31 dicembre 2022

Senza respiro di David Quammen

 

La popolazione non deve farsi prendere dal panico
Per alcuni non è stata una sorpresa, l’arrivo di questa pandemia, non più di quanto possa esserlo il sopraggiungere di un evento tristemente ineluttabile. Mi riferisco agli esperti di malattie infettive. Per decenni lo avevano visto avvicinarsi, come un puntino scuro all’orizzonte nelle pianure del Nebraska che procedeva rombando verso di noi con velocità e forza incalcolabili, come un tir carico di polli o di acciaio andato fuori controllo. Sapevano che l’agente della prossima catastrofe sarebbe stato quasi sicuramente un virus.

Non un batterio come nel caso della peste bubbonica, non qualche fungo mangia-cervello, e nemmeno un protozoo complesso del genere che causa la malaria. No, un virus – e più precisamente un virus «nuovo», non del tutto sconosciuto, ma da poco identificato come contagioso per gli esseri umani. Ma se era inedito per l’uomo, da dove poteva arrivare? Bella domanda. Tutto viene da qualche parte, e i nuovi virus umani vengono dagli animali selvatici, a volte per il tramite di un animale domestico che funge da intermediario. Questo tipo di passaggio da un ospite non umano all’uomo è noto come spillover.

Come tanti italiani ho vissuto la pandemia causata dal virus Sars-Cov2 seguendo con un certo interesse le trasmissioni dove virologi, infettivologi, medici, raccontavano la loro versione della storia. Quello che è avvenuto in Italia e nel mondo, a partire dal gennaio 2020 (e che ancora non è finito), è qualcosa che allora pensavamo essere inconcepibile: una pandemia mondiale, persone chiuse in casa e impossibilitate ad uscire, una malattia che pensavamo essere così lontana e che invece che in Italia del nord ha fatto così tanti morti da dover essere portati via coi camion militari. Come è stato possibile?
Tutti ci siamo fatti le stesse domande: da dove arriva questo virus, come ha potuto contagiare il mondo intero? Come abbiamo potuto sottovalutare il rischio di una nuova pandemia?
Perché è partito dalla Cina, da quella città in particolare? Come mai ha fatto così tanti morti in Italia e in particolar modo, nell’Italia del nord. Soprattutto, la domanda più importante: che succederà adesso, possiamo dimenticarci della pandemia, il virus ha finito di essere un problema per le nostre vite?

Sono domande ancor più importanti adesso, perché (specie da parte dei governi attuali) è tanta la voglia di mettersi tutto alle spalle, dimenticarsi dei morti, dei lutti, dello strazio delle famiglie che nemmeno hanno potuto lasciare un ultimo saluto ai loro parenti colpiti da questa malattia, il Covid19, un nemico che non si vede. Da una parte c’è l’allarme, oggi, in queste ore, per le notizie dalla Cina, dall’altra il governo italiano di destra ha emanato norme che strizzano l’occhio ai novax.

Ecco: questo libro ha risposto a tante delle domande di cui ho parlato sopra, accompagnandomi in un mondo che non conoscevo affatto, il mondo degli scienziati, dei ricercatori, che ogni giorno hanno a che fare con questi strani esseri non viventi, chiamati virus.
David Quammen non è un medico, alle spalle non ha una formazione scientifica ma piuttosto una letteraria: grazie a questo l’autore si sforza, nel corso del racconto, di rendere comprensibili a tutti concetti complessi come la proteina spike (quella specie di corona che rende i coronavirus così unici), la differenza tra un virus, vivo dentro un animale oppure la sua sequenza dei suoi genomi. Come mai questo virus è stato così “bravo” ad attaccarci e a diffonderci da uomo a uomo? Quammen riesce a spiegare concetti apparentemente complessi come “sito di scissione della furina” e il “il dominio di legame del recettore Ace2”, due caratteristiche che hanno reso il sars-Cov2 così tristemente famoso.
Se interessa, potete approfondire le vostre conoscenze leggendo l’articolo “The Origins of Sars-CoV-2. A critical Review (16 Settembre 2021)”.
L’autore ha impiegato questi mesi di pandemia per andare ad intervistare, a volte di persona a volte via internet, medici e scienziati che, sin da subito si son attivati dopo le prime segnalazioni su queste “strane” polmoniti a Wuhan di pazienti legati a vario modo col mercato ittico.
Il primo sequenziamento, la scoperta che si trattava di un “
coronavirus” (un nome che per la maggior parte della popolazione non voleva dire nulla); la pubblicazione della notizia sul sito ProMED da parte di Marjorie Pollack – deputy editor- a fine dicembre 2019; la pubblicazione della sequenza del genoma (lunghe stringhe di lettere che identificano il codice RNA del virus) sul sito Virological a gennaio 2020 da parte Eward Holmes e altri in modo che tutta la comunità scientifica potesse attivarsi, fino alla segnalazione arrivata all’OMS il 7 gennaio da parte del CDC cinese.
Si scelse di non allarmare la popolazione, in Cina come nel resto del mondo (qui in Italia mancavano poi dispositivi e perfino un piano pandemico aggiornato).

