo in molti, specie in Italia, hanno oggi una diversa percezione delle vicende dei due regimi e del giudizio storico del loro operato?

Una prima differenza riguarda come è finito il nazismo e come invece il fascismo: il primo con le macerie di Berlino e un paese distrutto, un paese occupato dalle potenze vincitrici dove, a fine guerra che misero in atto un'opera di denazificazione, con metodi da polizia militare (mettiamo da parte il fatto che parte delle ex SS furono poi riciclate nei servizi di sicurezza in funzione anticomunista per la guerra fredda).

In Italia invece il regime crolla col 25 luglio, con la fine del governo Mussolini e poi con la vergogna (di Badoglio, dei Savoia) dell'8 settembre.

Dal 1943 al 1945 in Italia avviene una guerra che si combatte sia tra eserciti, sia sul fronte interno con la formazione dei primi gruppi partigiani.

Il regime che fino a pochi giorni prima si radunava nelle folle oceaniche, dopo il 25 luglio festeggia la caduta di Mussolini (quello che aveva sempre ragione): l'autore spiega bene come tutto questa abbia inciso nella memoria collettiva, in cui è partita subito un'opera di rimozione.

La guerra? Era una guerra fascista di Mussolini. Il fascismo? Solo una parentesi nella storia liberale e democratica del nostro paese, è questa la tesi di uno storico e filosofo importante come Benedetto Croce. Peccato che l'Italia prima di Mussolini non era una democrazia liberale (non esisteva il suffragio universale): questa tesi di fatto cancella un intero ventennio della nostra storia, cancellando le responsabilità di quanti hanno portato Mussolini e il fascismo al potere, da casa Savoia alla piccola borghesia (quella dell'ordine regna sovrano) fino a quella industriale (degli Agnelli, dei Pirelli), che dal regime ebbe molti favori.

Gramsci e Gobetti, due pensatori che purtroppo non videro la fine del regime, hanno visto nell'avvento del fascismo anche “l'arretratezza in Italia di un dibattito sociale”, una rivoluzione conservatrice che schiacciò le classi deboli: altro che malattia dentro un corpo sano, il corpo del paese era già malato anche da prima della grande guerra.

A tutto questo va aggiunto quello che in Italia non è stato fatto: nessuna epurazione seria dentro la pubblica amministrazione, per non bloccare i ministeri, gli uffici, la macchina dello Stato. Nessuna seria epurazione dentro la scuola e dentro l'università (di tutto il corpo docente, solo 11 professori universitari non giurarono al fascismo).

Sindaci, prefetti, Questori, dirigenti dentro le forze dell'ordine: anche molti di loro si salvarono dal repulisti che pure si sarebbe dovuto fare. Molti prefetti fascisti furono sostituiti da “prefetti della liberazione” nominati dal CLN: ma a fine guerra a loro volta furono sostituiti da personale prefettizio (dunque che si era formato e aveva lavorato sotto il regime) col paradosso che essere antifascisti era una pregiudiziale per guidare una prefettura, essere stati fascisti no.

Ma cosa significa essere stati fascisti in Italia? La domanda non è di facile risposta: il regime fascista aveva occupato tutti gli spazi pubblici, controllava con la politica del corporativismo le aziende private. I magistrati dovevano avere la tessera del partito, i docenti dovevano giurare per il partito, i giornalisti dovevano scrivere solo quello che volevano le “veline”.

Chi avrebbe potuto fare pulizia, da dentro lo Stato, senza bloccare il paese? Chi avrebbe dovuto raccontare le malefatte del regime, gli insegnanti che si erano formati nel ventennio?

Non c'è stato solo un problema di continuità: alla fine della guerra ne scoppiò subito un nuova, la guerra fredda. L'alleato di ieri diventava il nemico di oggi, il pericolo in Italia era il comunismo, l'influenza sovietica nel nostro paese, che doveva rimanere saldamente sotto controllo occidentale.

La pregiudiziale era ora chi era iscritto al PCI, il problema era ora Trieste che poteva finire nelle mani dei “titini”, i martiri delle foibe, gli esuli italiani.

Una narrazione che, di fatto, cancellava gli anni di occupazione italiana in Slovenia, i crimini di guerra compiuti nei Balcani da parte dei nostri militari (“Si uccide troppo poco” di Gianni Oliva), i nostri campi di concentramento.

Anche la classe politica che avrebbe dovuto fare le leggi, controllare questa epurazione, era fortemente condizionata dal ventennio fascista: parte dei dirigenti della DC venivano da quel periodo, Fanfani stesso, uno dei “cavalli di razza” fu un cattedratico importante nel fascismo (uno di quelli che giurarono fedeltà al regime) e anche uno dei firmatati del manifesto della razza del 1938.

Dentro la DC si trovava sia un elettorato cattolico, sia persone che avevano preso parte o quanto meno tifato per la liberazione, che persone che erano state accondiscendenti col regime, che lo avevano accettato con indifferenza. A tutto questo contribuì pure la prima amnistia di Togliatti, nel 1946, uno degli ultimi atti del PCI prima di essere cacciato dal governo, e le successive amnistie.

I governi DC emanarono una legge, la legge Scelba che puniva chiunque cercasse di ricreare il partito fascista, che puniva l'apologia di fascismo. Una legge buona sulla carta ma di difficile applicazione, anche da parte dei tribunali.

Col risultato che, dal 1946, nonostante la legge Scelba e la norma transitoria in Costituzione, in Italia abbiamo un partito composto da ex fascisti, che si richiama a simboli fascisti. Il Movimento Sociale fondato da due repubblichini come Romualdi e Almirante.

Cosa è mancato in Italia? Nella terza parte del libro l'autore si dedica a quella cultura comune che è mancata per comprendere il fascismo.

Qui si torna alla narrazione fatta da Croce (che pure fu uno dei sostenitori del primo fascismo, fino al delitto Matteotti), al “paradigma antifascista” che in pratica autoassolve la coscienza degli italiani.

“Italiani brava gente”, come il titolo di un film del 1965 sulla ritirata in Russia: la dittatura e il ventennio di regime sono stati una parentesi brutta, gli italiani si sono liberati dal regime.

Tutto cancellato anche l'appoggio della borghesia, della classe industriale, del Vaticano.

Tutto cancellato: il ventennio, i confinati, le persone arrestate e condannate dai tribunali speciali, le persone uccise e picchiate (Matteotti, Gobetti), l'insensata guerra in Africa, l'uso delle armi chimiche, i massacri in Etiopia e quelli in Grecia e nella ex Jugoslavia, le leggi razziali.

Fateci caso: esiste una grande storiografia dell'Italia tra il 1943 e il 1945, mentre c'è molta poca conoscenza nel paese di quanto accaduto tra il 1919 e il 1943.

Gli italiani erano altri: altri quelli che gridavano viva il Duce, che accettavano soprusi, le ruberie del partito, le manganellate, l'olio di ricino.

I pochi italiani che hanno letto qualche libro, forse hanno letto le pagine di De Felice (e la sua rivoluzione di Mussolini) e non di Angelo Del Boca.

Nelle scuole a malapena si studia la prima guerra mondiale. La RAI è sempre stata controllata dai partiti, sin dai tempi della DC con le sue censure.

E il cinema?

Anche nel mondo del cinema è passata la visione dell'italiano che ha subito passivamente il regime e che, con orgoglio e coraggio si è liberato dal nazifascismo.

Nei film del neorealismo italiani i nazisti sono i cattivi, i fascisti sono traditori: è l'idea che esce da pur ottimi film come Roma città aperta (Rossellini) o Il generale Della Rovere.

A tutto questo dobbiamo aggiungere che, con la fine della prima repubblica, l'argine antifascista è crollato, l'ex MSI cambiando nome (ma non le facce) è entrato nel governo ed è iniziato un discorso pericoloso di equiparazione tra chi ha combattuto da una parte e dall'altra.

Vietato parlare di resistenza e di guerra di liberazione perché divisiva, meglio dare un tributo anche a quei ragazzi che nel 1943 scelsero, consapevolmente o meno, di stare dalla parte sbagliata della storia.