Quello che è successo poi è noto a tutti:la crescita esponenziale delle infezioni, la scoperta degli asintomatici, le morti e le persone lasciate sole in casa senza cure perché non c’era posto negli ospedali, presi d’assalto, le persone intubate e medici e infermieri costretti a turni massacranti per gestire questi malati.
Eppure i segnali c’erano tutti, a volerli vedere: l’autore, ancora una volta andando ad intervistare diversi esponenti della comunità scientifica, racconta la storia delle precedenti epidemie causate da coronavirus, dalla SARS alla MERS, passando per Ebola e Marburg.
I coronavirus hanno questo di speciale: sanno mutare velocemente per adattarsi a nuove condizioni ambientali (è insito nel fatto che sono strutture basate su RNA, meno stabile rispetto al nostro DNA), sono presenti in natura all’interno dell’organismo di tanti animali selvatici, non solo i pipistrelli, ma anche zibetti, procioni e i cervi in nord America. Sanno combinarsi tra loro, impiegano anni per compiere le loro mutazioni e sono proprio queste che ne hanno aumentato la loro pericolosità. Per studiarli, equipe di scienziati, come quelli della dottoressa Zhengli Shi, sono andate a raccogliere campioni di feci e di sangue dai pipistrelli nelle miniere, in Africa come in Cina, nella famosa miniera di Majiang, dove nel 2009 è stato ritrovato un campione di virus al 96% simile a quello della Sars: era una scoperta che doveva far drizzare le antenne a tutto il mondo e ai decisori politici. La fuori, in natura, la stessa natura che stiamo antropizzando, c’è un virus trasmissibile all’uomo senza passare per altri esseri intermedi,
“tenetevi pronti”, per un prossima pandemia.

In quella grotta era stato trovato il famoso campione 4991 da cui era stato ricavato il genoma catalogato come RATG13, al 97% simile a quello del Sars-Cov2: questa scoperta ha fatto nascere tante polemiche sull’origine del virus, un argomento su cui Quammen è tornato più volte nel libro.
Nonostante il lavoro della commissione dell’OMS andata a Wuhan nel 2021 non sia stato esaustivo (per la poca collaborazione delle autorità cinesi), non esistono prove che il Sars-Cov2 sia uscito da un laboratorio a Wuhan o
che sia stato creato di proposito a partire da altri virus di tipo corona.
È proprio l’alta capacità di Sars-Cov2 (vi ricordate ancora il sito di scissione e il dominio di legame della furina?) a far propendere verso una origine “
naturale” della pandemia: sarebbero servite troppe prove, con tanti errori intermedi, affinché in laboratorio si potesse arrivare ad un virus così aggressivo e con questa capacità di aggredire le nostre cellule.
Quammen fa anche chiarezza su cosa significhi fare esperimenti di
Gain of function sui virus, un argomento molto controverso anche nello stesso mondo scientifico, spiegando come il lavoro fatto a Wuhan, a partire dalla Sars, non avesse come obiettivo creare un nuovo virus più potente. L’autore usa la metafora dei “leopardi di Mumbai”, che potremmo clonare in laboratorio ma non per questo avremmo generato una nuova specie di leopardo.

È molto probabile che l’origine della pandemia si trovi a Wuhan in quel mercato ittico, smobilitato dal governo locale il 1 gennaio, dove si vendevano anche animali selvatici vivi macellati al momento. Wuhan è anche un nodo nevralgico per il sistema dell’alta velocità in Cina, che passa proprio per questa città da 11 milioni di abitanti: quante persone sono passate di qui nei giorni di festa del capodanno cinese?
Il vero imbarazzo per il governo cinese – spiega Quammen – potrebbe essere proprio il traffico di animali selvatici, proibito per legge dal 2014 ma ancora diffuso almeno in quei mesi (e tollerato dalla polizia in quanto costituiva un giro d’affari da 75 miliardi di dollari l’anno): da quegli animali, il pipistrello o forse un altro animale “serbatoio” sarebbe avvenuto il salto, lo spillover, verso l’uomo. Se volete approfondire il punto, leggetevi l’articolo “The Huanan Market Was the Epicenter of Sars-CoV-2 Emergence, (26 Febbraio 2022)”

Ci siamo fatti cogliere impreparati: questa la sensazione che emerge leggendo questa caccia al virus. Quando abbiamo chiuso le città e le regioni, qui in Italia, era ormai troppo tardi: il lockdown che ancora oggi in molti considerano una scelta inutile (dimenticandosi dei mille e passa morti al giorno) fu in realtà una scelta tardiva (su cui grava anche il peso dell’industria del nord) che costò le migliaia di morti (legati a loro volta all’alto inquinamento dell’aria nelle città della pianura padana e probabilmente anche al tema delle infezioni ospedaliere per i batteri resistenti agli antibiotici).
Oltre al virus c’è anche il fattore sociale a pesare sulle pandemie: gli appelli a non fermare le città, la scelta di far giocare la partita Atalanta Valencia a San Siro il 19 febbraio, la decisione di non bloccare le festività cinesi nel gennaio 2020 ...
Ma non è solo questo: ci siamo fatti anche incantare dalle “magie” per curare il covid.
Il virus non se ne è andato da solo, con l’arrivo del caldo, come predisse l’ex presidente Trump, sponsor delle cure con idrossiclor
ochina (era stato ben consigliato dai suoi guru, tra cui Elon Musk). Quammen spiega anche l’inefficacia della teoria “dell’immunità di gregge” inseguita tra gli altri dal governo di Boris Johnson: non si arriverà mai, con questo virus, ad una immunità di gregge, per la sua grande capacità di mutare e di ricombinarsi.
Sui vaccini,
il libro ha il grande merito di raccontare due cose: rispetto al passato, c’è voluto meno tempo da parte delle aziende farmaceutiche per produrre vaccini ad mRNA (RNA messaggero) perché si è partiti dal lavoro fatto sui precedenti “coronavirus”, i responsabili delle epidemie di SARS e della MERS.
L’autore stigmatizza poi la disparità vaccinale nel mondo: nel giugno 2021 solo l’1% della popolazione nei paesi poveri aveva ricevuto almeno 1 dose del vaccino. I tentativi di portare il vaccino anche a questi paesi sono falliti sia per le difficoltà materiali nel trasportare le dosi che devono essere conservate a basse temperature, sia per l’egoismo dei governi e delle grandi case farmaceutiche.
Un mondo asimmetrico, per quanto riguarda le vaccinazioni, è un mondo dove il virus continuerà a proliferare, generando nuove variazioni potenzialmente più pericolose, sebbene magari meno letali.


Non è la magia quella che ci salverà da questa e dalle prossime pandemie, ma la scienza. La scienza che non sempre è portatrici di certezze, quelle che magari pretenderebbe il decisore politico. Scienza che è la somma di tante visioni, perché il nostro sapere è frammentato: “nessuno sa tutto” è il titolo dell’ultimo capitolo:

La realtà a tutto tondo può essere colta solo sommando prospettive disparate. Il discernimento della verità – o meglio della verità perché è una parola troppo imperiosa e sospetta – deriva dall’ascolto di molte voci. Prendiamo l’esempio della nostra pandemia. Abbiamo bisogno di ascoltare molte voci, e abbiamo bisogno di aiutarci l’un l’altro a capire. [..]

Una cosa è certa, credo, in mezzo al turbinio delle nostre incertezze. Il Covid19 non sarà l’ultima pandemia che vedremo nel ventunesimo secolo. Probabilmente non sarà la peggiore. Ci sono molti altri leopardi del Mumbai. E ci sono molti altri virus spaventosi nel luogo d’origine del Sars-Cov2, qualunque esso sia.

La scheda del libro sul sito di Adelphi

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27 dicembre 2022

Report – la situazione della guerra in Russia, le sanzioni aggirate e la propaganda

Cosa ne pensano i russi della guerra, come agisce la macchina della propaganda per silenziare l’opposizione e le voci di dissenso. E poi, come si aggirano le sanzioni, specie nel mondo degli sponsor del calcio italiano.

Questi gli argomenti dei primi servizi di Report in questa puntata post natalizia.

LA MATRIOSKA DELLE SCOMMESSE di Lorenzo Vendemiale

La guerra ha interrotto il campionato di calcio ucraino ripartito a ottobre, per dare morale alla nazione: ma gli stadi sono blindati e le partite si giocano solo a Kiev.
“Giocare in queste condizioni è molto difficile” spiega l’allenatore del Kryvbas “siamo lontani da casa e senza i nostri tifosi, gli allenamenti vengono continuamente interrotti dagli allarmi antiaereo. Dopo le gare anziché riposare siamo costretti a lunghe trasferte in pullman, ma siamo comunque dei privilegiati.”
A parlare così è
Jurij Vernydub che un anno fa allenava in Moldavia ed era diventato famoso per aver battuto il Real Madrid: quando è scoppiata la guerra non ci ha pensato un secondo a mollare tutto: “dovevo tornare, il resto non aveva senso. Nei primi mesi ho combattuto con la 152 esima divisione, ora sono di nuovo in panchina, spero di regalare un sorriso ai tifosi che sono al fronte.”