Dalla pregiudiziale antifascisti si è arrivati, grazie anche a libri come quelli di Pansa (“Il sangue dei vinti”) o “Il libro nero sul comunismo”, alla pregiudiziale comunista:

Con operazioni simili il giudizio sui fatti storici viene fatto passare solo attraverso il computo delle vittime, aspetto primario ma non unico nella complessità dell'indagine storiografica, e si insinua l'idea che il "male assoluto" rappresentato dal nazismo sia paragonabile e in qualche modo riducibile di fronte alla brutalità Sovietica.

Nel confronto tra le due forme estreme di totalitarismo, il fascismo italiano quasi scompare: anche perché oggettivamente il numero di vittime prodotte dal fascismo è minore rispetto a quello del nazismo e stalinismo, se non altro perché la popolazione italiana negli anni trenta è meno della metà di quella del terzo Reich e meno di un quarto di quella dell'URSS.

In più andando escludere dalla memoria e dalla responsabilità pubblica, come è stato fatto per oltre 50 anni, le violenze e crimini italiani commessi fuori dai confini -colonie campagne militari-, si ha una situazione imparagonabilmente favorevole per il fascismo italiano così dipinto.

Perché siamo ancora fascisti o, meglio, perché non siamo tutti antifascisti? La conclusione dell'autore è un'accusa contro noi italiani, quella parte che non ha fatto o voluto fare i conti con la coscienza, per cattiva fede o indifferenza:

La risposta alla provocatoria domanda "ma perché siamo ancora fascisti?" passa proprio attraverso lo sviluppo di un racconto pubblico che è stato prima autoassolutorio e poi relativizzante: italiani mai convintamente fascisti prima; italiani che hanno combattuto per degli ideali, siano essi fascisti o antifascisti, poi.

Il tutto proiettato in un passato che allontanandosi sempre più, appiattisce e uniforma ogni cosa.

Perché quindi oggi siamo ancora fascisti o, meglio perché, non siamo convintamente antifascisti?

Perché in questi anni, nel tentativo di mantenere pulita la memoria del paese, non abbiamo affrontato con determinazioni crimini che il fascismo ha commesso anzi anche grazie alla connivenza degli italiani e quindi, per molti, dato che non si conoscono i delitti del fascismo, pare quasi che il fascismo dei delitti non ne abbia commessi.

Perché in questi anni non siamo riusciti ad affrontare con decisione e chiarezza i demoni di un passato che abbiamo troppo velocemente coperto ma non cancellato, togliendoci la possibilità di accumulare le conoscenze e le attenzioni necessarie a impedire che i fenomeni di erosione Democratica che aprono l'asta dei regimi autoritari vengano subito riconosciuti neutralizzati.

Perché infine una parte minima della società italiana non ha mai voluto essere altro, perché un'altra parte non ha mai imparato a essere altro e infine perché una parte della nostra società, probabilmente la più consistente, non si è mai nemmeno posta seriamente la domanda rimanendo indifferente.

La scheda del libro sul sito di Bollati Boringhieri

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30 dicembre 2020

Perché siamo ancora fascisti - la narrazione falsa dei totalitarismi

Italia 2020, a 75 anni dalla fine del regime fascista, a 72 anni dall'emanazione della carta costituzionale che sancisce come questa Repubblica democratica si fondi sull'antifascismo.

Ancora oggi ci si chiede come mai l'antifascismo non sia una valore riconosciuto da tutti quanti in questo paese.

Anzi, a quanti ogni volta tirino fuori il tema dell'antifascismo si sente rispondere con "e allora le foibe?", "e allora Stalin?".

Come siamo arrivati a questo?



Il saggio di Francesco Filippi (già autore di "Mussolini ha fatto anche cose buone", dove si smontano i miti della propaganda fascista che ancora vive e lotta assieme a noi) prova spiegarlo:

La visione storica del comunismo viene anche in Italia ridefinita non solo dall'evidenza del crollo dei regimi dell'est Europa, ma anche da un fiorire di saggistica e letteratura che analizza e ridefinisce, per lo più negativamente, il comunismo nel suo complesso: testi come "Il libro nero del comunismo", in cui come premessa ad una critica dei regimi liberticidi si presentano in successione raccolte quantitative di crimini ed efferatezze. 

Con operazioni simili il giudizio sui fatti storici viene fatto passare solo attraverso il computo delle vittime, aspetto primario ma non unico nella complessità dell'indagine storiografica, e si insinua l'idea che il "male assoluto" rappresentato dal nazismo sia paragonabile e in qualche modo riducibile di fronte alla brutalità Sovietica. 

Nel confronto tra le due forme estreme di totalitarismo, il fascismo italiano quasi scompare: anche perché oggettivamente il numero di vittime prodotte dal fascismo è minore rispetto a quello del nazismo e stalinismo, se non altro perché la popolazione italiana negli anni trenta è meno della metà di quella del terzo Reich e meno di un quarto di quella dell'URSS. 

In più andando escludere dalla memoria e dalla responsabilità pubblica, come è stato fatto per oltre 50 anni, le violenze e crimini italiani commessi fuori dai confini -colonie campagne militari-, si ha una situazione imparagonabilmente favorevole per il fascismo italiano così dipinto. 

Gli antifascisti uccisi prima e durante la presa del potere di Mussolini, le migliaia di italiani sottoposti alla violenza del regime in patria o in esilio, i tanti assassinati prima e dopo il 1943, di fronte alle cifre milionarie delle purghe staliniane, della rivoluzione culturale cinese e dei lager nazisti appaiono di fatto meno rilevanti. Non a caso, all'interno del dibattito politico, alcuni politici possono strumentalmente minimizzare le violenze fasciste. 

Anzi si rafforza l'idea sempre sottese nella società italiana, che in fondo il fascismo non sia stato molto più che un regime autoritario.

Ma perché siamo ancora fascisti di Francesco Filippi (Bollati Boringhieri)

29 dicembre 2020

La provocazione

Ho ascoltato questa mattina l'intervista di Daniela Preziosi, giornalista di Domani, a Radio popolare: ha raccontato il piano su come spendere i soldi nel Next generation UE presentato ieri da Renzi.

La provocazione di Renzi, ennesimo episodio della guerra del suo partito all'interno della maggioranza per cercare nuovi spazi, prendersi la sua visibilità: alla fine di questa guerra non sappiamo se si arriverà ad un rimpasto o ad altro.

Di certo, in questo momento per il paese avremmo bisogno di tante cose meno che di queste provocazioni (dove il titolo Ciao è solo la ciliegina) e questo la dice lunga sulla responsabilità del personaggio.

E pensare che Renzi e Italia Viva avrebbe anche le loro ragioni: l'idea iniziale di Conte di inserire la cabina di regia dentro un emendamento alla finanziaria è un affronto al Parlamento.

Che non può essere svilito come sta succedendo ora con la manovra finanziaria, da approvare senza troppe discussioni come impone il governo  (vero che non è la prima volta).

Ma da un partito della maggioranza ci si auspica un confronto nelle famose sedi opportune: tirar fuori oggi il ponte sullo stretto, il taglio del reddito di cittadinanza per dare i soldi alle imprese (chissà se Confindustria vorrà appoggiare un partito dato al 2-3%?), di soldi a pioggia ai sindaci è una provocazione.

Abbiamo bisogno di un piano per il dissesto idrogeologico? Certo, ma non per essere affidato agli amici. E il dissesto si cura con meno cemento, con la cura di fiumi, colline, con la riqualificazione dei paesini sui monti (che se fossero raggiunti dalla fibra potrebbero essere attrattivi per lo smart working).

Abbiamo bisogno di una sanità che funzioni, meno clientelare, dove i dirigenti sono nominati per le capacità e non per la tessera di partito.

E abbiamo bisogno di rivedere anche il mondo del lavoro, pensando a dare più diritti e salari più dignitosi per tutti, non ad un nuovo jobs act, coi soldi per i nuovi contratti.

Il nuovo anno porterà anche la fine del blocco dei licenziamenti: che facciamo, diamo soldi a pioggia senza controlli, senza una visione industriale chiara? 