Dopo l’annessione della Russia di alcune regioni, molte squadre sono scomparse, sebbene siano ancora considerate parte del calcio ucraino: in questo paese è una questione di orgoglio nazionale continuare a giocare nonostante la guerra e le bombe russe, è una fiamma accesa sulla resilienza ucraina.
Forse nel 2030 i campionati mondiali si potrebbero giocare in Ucraina, sarebbe un bel segnale.
Ma Report, mentre cercava di raccontare questo campionato di calcio, ha scoperto che ci sono società russe che scommettono sul campionato ucraino: sono società che fanno da sponsor alle squadre di calcio italiane, nonostante le sanzioni.
Francesco Baranca, responsabile trasparenza del calcio ucraino,
racconta a Report questa incredibile storia dei bookmaker russi, come 1XBet, la quale nei mesi passati ha cercato di aprire un business addirittura in Ucraina, passando attraverso una società ponte.
Il pericolo è la raccolta di dati personali
di società poco trasparenti e per questo il blocco di queste società di scommesse è una questione di sicurezza nazionale per il governo Zelensky: dietro 1XBet c’è un labirinto di società, una matrioska, tutte aziende in paesi offshore.
A Curacao 1XBet è stata colpita da sentenza di bancarotta, alcuni giocatori che avevano vinto e si sono visti bloccare le vincite dai giudici dell’isola.
Dietro 1XBet ci sono tre imprenditori russi
(che oggi negano di essere i veri proprietari): oggi è sbarcata in Italia, con un manager cipriota nato nella stessa città dei tre imprenditori che l’hanno fondata, il sito italiano ha regolare licenza e questo bookmaker si era infiltrato nella Serie con le sponsorizzazioni: sono sponsor ufficiali che si vedono solo all’estero (per una norma del DL - Dignità).
Dalla Russia arriva anche LigaStavok: la federcalcio ucraina
dopo aver visto questo sponsor associato al calcio italiano ha scritto una lettera di protesta contro la Serie A, che però si dissocia dicendo che sono solo contratti a singole società di calcio.

La Lega di serie A non si è fatta problemi, non si è preoccupata di chiedersi da dove arrivano i soldi. Le altre squadre di calcio, tra Lazio, Udinese, Empoli, continuano ad accettare soldi dalla LigaStavok. Un bel modo di aggirare le sanzioni.

LA BATTAGLIA DI MOSCA di Manuele Bonaccorsi

Come funziona la macchina del consenso in Russia? La macchina della propaganda non smette mai di fermarsi, come il 30 settembre quando Putin ha annunciato l’annessione delle regioni ucraine conquistate.
Spirito nazionalistico, la verità è con noi, gli ucraini sono nostri fratelli: sono questi gli argomenti usati dalle star sul palco della piazza rossa.
Le proteste? Ci sono, ma da parte dei traditori –
racconta una signora in piazza a festeggiare.
La propaganda è dappertutto, nelle vie, nella musica alla radio, nella narrazione della seconda guerra mondiale.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica è nato un sentimento a favore della guerra – racconta a Report un intellettuale “moderato” del think thank
Valdai.
Secondo l’ala moderata di Mosca, la guerra si poteva evitare: la Russia chiedeva maggiore autonomia nelle regioni russofone, accordi commerciali
e mantenere la lingua russa.
Report ha ricevuto dei documenti inviati da Lavrov a Francia e Germania
lo scorso anno dove puntava il dito contro delle leggi approvate in Ucraina nel 2021.
Il giornalista ha intervistato una parlamentare della Duma che nel 2011 aveva protestato contro i brogli fatti da Putin, ma che oggi è schierato a favore dell’invasione, perché – testuali parole – ha finalmente risolto la questione in Donbass.

E questi sono i moderati, ma in Russia ci sono anche i falchi, come il comandante del gruppo Wagner, o altri giornalisti che si dicono indipendenti, che hanno criticato il ministro della difesa russo: spingono perché la Russia usi in modo più massiccio le sue forze militari in Ucraina. Sembra strano, ma molti in Russia pensano veramente che la guerra in Ucraina sia giusta.
C’è da stare poco allegri, seguendo le posizioni dei moderati, che oggi sono stati messi in un vicolo cieco, dei falchi o di quelli che sono all’opposizione ma che sulla guerra sono vicini alle posizioni di Putin.
In questi anni gli accordi di Minsk non sono stati rispettati del tutto: Lavrov aveva stigmatizzato il comportamento ucraino nel 2021, che impediva il russo nelle regioni russofone e impediva a candidarsi a chi aveva collaborato nelle regioni indipendentiste, dopo che l’Ucraina aveva preso controllo giuridico su queste.
Il dialogo tra Russia e Europa saltò nel novembre 2021, la stessa Merkel ha riconosciuto che in questi anni si è solo armato l’Ucraina.

Ma oggi i civili che percezione hanno della guerra?

A Mosca la guerra sembra lontana, studenti e lavoratori specializzati stanno con la guerra e con Putin: alcuni sono contrari, certo, ma sostengono il paese.
La maggior parte dei militari arrivano dalle regioni povere, lontano da Mosca: alcuni di loro sono volontari, sono convinti di vincere la guerra o, meglio, sanno che durerà a lungo e alla fine che nessuno potrebbe vincere.
Gli ucraini sono fratelli – dicono i soldati in partenza per il fronte – vogliamo solo giustizia: eppure continuano a bombardare i loro fratelli.
I giornalisti che si permettono di criticare la guerra e Putin rischiano al galera: chi vuole opporsi sceglie la clandestinità, usando Telegram oppure appendendo volantini nella città.

Ma questa opposizione preoccupa poco il governo, tanto da tollerare drappelli di sparuti rappresentanti dell’opposizione si ritrovino in piccoli gruppi nelle piazze della capitale.

Il grado di apprezzamento di Putin è calato di poco dopo la guerra che viene percepita dal mondo contro Putin, anche dopo la mobilitazione.
Molti oppositori,
quelli che avevano le risorse per farlo, si sono spostati in Georgia, unico paese dove possono entrare senza visto: da Tblisi possono protestare, cosa impossibile a Mosca, dove chi protesta prende una multa di mille rubli e poi il carcere.

In questo modo le voci di dissenso vengono silenziate, anche perché i giovani di Mosca della borghesia non sono stati reclutati e possono continuare a fare la loro bella vita.

Ma al fronte le cose sono ben diverse da come le vedono i giovani moscoviti nei bar: i soldati ucraini sono malvestiti, mal armati e perfino senza munizioni – racconta un servizio del NY Times: arrivano dalle regioni povere della Russia, nella periferia.
Questo ha sollevato critiche anche all’interno dell’esercito e perfino nell’amministrazione russa a Kherson, che ha invitato il ministro della difesa a spararsi.
I russi hanno sopravvalutato le loro capacità:
ma le sanzioni economiche quanto hanno fiaccato la Russia?
Nei supermercati si trova di tutto, anche prodotti esteri: nelle vetrine dei marchi di moda c’è un messaggio che indica di chiamare un numero telefonico, si possono ordinare i prodotti esteri in altro modo.
Le sanzioni non funzionano in Russia, il sistema finanziario si è stabilizzato: i prodotti ad alta tecnologia sono stati sostituiti da prodotti meno sofisticati, Mc Donald è stato acquistato da imprenditori russi, con lo stesso prodotto.
Ci sono problemi con la meccanica, ad esempio nella grande fabbrica di trebbiatrici della Rostelmash, che comprava forniture dalla Germania.
Ma le forniture alla Russia continuano ad arrivare, anche dall’Italia,
magari facendo delle triangolazioni con l’India: nonostante questo le aziende italiane hanno perso il 19-20% di export verso la Russia - racconta il rappresentante delle aziende italiane che hanno rapporti con la Russia Vittorio Torrembrini, si parla di miliardi.
Sono aziende che vendono prodotti alla Russia, come la Ferrero: non vogliono passare per putiniani,
“cosa dovrebbero fare allora le aziende che vendono in Cina?”.
Il PIL russo ha perso il 3,4%, l’inflazione è cresciuta:
di fronte alle sanzioni la Russia ha cercato nuovi mercati, ha costruito un nuovo gasdotto per portare il gas in Cina, tutto questo insegna che in un mondo globalizzato se le sanzioni non lo sono, sono armi spuntate.
In Russia aggirano le sanzioni usando triangolazioni con paesi terzi, usando internet.
Ma mancano a noi le materie prime dalla Russia: nel servizio di Michele Buono si propone di andarle a ricercare nelle miniere che abbiamo creato noi, le nostre città.

MINIERE URBANE di Michele Buono

Ricicliamo i rifiuti per estrarre tutte la materie che servono dagli scarti, cercando di limitare al minimo i rifiuti.
Significa ridurre sprechi, ridurre il consumo di fonti fossili, ridurre il costo della bolletta e ridurre le emissioni nell’ambiente.
Centrali che riciclano le energie come quelli per il biometano, cogeneratori alimentati a biometani, edifici vecchi gestiti in modo intelligente con algoritmi che pilotano l’accensione di caldaie e elettrodomestici.

Cosa ci manca? Non le competenze, ma la volontà politica che deve aiutare le aziende che stanno lavorando in questo settore per togliere la burocrazia inutile.

Per sviluppare comunità energetiche come quella di San Giovanni a Teduccio (sponsorizzato da una fondazione privata, non dallo Stato o dalla Regione).
Per recuperare metalli dai rifiuti di apparecchiature elettriche, come fanno all’Enea a Roma: una scheda elettronica contiene oro, rame, argento e stagno.
Le terre rare si recuperano si recuperano negli hard disk dei nostri computer, anziché andare ad estrarle e trattarle dalla terra.
Servirebbero almeno cinque impianti idrometallurgici come quello dell’Enea per recuperare metalli preziosi ma, cosa ancora più importante, servono strutture distribuite sul territorio che raccolgono questi apparecchi elettronici, come hanno fatto a Portici con un esperimento purtroppo finito.

Questi apparecchi oggi rischiano di essere dispersi nell’ambiente: oltre alla perdita dei materiali, c’è anche un rischio ambientale.

C’è poi la plastica, che impiega 100 anni a biodegradarsi: a Brescia la riciclano, dando nuova vita a plastica gettata nei rifiuti, la plastica vergine si crea col petrolio, per ogni kg riciclato si evita di emettere 1,2 kg di co2.
In
Italia produciamo 6 tonnellate di plastica l’anno e ne ricicliamo solo 1: servirebbe creare una rete di raccolta nazionale per la plastica (e lo stesso per il recupero delle schede elettriche ed elettroniche), per dare una certezza agli impianti che fanno riciclo.