27 dicembre 2020

Un cuore sleale: Un caso per Manrico Spinori di Giancarlo De Cataldo


 

Verso occidente erra lo sguardo;

verso oriente scivola il naviglio.

Ma questo mare d’inverno, pensava Manrico Spinori della Rocca, sostituto procuratore della Repubblica in Roma, che c’entra con Wagner? Non ha niente del procelloso approdo che turba Isotta. Né, se per questo, si profila all'orizzonte un qualche valoroso Tristano in ambasce. Questa è Ostia. Non ondeggia alla fonda un veliero wagneriano, ma il Chiwi. Un imponente motor yacht Mari Nardi [..] Un'autentica bestia del mare, proprietà di Proietti Ademaro, imprenditore.

Non poteva che cominciare con una citazione wagneriana, dal mondo dell'opera, per la seconda indagine del sostituto procuratore Manrico Spinori.

Detto il “contino”, non per scherno, ma perché di origini aristocratiche, figlio di un vero conte, quel padre perso giovane e per cui non riuscì, all'epoca, a versare una lacrima.

Origini nobili e una grande passione per l'opera tanto forte da fargli pensare che ogni dramma, ogni delitto, sia già stato raccontato:

Sinora aveva quasi sempre vinto affidandosi al proprio credo: non esiste situazione umana, compreso l’omicidio, che non sia già stata contemplata da un’opera lirica.

Quale opera allora potrebbe celarsi dietro la scomparsa di Ademaro Proietti, settantaquattrenne imprenditore edile romano, uno di quelli che avevano costruito Roma, un palazzinaro per usare un'espressione poco educata sul genere?

Dopo una notte in barca, assieme ai suoi tre figli (una sorta di rito, ogni anno, ogni 9 dicembre), era scomparso dal suo yacht. Caduto in mare, probabilmente.

La sera prima i tre figli, i due gemelli Vittorio e Umberto e Renzo, assieme al genero Brian (marito della figlia, esclusa da quel rito di soli maschi) avevano fatto tardi giocando a poker e bevendo anche qualche bicchiere. La mattina dopo del padre nessuna traccia.

Tra l'altro, essendo il fatto avvenuto tra Ponza e Ostia, non è chiaro chi sia competente del caso, se Roma o Velletri: ma anche in assenza di un cadavere, Manrico e la sua squadra di sole donne, prepara un modello 45, un'indagine su un reato che forse non c'è. Perché potrebbe essere stata una disgrazia. Il vecchio costruttore aveva bevuto, era stanco ..

E' un caso spinoso: il procuratore capo Melchiorre lo affida a Manrico, ricordandogli le pressioni, le telefonate ricevute da ministri e finanzieri, lo scomparso era o è “uno dei ras dell’edilizia, e tu sai che Roma è una città che vive di edilizia…”

Un caso spinoso perché l'avvocato di famiglia è la famosa avvocata Schroeder, “Astro nascente del foro romano. Era cresciuta nello studio del professor Bullà, del quale era stata figlioccia e pupilla”.

Un'avvocata capace di far valere i suoi rapporti con la stampa, per condizionare l'opinione pubblica e gettare un po' di fango sul pm di turno se non gradito.

Da modello 45, si passa ad una vera e propria indagine su una morte, forse accidentale o forse no: il cadavere di Ademaro Proietti viene rinvenuto proprio sul porto di Ostia: da una prima analisi del medico legale, viene fuori un'interessante traccia. Una ferito sulla nuca, il morto avrebbe ricevuto un colpo in testa, prima di finire in mare.

Abbastanza per parlare di omicidio?

La famiglia fa muro in difesa del buon nome dei Proietti: a Manrico raccontano tutti la stessa versione, la partita a poker, il whisky, nessuno screzio, nessun alterco.

Stessa versione dal capitano della barca e dall'unico marinaio, che faceva anche da aiutante della famiglia a terra.

Forse proprio per questo, Manrico decide di andare avanti col caso, nonostante le pressioni per archiviare il caso come disgrazia.

Quella dei Proietti era una famiglia particolare: c'era il vecchio Ademaro, il re incontrastato, che ancora prendeva le sue decisioni. Anche in contrasto coi due primi figli gemelli, Umberto e Tommaso, che davano l'impressione di vivere in simbiosi l'uno dell'altro.

Poi Sofia, la moglie di Brian Montemurro, che nella ditta di famiglia si occupava delle vendite; infine Bruno, l'ultimo figlio, caratterialmente diverso dagli altri.

Particolare anche l'origine delle fortune, nate grazie a degli affari sporchi del padre di Ademaro con le SS durante l'occupazione.

Ademaro era finito in tante inchieste, cosa naturale per il suo lavoro, ma tutto si era sempre concluso con archiviazioni. Col beneplacito di una stampa sempre amica.

Laziale sfegatato, Ademaro possedeva un orologio da 2 milioni di euro, un Grand Complication comprato per lo scudetto della Lazio nel 1999 e che portava sempre al polso. E ora scomparso, assieme al suo cellulare. Uno di quei personaggi all'italiana, delle simpatiche canaglie che non riuscivi ad odiare del tutto, che Gassmann o Sordi avrebbero ben ritratto, in un film di Risi o di Monicelli.

Se la sua famiglia fosse stata una costellazione - diceva il vecchio Ademaro, lui sarebbe stato il sole.

Gli interrogatori di Manrico e della sua squadra, la poliziotta da strada Cianchetti, la maga del computer Orru e la meticolosa Vitale, però portano a ben poco.

Non solo, l'ostinazione nel portare avanti l'indagine, rinforza le tensioni tra la procura e la famiglia del morto.

Sull'indagine calano le pressioni da parte della famiglia, gli articoli di accusa usciti su alcuni giornali garantisti e, come colpo finale, la richiesta del procuratore capo Melchiorre, di passare l'inchiesta a Velletri. Dove il procuratore non vede l'ora di archiviare.

Melchiorre, la volpa grigia, è un magistrato che ha fatto carriera mettendo da parte quel rigore etico, quel rispetto della giustizia, diversamente da Manrico Spinori che ora, offeso da questa imposizione, decide anche di lasciare la procura di Roma.

Ma. Come spesso accade in molte indagini, anche nei libri gialli, l'indagine verrà riaperta quasi per un caso, un caso sinistro, la morte di uno dei protagonisti di quella sera sullo yacht.

L'indagine, la matassa, lo gnommero, troveranno la giusta spiegazione e, cosa ancor più importante, Manrico troverà l'opera giusta per raccontare questo dramma:

Era una storia di maschere e di intrighi, di tradimento, di slealtà. L’aveva ascoltata per intero la notte prima.. Un ballo in maschera. [..] Perché quest’opera? Era la storia di un regicidio mescolato a una passione torbida e segreta.

Questa seconda indagine con protagonista il pm Spinori mi ha convinto molto più della precedente (Io sono il castigo): il protagonista rimane sempre lui, il procuratore amante dell'opera, con una madre nobile ma che si è giocata i beni di famiglia per la sua ludopatia e che deve dunque tenere controllata.

Un uomo capace di essere elegante in modo naturale, un Mastroianni dei nostri tempi verrebbe da dire, colto e a volte un po' pesante. Ma attorno a lui anche gli altri personaggi trovano spazio, cominciando dall'ispettora Cianchetti, un metro e ottanta di muscoli e tatuaggi, politicamente scorretta ma dotata di intuizioni utili.

Altre donne troveranno spazio accanto al procuratore, oltre alla madre e a quelle della sua squadra: un medico legale all'apparenza timida che viaggia su una moto di grossa cilindrata. E poi Maria Giulia, la bella donna conosciuta proprio all'opera, con cui non riesce ancora ad aprirsi.

Un cuore sleale è un giallo che, partendo dallo schema del delitto in una stanza chiusa (lo yacht ormeggiato al largo), si trasforma in una sottile indagine psicologica sui membri di una famiglia, abile nel celare i rancori che covavano all'interno.