26 dicembre 2022

Le notti senza sonno di Gian Andrea Cerone


Venerdì 21 febbraio

Si muove con la forza elegante di un esercizio d’arte marziale. Una danza perfetta che tocca ogni cosa con accurata lievità. Tavolo, sedie, credenza. Movimenti armonici, ergonomia all’ennesima potenza. Pura estetica domestica. Poltrona, libreria, mensole. Un ninja, un monaco shàolín. Volteggia in una sorta di tranche operativa. Leva la polvere, spruzza, toglie la polvere.

No, non è la descrizione di un maestro di arti marziali, quella che compare nell’incipit del romanzo d’esordio di Gian Andrea Cerone: è una comune scena domestica, di una coppia milanese, lui sprofondato sulla poltrona ad ascoltare il telegiornale, lei invece nel pieno delle operazioni di pulizia. Tutto normale, se non che ci troviamo negli ultimi giorni del febbraio 2020, poco prima del lockdown anzi, nemmeno sapevamo cosa volesse dire quel termine. Sapevamo poco anche del virus, ma sapevamo che sarebbe arrivato anche da noi, sebbene non avessimo ancora capito quanto male ci avrebbe fatto.

La televisione è accesa. Dal primo telegiornale del mattino arrivano notizie concitate. Esperti, virologi, economisti, giornalisti e inviati duellano su tutto.
L’uomo davanti al televisore il male lo conosce bene: commissario Mario Mandelli, coniuge (e ancora innamorato) di Marisa Bonacina in Mandelli, lavora all’UACV, unità crimini violenti della Questura di Milano. Non sa, il commissario Mandelli che i suoi prossimi giorni saranno una lunga e pericolosa corsa contro il male, giorno e notte, in lunghe “notti senza sonno”.

Il lampeggiante del camioncino EnerCargo dell’Amsa illumina a intermittenza la facciata di Cascina Bellaria. Carlos è seduto alla guida.
Tocca a tre operatori dell’Amsa fare la prima scoperta del male: durante la raccolta dei rifiuti, presso il parco di Trenno, in un sacchetto dei rifiuti si imbattono in una mano, femminile per il colore delle unghie. E, come se l’arto amputato non fosse abbastanza, nello stesso sacchetto vengono fuori due bulbi oculari, espiantati dalla loro sede. Ad accompagnare il macabro quadretto, un mazzetto di fiori.

.. un mazzo di fiori tenuto insieme da un nastrino blu, sembrano margherite. Gialle e bianche

È il primo delitto di cui deve occuparsi Mandelli, assieme ai suoi colleghi dell’unità, sapendo che devono fare in fretta: quel ritrovamento non annuncia nulla di buono, significa che la fuori c’è corpo da trovare, che c’è un maniaco che si diverte a lasciare queste tracce, un segnale forse alla polizia. Che si deve stare attenti a non trascurare alcun dettaglio - e questo sarà compito della scientifica – e si deve stare attenti a che nulla trapeli con la stampa.
Mandelli sa che può contare su una squadra all’altezza: lui stesso è un poliziotto cresciuto coi vecchi metodi (e con la passione per i travestimenti, come vedremo nel corso del racconto), ma che sa apprezzare i prodigi della tecnologia e dell’analisi scientifica del crimine. Tanto lui assomiglia ad un Maigret meneghino (che come il più famoso collega parigino, deve trascurare la moglie facendogli venire tanti sensi di colpa), tanto più il suo braccio destro assomiglia ad un poliziottaccio da strada: l’ispettore Antonio Casalegno, detto Norris (come Chuck), un poliziotto d’azione, poco attendo alla forma e al rispetto delle gerarchie, tanto da essere stato mandato a Milano per punizione, dove però Mandelli l’ha messo sotto la sua ala protettiva.
Questo è uno Stone22, concordano Casalegno e Mandelli, secondo una classificazione dei delitti violenti del professor Michael Stone, famoso profiler: il peggior delitto violento in cui imbattersi.
Anche perché le voci che arrivano dall’alto sulla virus non fanno ben sperare: ci sarà da gestire la chiusura di intere aree del paese, con possibili tensioni che le forze dell’ordine dovranno gestire.

«Praticamente mi stai dicendo che dobbiamo dare la caccia a uno psicopatico che mozza le mani e strappa gli occhi alle vittime mentre un’epidemia mortale si sta diffondendo intorno a noi...»

Milano, la città che Mandelli osserva dalla carrozza del metrò, dal finestrino dell’auto di servizio, non è pronta per questa pandemia. Milano la città che corre, che non si ferma mai, dove tutti vanno di fretta. Milano uno spettacolo che Mandelli non si stanca mai di osservare, perché anche quello fa parte del suo mestiere di poliziotto.

Milano è un mondo dove le persone hanno imparato a nascondere il dolore, a vivere in un mondo virtuale, protetto, che tiene fuori i mostri e la violenza. In un mondo così, dove la sofferenza viene anestetizzata a qualunque costo, non riconosci più la sofferenza degli altri: “siamo tutti ciechi”, racconta a se stesso Mandelli, “se non vedi le persone che hanno bisogno, non scatta la solidarietà..”. Mandelli, il poliziotto filosofo.

E poi c’è la rapina in corso Vercelli.
Due uomini, arrivati in moto davanti l’abitazione del gioielliere Pierluigi Panizza, alta borghesia milanese, fanno irruzione nella sua casa, si fanno consegnare i codici della sua cassaforte e si portano via tutti i gioielli. E dopo uccidono con sei colpi di pistola, i primi tre sulla pancia per fare dolore, Panizza stesso. Un delitto e una rapina fatta da professionisti, freddi, lucidi, spietati, organizzati. Un delitto che costringe la squadra di Mandelli a cambiare priorità, temporaneamente e ad occuparsi del morto e della sua famiglia: Panizza aveva una figlia con cui i rapporti erano pessimi, specie dopo la morte della madre. Aveva ancora una gioielleria, che condivideva con un socio. Anche qui, ci sono tutte le piste da seguire, i dettagli della rapina, della scena del crimine, da non trascurare e poi c’è l’opinione pubblica da tranquillizzare, il morto era un nome che contava nella Milano bene.

Questi due casi occuperanno l’eterogenea squadra UACV della Questura meneghina: l’esperto Mandelli e l’impetuoso, anche impulsivo, Mandelli, alle prese con una relazione che lo sta mettendo in difficoltà. La “gigante” Marica Ambrosio, campionessa di giavelotto prima di entrare in polizia, l’esperto di informatica “Mac” Zilli. Il vulcanico anatomopatologo Bencivenni, un toscanaccio capace di fare battute anche nella sala autoptica.
Un’indagine che durerà poco più di una settimana,
dal 22 al 28 febbraio, quando entrambi i casi verranno chiusi, dopo giornate intense di caccia all’uomo e di “notti senza sonno”, andando a perdifiato per le vie di Milano, per fermare questo assassino che lascia queste tracce macabre, apposta perché vengano ritrovare dai poliziotti. Un’indagine che lascerà loro delle cicatrici, perché “il male lascia sempre un’eredità di dolore”, anche quando viene sconfitto. Sono cicatrici sul corpo a volte, per un pallottola, per un colpo di coltello. Ma ci sono altre cicatrici, quelle dentro di noi, che forse solo il tempo può cercare di rimarginare. O forse nemmeno lui.

Lo impareranno Mandelli, ancora innamorato di Isa nonostante le assenze, nonostante la vita difficile. E lo imparerà anche Casalegno, scapolo, con tante relazioni alle spalle, ma alla ricerca di una solidità nella vita.

Alla presentazione nel corso della rassegna letteraria La passione del delitto, a Monticello Brianza, Gian Andrea Cerone ha spiegato che volevo raccontare il male in tutte le sue forme: il male del serial killer, il mostro che uccide per un suo distorto desiderio di giustizia, di riportare l’ordine nel mondo. Poi il male che nasce dentro una famiglia, per le meschinità, le piccole crudeltà, i sotterfugi, tra persone dello stesso sangue. Un male che lascia dentro un segno, anche se alla fine arresti i cattivi:

Alcuni erano cattivi davvero, avidi e senza scrupoli. Altri lo sono diventati per colpa di quello che avevano subito da piccoli. Hanno restituito al mondo lo stesso male che avevano ricevuto...

E infine il male della criminalità organizzata, industria del crimine, ben radicata a Milano e nella Brianza, con cui i poliziotti devono avere a che fare, sporcandosi anche le mani.
Un male che è pericolosamente vicino a noi.

Non fatevi spaventare dalla mole del libro, Notti senza sonno è un noir che scorre veloce, capitolo dopo capitolo: ci sono le indagini, l’azione, la caccia all’uomo, ma c’è spazio anche per le riflessioni dei personaggi del romanzo, molto umani e poco stereotipati. C’è Milano sullo sfondo, una città che Mandelli ama a modo suo, nel bene e nel male. Tanti passaggi della storia mi hanno riportato in mente un altro celebre investigatore milanese, Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco:

Milano è un concetto che s’innerva sotto pelle e induce una dipendenza subdola, quasi inconsapevole. Se sei di passaggio, ne vedi soltanto i pregi. Le luci, le idee, le prospettive. Se invece ci abiti, giorno dopo giorno capisci che è soprattutto permalosa, per sopravviverle devi imparare ad amare anche i suoi difetti, prendere o lasciare.

La scheda del libro sul sito di Guanda Editore, il pdf col primo capitolo.

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Anteprima inchieste di Report – la guerra in Ucraina, gli impatti a Mosca e nelle città

Report non si ferma nemmeno nelle vacanze di Natale (per chi le fa): d’altronde nemmeno la guerra in Ucraina, quanti ne stanno approfittando speculando sul gas, sulle materie prime e sulle scommesse. Ma forse da questa guerra potremmo imparare a come gestire (meglio) le economie circolari nelle nostre città per risparmiare sui consumi e sui rifiuti.