La scheda del libro sul sito di Einaudi, un approfondimento con alcune recensioni e il pdf del primo capitolo.

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26 dicembre 2020

L'altra Milano



L'ha detto e lo ha fatto, il segretario della Lega, il partito che 364 giorni all'anno se la prende con i senza tetto, il giorno di Natale è andato coi city angels a distribuire aiuti ai senza tetto di Milano.

A Natale anche uno come Salvini è più buono: anziché starsene con le sue famiglie, ha dedicato qualche ora per mettersi a favore di telecamere in mezzo ai clochard, mica come quei radical chic della sinistra che se ne sono rimasti a casa col culo al caldo.

Ora ci aspettiamo che, per non passare da ipocrita, si dedichi all'assistenza anche altri giorni all'anno, senza telecamere e fotografi di mezzo.

Ma anche un altro esponente politico ieri era in mezzo ai volontari dell'associazione Pane Quotidiano (persone che dedicano il loro tempo agli ultimi di Milano tutti i giorni): era il sindaco Sala, venuto lì per ringraziarli e per ringraziare il generoso imprenditore che ha staccato un assegno di qualche migliaia di euro.

Eh sì, siamo tutti più buoni.

Certo, un sindaco progressista avrebbe aggiunto anche che, nel suo prossimo eventuale mandato avrebbe fatto tutto il possibile perché a Milano non si vedano più le scene drammatiche delle persone in coda per un aiuto.

Che Milano non è solo la città dei grattacieli, dello shopping sotto la galleria Vittorio Emanuele, degli aperitivi dei bei tempi. O della mega (speculazione) operazione immobiliare attorno al nuovo stadio San Siro, fortemente voluta dal fondo Elliot di cui ancora non si sa bene chi ci sia dietro.

Perché a Milano nessuno deve essere lasciato indietro.

Ma questi sono discorsi da un sindaco di sinistra. Dobbiamo accontentarci.

Accontentarci di questi politici che si accorgono che esiste un'altra Milano solo attorno a Natale.

24 dicembre 2020

Atlante freddo di Luigi Bernardi - trilogia criminale

 


All'inizio non avevo collegato, ho dovuto leggere la terza di copertina per capire come mai quel nome, Luigi Bernardi mi ricordasse qualcosa. Per la collana “Einaudi stile libero”, quei bei gialli dal dorso giallo (appunto) tra cui i gialli di Carlo Lucarelli (“Almost Blue”) e Loriano Macchiavelli (“Fiori alla memoria”).

C'è una sua frase, che ogni amante dei noir dovrebbe imparare a memoria, riportata nella prefazione a questa trilogia da parte di Tommaso De Lorenzis

Del crimine mi interessa il gesto e il senso, che non sono mai misteriosi in accezione 'giallistica', quanto fenomenali rappresentazioni del dramma primario: la vita come capacità di dare la morte.

Raccontare un omicidio, scrivere di un coltello che penetra la carne, di una pallottola che devasta il volto, di una madre che getta dal balcone il proprio bambino, è entrare nel mistero della psiche, l'unico che ha senso indagare.

Uno così, non poteva che amare e scrivere romanzi noir, storie di personaggi ai bordi della società, quelli relegati nelle periferie, persone nate sconfitte e destinate a rimanere ai margini, ad arrangiarsi per sopravvivere.

Persone come Chiara, la ragazzina dai capelli scuri e dai pensieri che ogni tanto scorrono fuori sincrono, che a nemmeno diciotto anni vive, in poche settimane, una serie di esperienze tragiche e dolorose. Ma da cui esce fuori sempre più matura e sempre più desiderosa di conoscere altre persone, fare altre esperienze.

E' lei a far da collante ai tre racconti ambientati a Bari, poi a Bologna e infine a Torino, seguendo una direzione da sud est a nord ovest dello stivale.

Vittima facile

Francesca cammina piano, stringe un libro al petto. Fa sempre così, si stringe qualcosa contro il petto quando cammina. Un sacchetto con dentro uno o due compact appena comprati, la busta di un negozio di maglieria, la pochette di tela indiana con i documenti e i soldi, oppure un libro, come oggi.

Vincenzino cammina disordinato, come chi non sa da che parte andare e potrebbe cambiare direzione a ogni momento. Ha lo sguardo sospettoso, colpisce tutto senza saldarsi su niente, niente tranne le gambe di Francesca.

Vincenzino è un giovane criminale di Bari: sin da piccolo ha avuto solo il crimine come sola prospettiva della sua vita. Perché Vincenzino, partendo dalla prima goliardata (un camion di bibite rubato e gettato in un fosso), fino a salire alle rapine alle poste e poi nelle banche, ha avuto come obiettivo solo quello di diventare qualcuno nel mondo della criminalità. Farsi notare dai boss per entrare anche lui nell'organizzazione.

Per questo decide di rapire quella ragazza, Francesca, che al bar ha sentito dire essere la figlia di uno che conta in città. Però il padre di Francesca non è solo uno importante: è uno dei capi di quella organizzazione che, da tempo, lo sta tenendo d'occhio. Non per reclutarlo, perché persone come lui non vanno bene nemmeno al crimine, perché troppo indisciplinato, perché quei piccoli criminali poi alla fine attirano solo l'attenzione delle forze dell'ordine e a suscitare una reazione da parte delle persone.

Chiara è la sua ragazza, la donna del capo. E' scappata da casa, scappata poi da Cosimo, l'ambulante con cui lavorava dopo che ha incontrato Vincenzino: ogni tanto i suoi pensieri è come se si inceppassero

“non c'è niente in lei che fili per il verso giusto, niente tranne i pensieri, che sono troppi, aggrovigliati e sempre fuori sincrono”.

Il rapimento non finirà bene, la scalata nelle gerarchie criminali finirà molto male..

Rosa piccola

Da Bari a Bologna: nella città delle Torri, Chiara incontra Nina, una ragazzina che vende le rose alle persone, assieme ad altri ragazzi, la sera dorme nel retro del magazzino di un commerciante, Benfenati.

Nina vende le rose, Natale vende merce porta a porta, Pedro bigiotteria e Kaled invece è l'uomo di fatica, quello che scarica la merce dai camion, ovviamente senza bolla, perché è tutto in nero.

Hanno tutti una storia alle spalle, una storia di fughe da un passato e anche da un'identità da lasciarsi alle spalle. Forse anche per questo Chiara lega subito con loro.

Ma nemmeno vendere bigiotteria è una cosa che Chiara vede nel suo futuro, non vuole finire come quelle mele aggrinzite nel cesto che nessuno mangia più.

Così, in una sera piovosa di Bologna, i destini di questi ragazzi si compiono, ciascuno riuscirà a scappare da quelle brandine nel magazzino:

“L'importante non è quello che ti porti dietro, conta più quello che ti lasci alle spalle”

Musica finita

A Torino Chiara si trova in mezzo ad una guerra che vede da una parte un piccolo ma potente criminale marocchino Abdellah, che ha investito i soldi sporchi dai suoi affari con armi, droga, prostituzione, nel settore dei phone center (siamo nei primi anni del terzo millennio e i telefonini ancora dovevano arrivare ma già c'era nelle nostre città la massa di immigrati che aveva bisogno di telefonare a casa).

Dall'altra parte dei reduci, sconfitti senza avere nemmeno l'onestà intellettuale di ammetterlo, degli anni della lotta armata. Persone che pensavano e pensano di cambiare il mondo con la violenza.

La bilancia della storia, non solo quella con la S maiuscola, penderà ancora una volta dalla parte del più cattivo. Perché Abdellah è sì un criminale, ma è anche uno che ha capito come fare affari in questo paese, dove chi ha i soldi, un buon avvocato e un buon commercialista ha sempre ragione.

Il criminale ripulito, se crea posti di lavoro, diventa subito un mecenate:

Abdellah ha capito gli italiani. E' gente che spesso si comporta in modo contrario rispetto a come dice di essere. Sono cattolici e gozzovigliano con il demonio. Sono bigotti e si scambino le mogli. Sono razzisti e pagano per scoparsi persone di colore. Sono mafiosi e pretendono anche il governo della legalità. Abdellah ha capito gli italiani e sa come rigirarseli.”

Da Bari a Torino passando per Bologna: attraverso le avventure di Chiara, diventata grande a diciotto anni, ci viene mostrato il lato nascosto delle nostre città, la vita degli esclusi e di quelli ai margini.

Ma, lo dice Chiara alla fine di questo viaggio, nella vita si può vincere anche senza arrivare primi, come il ciclista Balmamiom che vinse due giri d'Italia senza arrivare primo in nemmeno una tappa:

.. non bisogna avere fretta. Dopo ogni arrivo, c'è una nuova partenza, bisogna dosare le forze, pensare che c'è un dopo, qualcosa del genere. E anche che non c'è niente di peggio che sentirsi i primi della classe.

La scheda del libro sul sito di Rizzoli

I link per ordinarlo su Ibs e Amazon

22 dicembre 2020

I segreti dell'Oms - sulla nostra pelle (l'ultima puntata di Report)

Report è venuta in possesso di un altro documento, interno all'Oms, dove si parla del rapporto redatto dal gruppo italiano di Venezia, che criticava la gestione italiana della pandemia durante la prima ondata.

C'è una frase che spiega il perché di questo segreto, perché il documento è stato ritirato, perché Oms ha messo i bastoni ai ricercatori per impedire che si presentino davanti ai magistrati.

Dobbiamo stare attenti a non creare un precedente, per cui vi chiediamo di non presentarvi agli interrogatori con la guardia di Finanza.

Oms aveva timore di richieste di risarcimento da parte, temeva le commissioni d'inchiesta sulla pandemia dei vari paesi (tra cui l'Italia).

Nonostante i numeri dei morti: 111 morti per ogni 100mila abitanti, un record italiano. Perché? Perché 70mila morti, tra cui medici e infermieri. I loro familiari una risposta la dovranno avere.

Per fortuna esistono persone coraggiose come Zambon, che nonostante i divieti dell'Oms è andato a testimoniare davanti ai magistrati di Bergamo, raccontando la verità scomoda: non avevamo un piano pandemico, il deposito degli antivirali è in una discarica con farmaci con principi attivi scaduti.

La procura ha chiesto all'AIFA di capire se quei principi attivi possano ancora essere testati, Aifa non ha risposto e dopo settimane passa la palla all'Ema. E se avessimo avuto bisogno di quei farmaci per una pandemia influenzale?

Quel deposito è la metafora di un paese inadeguato e impreparato a contrastare il virus.



Paese dove presidenti come il campano De Luca hanno in mano la salute di milioni di persone, presidenti che con le loro battutine non fanno ridere più nessuno. 

21 dicembre 2020

Anteprima delle inchieste di Report – il finale della stagione 2020

Ci sono i talk dove ci si accapiglia sul colore delle regioni, sui ristoranti chiusi “ma perché non apriamo tutti”, dove si attacca il governo quando chiude tutto e dove si attacca il governo quando, come adesso, cede al compromesso con le regioni e alcune parti della maggioranza.

E poi c'è Report: non si parlerà del cenone, di quanti ospiti invitare, di quando celebrare la messa di Natale.

Nei servizi andati in onda questa estate Report ci ha raccontato cosa è stato fatto di sbagliato, per questa pandemia e cosa non è stato proprio fatto.

Se avessimo avuto un piano pandemico.

Se avessimo gestito con minore improvvisazione la prima ondata.

Se avessimo gestito meglio la sanità nelle regioni.

Se il governo e i presidenti di regione non avessero ceduto alle aperture sia questa estate sia ora.

Se si fosse gestito meglio il rientro a scuola a settembre.

Se, se se .. a futura memoria, anche perché su alcune storie sono aperte delle inchieste, come quella di Bergamo sulle morti per covid a marzo e aprile.

Anche perché questo virus non ci abbandonerà presto, nemmeno ora che arriveranno le prime dosi del vaccino, per cui potremmo arrivare a spendere anche 1,5 miliardi di euro (e diventa dunque estremamente importante essere certi della loro efficacia).

Ma le notizie su questo virus e l'atteggiamento della politica muta alla stessa velocità in cui muta il virus, con l'ultima versione inglese che torna a spaventare l'Europa, prima di un Natale che non ci dimenticheremo facilmente.

Il rapporto che non doveva esistere

Il ricercatore dell'Oms Zambon è uno degli autori del rapporto redatto a maggio e che analizzava in modo critico la prima gestione italiana della pandemia. Il rapporto avrebbe messo in imbarazzo l'Italia e il ministro Speranza e così, l'Oms (e il suo direttore aggiunto Ranieri Guerra) avrebbe fatto pressioni prima per togliere alcuni riferimenti al rapporto, per esempio la data del piano pandemico, che l'Italia non aggiornava dal 2006. E poi facendo sparire dalla circolazione questo rapporto.

Una scelta politica da parte di un ente terzo che dovrebbe essere autonomo nelle sue decisioni e che invece ha scelto di essere “la consapevole foglia di fico” del governo italiano.

Nonostante questo, Zambon è andato a Bergamo a raccontare la sua versione davanti ai magistrati che hanno aperto un fascicolo, sulla strage in questa provincia per il virus.



Da un documento di cui Report è venuto in possesso, sappiamo che Tedros Ghebreyesus era stato informato su questo rapporto e su tutta la guerra, interna all'organizzazione per silenziarlo.

La scheda del servizio: I SEGRETI DELL’OMS di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella in collaborazione di Norma Ferrara

Esclusiva di Report: una mail prova che Tedros, il direttore generale dell'Oms, sapeva già dal 28 maggio della censura dello studio sulla gestione italiana della pandemia. Ma l'Oms, con la scusa della confidenzialità, ha rifiutato di rispondere sulle violazioni del proprio codice per la ricerca responsabile che sanziona la falsificazione dei dati e i conflitti di interesse. Una eccezionale intervista a uno degli autori del dossier ricostruirà cosa è accaduto davvero dentro l'Organizzazione mondiale della sanità e come il tentativo di censurare la verità si è trasformato in una catastrofe reputazionale per l'indipendenza dell'ente. Infine Report svelerà una delle ragioni chiave per cui agli autori del dossier è stato chiesto di non presentarsi alla Procura di Bergamo.

Lo sceriffo senza distintivo

Piaceva tanto De Luca, nei primi mesi della pandemia. Quel suo parlar colorito contro gli incoscienti che contribuivano alla diffusione del virus con i festini e le passeggiate. Poi però anche in Campania deve essere passata la voglia di riderci sopra anche perché i conti dei contagi, dei posti, non tornano (ed è uno solo che li fa e si da anche ragione – racconta Ranucci nell'anticipazione).

“Quanto siamo stati bravi” si dicevano gli uomini del presidente De Luca a settembre, negli appuntamenti per la campagna elettorale, dove i successi nella gestione della prima ondata venivano usati per la propaganda.

“Oggi se andate a Roma, Bologna e Venezia non ci sono più persone che fanno i sorrisini, quando si parla della Campania si alzano in piedi.”

Il simbolo della narrazione trionfale di De Luca sono le installazioni modulari pensate per aumentare i posti letto in terapia intensiva, partiti da Padova una mattina del 6 aprile scorso, arrivati nella serata a Napoli, tra gli applausi delle persone. Era l'apice del consenso di De Luca.

Queste strutture modulari sono state disposte nell'area di parcheggio dell'ospedale del mare a Napoli ma anche a Salerno e Caserta.

Dopo qualche mese a Report sono arrivate immagini diverse: almeno uno dei prefabbricati di Napoli era abbandonato e chiuso.

Quelli di Caserta e Salerno fino a settembre inoltrato erano chiusi perché senza collaudo. Il presidente De Luca ha scelto di non rispondere alle domande del giornalista, troppo preso dalla campagna elettorale.



Danilo Procaccianti raccoglierà anche un'interessante testimonianza sull'acquisto dei respiratori polmonari, indispensabili per la terapia intensiva, ma poi sono rimasti bloccati perché non hanno superato il collaudo, perché il software che gira sui ventilatori è solo in tedesco, o medici e infermieri conoscono questa lingua oppure non possono funzionare.

Quanti sono i posti in terapia intensiva e i posti in degenza? “La Campania sarà una casa di vetro” assicurava il presidente in una delle sue dirette FB il 20 novembre.

Più che una casa di vetro, una casa di specchi, commenta il giornalista, perché si è data l'illusione di avere più posti letto di quelli reali e sono dati importanti perché, in base a questi numeri il governo decide il colore di una regione.

Il bollettino regionale indicava il 10 ottobre 110 posti in terapia intensiva e 820. Il 22 ottobre diventano 227 in terapia intensiva e 1114 di degenza: nei giorni successivi cambia una parola dentro il comunicato, non si indica più posti in terapia intensiva ma di posti “attivati” e quelli di degenza diventano 1550, sono 400 posti in più dal giorno alla notte.

Il 26 ottobre i posti non sono più attivati, ma “attivabili”; il 5 novembre un altro cambiamento, si parla di posti letto “disponibili”, i posti in TI diventano 590 (sempre disponibili) e ben 3160 in degenza.

Report ha intervistato il vice segretario regionale dei medici di base: “dal bollettino mi rendo conto che la situazione non è così grave, poi però quando viviamo quotidianamente il nostro lavoro e ascoltiamo con le nostre orecchie che non è possibile trasferire un paziente covid perché non c'è un posto in regione, ci chiediamo ma i 590 posti attivabili per la terapia intensiva dove sono? I 3160 posti di degenza dove sono?”

La notizia incredibile che la regione avrebbe mentito sui posti letto arriva anche da una fonte interna all'unità di crisi, il responsabile del 118 conferma che quei posti che la regione riporta come disponibili, in realtà sarebbero solo ipotetici.

A parlare è il dottor Galano , responsabile del servizio 118 in Campania: “quei posti devono essere riconvertiti”, se parliamo in termini di covid, quei posti non ci sono e questo spiega le file delle ambulanze fuori dai pronto soccorsi.

Sono posti che vengono però messi dalla regione in relazione al covid: “questo non lo deve chiedere a me..”

Al Cardarelli, l'11 novembre scorso, un uomo di 84 anni viene trovato morto nei bagni del pronto soccorso: anche di questo si occuperà il servizio di Danilo Procaccianti.

La scheda del servizio: TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE di Danilo Procaccianti in collaborazione di Edoardo Garibaldi e Roberto Persia

Il presidente De Luca ha condotto la sua campagna elettorale puntando tutto sui suoi presunti successi nella gestione della prima ondata della pandemia. Presunti, sì, perché l’indagine siero-epidemiologica condotta dall’Istat ha dimostrato che tutto il centro sud è stato graziato dal virus per via dei provvedimenti di lockdown. Poi è arrivata la seconda ondata e gli ospedali campani si sono trovati completamente impreparati. Addirittura il San Giovanni Bosco, un ospedale di Napoli che doveva essere completamente dedicato a Covid-19, è stato chiuso per lavori fino al 5 novembre.

Il piano di monitoraggio del covid

Zone rosse, zone gialle, un dpcm a settimana (o quasi), quasi 800 morti al giorno, gli ospedali al limite della situazione di crisi in diverse regioni d'Italia. Come siamo arrivati a questo?

Il servizio di Luca Chianca cercherà di capire cosa non ha funzionato sul monitoraggio dei contagi.

Si parte da Cosenza: qui il primo di dicembre in provincia c'erano 160 ricoveri in ospedale e 4033 positivi a casa mentre a luglio c'era 1 caso a domicilio. La responsabile di epidemiologia della ASP di Cosenza gli mostra i dati, la curva dei contagi che purtroppo mostra una crescita. Deve fare tutto a mano, non esistono programmi per il contact tracing: alla dottoressa De Luca arrivano i reperti compilati a mano, circa 700-800 referti al giorno, ad oggi ne ha inseriti nel sistema 5224, in totale tutti i referti sono oltre 65mila.

Difficile fare contact tracing in queste condizioni, con un foglio excel riempito manualmente e che poi viene girato ai colleghi medici sul territorio che devono fare l'isolamento: questo spiega perché oggi il numero dei ricoverati sia in aumento, in ospedali che non erano pronti a gestire questi numeri e dove diversi medici si sono infettati.

Il responsabile del dipartimento di prevenzione di Cosenza ha portato Luca Chianca alla centrale che chiama i cittadini con sintomi per fare il contact tracing: sono otto persone in una stessa stanza, in una situazione potenzialmente a rischio perché, come dice il dirigente, si fa fatica a trovare strutture.

Il giornalista è andato a visitare il laboratorio ad Aprigliano che conserva tutti i tamponi nei loro frigoriferi: grazie all'apertura di un nuovo laboratorio presso l'ospedale di Rossano assicurano di non aver più problemi a processare tutti i tamponi in arrivo: a Rossano processano 300 tamponi al giorni ma possono fare di più.

Il giornalista è stato testimone di una situazione strana, l'arrivo di una scatola di cartone piena di tamponi da Trebisacce, che non è stata portata subito a Rossano.

Perché a Cosenza no, non c'è il frigorifero – raccontano al giornalista – così sono andato ad Aprigliano .. sti tamponi ogni volta girano che ne so...”

Dalla Calabria alla regione Lazio: Report ha raccolto la testimonianza di Ilaria Ferri, che ha fatto il tampone il 6 novembre e ha ricevuto i risultati molti giorni dopo.

Il tampone è stato fatto al drive in di Casal Bernocchi: ha aspettato 20 giorni per il referto che è arrivato il 24 novembre. Quando quesot è arrivato ha scoperto che le analisi per la presenza del virus erano state fatte ben 10 giorni dopo il tampone: Mi sono domandata, ma questi tamponi quanto sono affidabili dieci giorni dopo, venti giorni dopo?”

L'affidabilità dipenda da come viene conservato il tampone: l'ISS da indicazioni molto chiare, se il campione viene processato dopo 48 ore, deve essere conservato a temperature di -80 gradi. Ma quanti laboratori seguono questa indicazione?

Luca Chianca lo ha chiesto al San Raffaele della Bisano dove han processato il tampone di Ilaria: come mai il tampone è stato processato dieci giorni dopo?

“Abbiamo avuto un problema di smaltimento dei tamponi” la risposta della struttura.

Come viene conservato il tampone?

Va conservato a +4 gradi ..”

Di fronte al rapporto dell'istituto superiore della sanità, dove è scritto che i campioni possono essere conservato a 4 gradi per un periodo non superiore a 48 ore, la risposta è stata “questa è una cosa da rivedere.”

Luca Chianca si è rivolto così al presidente della regione Zingaretti e al suo assessore: l'intervista si farà, con calma, non c'è fretta.

Vogliamo sapere a quale temperatura sono conservati i campioni? “Questa è una domanda fa dare ai tecnici dei laboratori, sentiremo loro e si risponderà.. ”

La scheda del servizio: LA SORVEGLIANZA di Luca Chianca con la collaborazione di Alessia Marzi

I banchi monoposto per mettere in sicurezza le scuole sono costati ben due miliardi di euro. Però, passati solo due mesi dall'inizio delle lezioni, tutti gli istituti superiori sono stati chiusi. Cosa è mancato per evitare che i ragazzi tornassero alla didattica a distanza? E soprattutto cosa è mancato per evitare questa seconda ondata? Dalla Calabria al Lazio, al Veneto, passando per L'Aquila, definita la Bergamo d'Abruzzo dal presidente della Regione, Report cerca di capire chi doveva realizzare un vero e proprio piano di sorveglianza per monitorare, tracciare e isolare i nuovi contagi ed evitare che anche in autunno morissero altre 25 mila persone, quasi la metà dei decessi da inizio pandemia.

Dall'analisi delle acque reflue

Da quanto “gira” in Europa il coronavirus? Uno studio dell'istituto olandese KWR sulle acque reflue porta a pensare che fosse già in circolazione dal novembre 2019.

Il loro studio è iniziato lo scorso gennaio, quando si scoprì che chi è contagiato rilascia particelle di virus anche nelle feci: “ci siamo detti, se è nelle feci, possiamo andarlo a cercare alla fonte” - racconta il capo di microbiologia all'istituto FWR - “quindi abbiamo elaborato un metodo per trovare il virus in un campione di acque reflue.”

I primi campioni sono stati presi ad inizio febbraio quando il virus non è ancora comparso e infatti non trovano nulla: il 27 febbraio compare il primo caso e, a marzo, i ricercatori trovano tracce del virus nelle acque di Amsterdam.

I dati di questa ricerca coincidono con quelli dei tamponi: “se si guarda i nostri dati si vede benissimo la prima ondata, poi l'arrivo della seconda e ora, piano piano, la curva sta andando giù.”

Monitorare il virus nelle fogne, racconta Giulia Presutti, ha il vantaggio di captare in anticipo lo sviluppo della malattia perché le persone contagiate iniziano a rilasciare fin da subito il virus nelle feci, al contrario serve tempo affinché una persona contagiata sviluppi dei sintomi, contatti il medico, faccia il test e ottenga il risultato, spiega Gert Jan Medema di KWR, “noi siamo circa sei giorni in anticipo rispetto a quel risultato.”

Così a Rotterdam vengono controllati tutti i tombini della città e a monitorare le acque reflue sono gli ingegneri di Partners for urban water, società di consulenza, che conoscono a memoria il labirinto fognario: il loro compito è campionarle tre volte, tener presente dell'effetto diluizione quando arriva la pioggia.

Quello dell'istituto KWR è un progetto pilota, che in Olanda è stato ripreso dal governo: l'istituto di sanità pubblica ha lanciato un progetto di monitoraggio a tappeto dei 300 depuratori presenti nel paese.

Forse, anziché investire in app per il contact tracing (Immuni e le sue sorelle regionali), potremmo fare anche noi in Italia il contact tracing tramite l'analisi delle acque di scarico, per fermare i focolai prima che si espandano.

Aveva ragione De Andrè, dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori.

La scheda del servizio: LA SENTINELLA di Giulia Presutti con la collaborazione di Marzia Amico

Non c'è voluto molto, da quando è iniziata la pandemia, perché gli scienziati scoprissero che chi è affetto da Covid-19 rilascia particelle di virus anche nelle feci. In Olanda l’istituto di ricerca Kwr ha lanciato un progetto pilota: da marzo scorso monitora le acque reflue di Amsterdam e Rotterdam per scovare la presenza di virus nella comunità. Tutto per potenziare le attività di tracciamento e di screening della popolazione. Seguendo l'Istituto Kwr, il governo olandese ha avviato un monitoraggio a tappeto dei 300 impianti di depurazione del paese. In Italia l'Istituto Superiore di Sanità sta provando a fare qualcosa di simile: a giugno 2020 ha trovato tracce di Sars-Cov-2 in campioni prelevati a Milano e Torino addirittura a dicembre 2019. Quindi ha lanciato una call volontaria per tutti gli istituti di ricerca che vogliono collaborare allo studio delle acque reflue. Il progetto si chiama Sari, ma a che punto è? E l'Italia sta sfruttando appieno la potenzialità di uno strumento come le acque reflue, specchio di quello che succede nella società?

La App per il contact tracing siciliana

Prima della App di Stato, Immuni, la regione Sicilia ha rilasciato la sua di app per il contact tracing, Siciliasicura, sotto la regia di Guido Bertolaso, chiamato dal presidente della regione Musumeci per gestire la fase due della pandemia. Sono emerse subito le prime criticità: per usarla bisognava registrare su un portale i luoghi visitati, alcuni utenti hanno lamentato difficoltà a scaricarla dagli Store.

Poi è emerso che questa app registra la posizione degli utenti tramite GPS (e non solo i dati di prossimità), di fatto rendendola meno sicura di Immuni.

L'autorità garante della privacy, se venisse confermato l'uso illecito dei nostri dati, potrebbe stopparla o perfino sanzionare l'ente.

In un servizio precedente, Lucina Paternisi aveva raccontato che ad oggi sappiamo ancora in quanti l'abbiano scaricata, si sa solo è che è costata 80mila euro, via convenzione Consip, soldi pagati alla Ies Solutions, società romana con sede operativa in Sicilia, di proprietà del figlio dell'ex assessore alla provincia Cristaldi, ai tempi in cui Musumeci ne era presidente.

Questa app fa parte di un progetto più ampio, per seguire a distanza le persone (non solo i turisti) affetti da Covid: progetto da 800 mila euro in affidamento diretto senza gara.

La scheda del servizio: SICILIA SICURA di Lucina Paternesi con la collaborazione di Alessia Marzi

Anche la Sicilia, questa estate, si è fatta la propria app. Grazie all’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, chiamato dal presidente Nello Musumeci per la riapertura della stagione estiva, è nato il protocollo Sicilia Sicura: tra le altre cose, prevedeva un’app obbligatoria per chiunque volesse andare nell’isola a trascorrere le vacanze. Ma chi l’ha realizzata e dove vengono raccolti i dati dei turisti e degli utenti? Non solo un’app per turisti, in Sicilia da maggio scorso è attivo il progetto Telecovid19. Tramite un’app e device collegati, consente di seguire a distanza gli utenti affetti da Covid che non necessitano di ricovero in ospedale. Per il progetto, presentato dall’Irccs di Messina e approvato dall’assessorato alla Salute neanche 24 ore dopo, la Regione ha stanziato 800 mila euro, ma l’affidamento è avvenuto in modo diretto, senza alcun tipo di bando.

Tutte le anticipazioni sono state prese dalla pagina FB e dall'accout Twitter di Report

18 dicembre 2020

La fuga dal nord

Non ho bisogno che il governo mi dica che non si deve uscire, nei giorni del Natale, evitando così i luoghi affollati.

Perché so benissimo, leggendo i dati, vedendo quello che succede attorno a me, che servono tutte le precauzioni.

Perché non ho fatto il vaccino anti influenzale (sapete, la mia regione ha fatto i bandi tardi e male).

Perché se mi viene un malanno di stagione, con sintomi simili al Covid, sono problemi miei, perché in questo paese non si fa screening di massa e fare un tampone è un problema. 

E se chiami il medico ti manda in auto isolamento.

Detto ciò, ho seguito con insofferenza i servizi del TG Rai dove i giornalisti, nelle stazioni, negli aeroporti delle città del nord, per descrivere la grande fuga verso il sud.

Ma come, in tanti si battono per tenere aperti i negozi, per aprire le piste da sci, per consentire agli sciuri milanesi lo shopping in Galleria e poi i tanti ragazzi venuti qui a lavorare, nemmeno possono tornarsene a casa?

Tra l'altro, questa grande fuga dal nord, non solo ora per le feste, dovrebbe far riflettere gli amministratori: vivere a Milano, a meno che tu non stia bene di famiglia, non è così bello.

Certo, siccome sei un cittadino del nord produttivo, hai diritto prima degli altri al vaccino (è quello che pensa il leghista Ciocca, non prendetevela con me).

17 dicembre 2020

L'opzione di Dio di Pietro Caliceti


Incipit

Giorno 1, ore 10:00 Roma Controllò per l’ultima volta i contatti. L’esplosivo sul cruscotto, quello nel giubbotto, l’innesco. Tutto era a posto, tutto era collegato. Strinse le mani sul volante e diede gas lentamente, attento a dosare la pressione. Le ruote si mossero e l'autobus si mise in moto, dapprima in modo impercettibile, poi sempre più fluido. Dieci all'ora, venti, trenta. Non accelerò oltre, ..

Così, bene. Continua così.

Un thriller dal ritmo veramente incalzante, dove si parla di religione, della ricerca di Dio, della fede e del lato più prosaico delle religioni, ovvero il fondamentalismo, la pedofilia, l'affarismo nascosto dietro le opere di bene di quanti hanno usato lo Ior come banca d'affari (e non come istituto per le opere religiose come farebbe pensare il nome).

Un thriller molto attuale che parte da un evento tragico: un attentatore che decide di fare strage proprio davanti piazza San Pietro. Nel cuore della cristianità. Sapendo dell'enorme eco che susciterà il suo gesto.

Nei giorni successivi a questo attentato il nucleo anti terrorismo della polizia di Stato apre una sua indagine, sapendo di avere addosso tutte le pressioni sia da parte del Vaticano, dello Stato italiano ma anche dell'opinione pubblica.

Ma un altro dramma scuote il Vaticano: il papa sta morendo, secondo i medici ha davanti pochi mesi o forse poche vite e questo scatena una gara, all'interno della chiesa, tra le due sue anime (o forse sarebbe più corretto dire, tra le due fazioni): quella conservatrice (come i cavalieri dell'Ordine di Malta) che si raccoglie attorno alla figura del cardinale Angelo Vignale, una persona che è considerata già un santo in terra per quello che ha fatto in Africa, per quelle popolazioni bisognose.

Ma un santo molto netto nella sua visione della fede: qua siamo noi, dall'altra parte il peccato. La chiesa accogliente, quella che ha cercato di togliere le barriere verso gli omosessuali, verso i divorziati, ha solo portato allo sfacelo sotto gli occhi.

Dire che esiste un Verbo, e solo uno, significa dire che da una parte c’è il bianco e dall’altra il nero; da una parte il vero e dall’altra il falso; da una parte il giusto e dall’altra il peccato.

Siamo ad un passo dallo scisma, dice di fronte ai suoi fratelli: se vogliamo riunire le greggi (e riunire le varie chiese che già oggi si sono separate da Roma) serve una voce che sappia parlare in modo chiaro.

Dall'altra parte i cosiddetti progressisti, che si sono riconosciuti negli ultimi due papi, che hanno promosso le opere di riforma dello Ior, per renderla una struttura finanziaria trasparente (e dimenticarsi una volta per tutte di quella che era stata la banca di Marcinkus, Sindona e Calvi).

Papi che hanno aperto anziché chiudere, che hanno cercato il dialogo con le persone nel mondo. Ma, c'è un ma.

Questo è un libro che parla di religione dove non c'è fede e della fede che resiste a tutto, anche alla malattia della religione.

Dietro queste due anime si muovono sentimenti che hanno poco a che vedere con la fede.

Il partito dei progressisti vuole mantenere certi privilegi, per esempio la “tassa della chiesa” in Germania

In Germania vigeva un’imposta – la cosiddetta Kirchensteuer, la «tassa della Chiesa» – il cui versamento era obbligatorio per chiunque fosse registrato come appartenente alla Chiesa cattolica

Come candidato di questa fazione, viene scelto un arcivescovo del Sud Africa, Warren Hamilton, ex giocatore di Rugby, che aveva risollevato la chiesa di Pretoria salvandola da una bomba atomica. Ovvero salvandola dalle denunce e dal risarcimento danni per i casi di pedofilia che si erano verificati: sfruttando il fatto che le vittime erano figli di povera gente, persone che non avevano soldi per pagarsi un avvocato.

Hamilton si presentava a casa della vittima con in mano una proposta di transazione tombale e un assegno, che non eccedeva mai l’equivalente di 50.000 dollari. E negoziava.

No, decisamente qui la religione, la fede, la carità, la misericordia, non hanno casa. Si tratta solo di un cinico calcolo economico.

Così, la fazione dei conservatori, quella di Vignale, inizia a fare una sua indagine sul passato di Hamilton per trovare qualche scheletro nell'armadio e screditarlo.

Cosa che anche la fazione di Hamilton sta facendo: Hamilton, facendosi aiutare da un giovane gesuita che lavorava nello Ior che si chiama Alessio Macchia, cerca di trovare quel marcio nell'istituto che gli consentano di poter dire che le riforme fatte a partire dal 2011, con Ratzinger, sono servite a qualcosa, non sono solo state un'operazione di marketing.

Diranno che per la smania di riformare ha smontato mezza Chiesa senza però concludere nulla – il che, detto tra noi, ha qualcosa di vero. Diranno che è stato solo marketing,

Come in un thriller che si rispetti, il lettore verrà catapultato in questo mondo, per molti sconosciuto, del Vaticano. E assisterà, in un continuo saltare dall'una all'altra, all'avanzare delle tre indagini.

Quella della Direzione centrale della polizia di prevenzione (Dcpp), sull'attentato in piazza San Pietro: a partire dall'identità dell'attentatore, analizzando i suoi spostamenti incrociando tabulati e i dati delle telecamere (assieme al riconoscimento facciale), la squadra cerca di capire chi possano essere stati i complici, per bloccare altri eventuali attentati.

C'è n'è una seconda, di indagine: quella dell'uomo di Vignale in Sudafrica, sul passato di Hamilton. Su quegli scheletri nell'armadio legati alla sua gioventù, da usare come arma di ricatto.

Ma anche il partito di Hamilton fa la sua contro indagine: queste viene affidata ad Alessio Macchia, un gesuita che è stato aiutante dell'avvocato Tuzzi, un laico che lavorava come consulente per lo Ior e che è morto proprio nell'attentato. Alessio, assieme al fratello Giovanni che è avvocato, partendo dalle carte dell'istituto, compiranno un'indagine che da Roma li porterà fino a Malta, paradiso fiscale a pochi passi dall'Europa, dove tutto si intreccia. Riciclaggio, terrorismo, evasione, anonimato per guadagni facili...

Ecco, in tutto questo, dove sta Dio, dove sta quell'opzione di Dio che da il nome al libro? Ce lo dice Alessio Macchia, che oltre a lavorare allo IOR, assiste i bambini nell'ospedale Bambin Gesù a Roma, bambini che soffrono per malattie precoci e destinati a morire tra atroci sofferenze.

E' stata la morte della sorella a portarlo a quella scelta, a fargli sentire la chiamata di Dio e cercarlo anche nel dolore, anche laddove tutti si fermerebbero, chiedendosi perché Dio infligge questa sofferenza a dei bambini innocenti:

« ..No, la morte di un bambino – e più ancora, la sofferenza di un bambino – è una cosa che non potremo mai accettare.»

Giovanni lo fissò negli occhi. Era gonfio in volto e si mise quasi a urlare.

«Appunto. E allora te lo domando ancora: come fai a credere? Come fai a credere in un Dio che avrebbe messo in piedi qualcosa di così inaccettabili? Una cosa così senza senso? Una cosa così cattiva?»

In fondo al corridoio, una suora si sporse a guardare. Alessio posò la mano sulla spalla del fratello e gli sorrise.

«Esattamente per questo, Alessio. Perché l’alternativa a credere in Dio sarebbe o che tutto questo non ha alcun senso, o che è stato creato da qualcuno di cattivo. E di fronte a queste alternative, optare per Dio è la migliore opzione possibile.»

Giovanni lo guardò stupito.

«Un'opzione.»

«Si l'opzione di Dio. Io la vedo così.»

Alessio ha un confronto profondo con un Imam, che diversamente da professa la sua fede in un garage in modo semi clandestino, non in una chiesa ammantata di oro. Ma in quel garage i fedeli pregano infervorati da una fede che i cristiani sembrano non possedere più.

Tutte queste vostre chiese, piene di oro, piene di statue – non vi hanno fatto avvicinare a Dio neanche di un palmo.

Si parla di fede in questo thriller e della crisi all'interno della cristianità, perché da una parte ci sono persone che usano la religione come strumento di potere e di vanagloria, per costruirsi un tesoro qui in terra e non nel regno dei cieli (come dice il Vangelo).

E dall'altra parte chi invece è alla ricerca della fede autentica, alla ricerca del Dio, anche laddove sembra non esserci.

Tanti enigmi e tanti dubbi che non vengono sciolti del tutto ma che trovano una soluzione nel finale, quando le tre indagini si uniscono in un sorprendente colpo di scena che collega soldi, terrorismo e i compromessi all'interno del Vaticano.

La scheda del libro sul sito di Baldini & Castoldi

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