La exit strategy dai rincari di energie

Non c’è solo un costo in termini di vite umane: anche noi italiani, pur essendo ufficialmente in guerra, paghiamo un prezzo. La exit strategy – racconterà il visionario servizio di Michele Buono potrebbe trovarsi nelle “miniere” nascoste nelle nostre città: possiamo rimettere in circolo metalli preziosi e ridurre la co2 nell’ambiente. La nuova frontiera dell’economia circolare è questa, sta a noi non perdere anche questa opportunità, perché le città le abbiamo create noi, spiega il giornalista di Report nel servizio, abbiamo smesso di essere branco, ci siamo aggregati e abbiamo creato ricchezza, conoscenza, diritti e mestieri nuovi. Le città prendono le risorse dal pianeta, energia e cibo, e restituiscono scarti e inquinanti: allora sono un problema le città? No perché la soluzione è nella dimensione urbana. Ma la città contiene due miniere che non si esauriscono: gli scarti che produce e il sapere per dargli valore e risolvere i problemi. Report è andata in Umbria, a Foligno: non ci sono giacimenti di gas qui, eppure si produce metano.
“La casalinga di Foligno qui non si rende conto ” spiega a Report Davide Ministro responsabile impianto Asja Ambiente “che cucina gli spaghetti di oggi con quello che ha buttato ieri e si chiude il cerchio.” I rifiuti sono la ricchezza e il cerchio si chiude qui in uno stabilimento per la produzione del Biometano che produce circa 4ml di biometano l’anno, il che vuol dire far riscaldare e far cucinare circa 3000 famiglie o far muovere circa 600 automobili.
In Italia abbiamo 15 impianti come questo che producono più o meno 100ml di metri cubi di biometano l’anno, meno di un impianto a regione, potremmo fare di più, sfruttando tutte le miniere urbane. E sfruttando anche gli scarti degli impianti di energia elettrica come fanno all’Iren nella centrale di cogenerazione di Torino nord: gli scarti di calore sono riutilizzati per produrre altro calore da immettere nella rete di teleriscaldamento e teleriscaldare circa il 70% delle case della città di Torino. Senza questo riutilizzo, sarebbe calore sprecato nell’atmosfera

La scheda del servizio: MINIERE URBANE di Michele Buono, collaborazione Edoardo Garibaldi

I prezzi delle materie prime aumentano e il cambio climatico è insostenibile. Eppure, noi abbiamo delle miniere in casa: le città. Da dove possiamo estrarre e rimettere in circolo metalli preziosi e plastiche, dare valore ai rifiuti trasformandoli in metano, producendo un gas di origine rinnovabile. La dimensione urbana contiene la miniera della conoscenza che produce ricerca e trasferimento di tecnologie per ridurre Co2 e carburanti fossili. Osservazioni satellitari, estrazione di dati digitali, per misurare la febbre dei territori fino a creare gemelli digitali delle città per provare le strategie di intervento. La frontiera più avanzata dell’economia circolare e della conoscenza.

Come si vive la guerra a Mosca

Le telecamere di Report sono andare a Mosca per vedere che aria tira, come vivono le sanzioni, come vivono la guerra. Non è fare propaganda per un regime (a cui tra l’altro fino a ieri eravamo molto legati) andare ad ascoltare le persone, i giovani, gli anziani, 145 ml di persone che vedono la guerra di invasione dall’altra parte del fronte. Il servizio di Manuele Bonaccorsi mostrerà le immagini dei soldati russi che partono per il fronte, silenziosamente, volenti o nolenti, nelle stazioni dei treni, nelle stazioni di servizio. Alcuni di loro sono professionisti, altri sono volontari o di leva eppure sanno cosa li aspetta. Alla domanda del giornalista, rispondono che stanno andando a difendere la patria, “siamo russi, non sappiamo mai dove stiamo andando .. non preoccupatevi ci sarà la pace ovunque, la pace russa.”
E chi la vincerà questa guerra? “Non la vincerà nessuno” è la risposta onesta “ci sono sempre perdite in guerra, perdite molto grandi ..”
E cosa pensano i soldati russi della morte dei civili: “vi dico che questi sono i nostri fratelli ”
Strano modo di rispettare i fratelli.
Il servizio si sposterà poi su Mosca: nonostante la mobilitazione, qui a Mosca la guerra sembra lontana, gli obiettivi fissati dal governo per la mobilitazione, a Mosca come a San Pietroburgo, non sono stati molto alti. Studenti universitari e lavoratori professionalizzati non ricevono le lettere di precetto e la sera nei locali tra i giovani tutto appare come se nulla fosse successo.
“Sto con la Russia” risponde un ragazzo al giornalista “Credo che sia necessario pagare il debito col paese che ti ha dato tutto, l’educazione, l’istruzione. Putin ha fatto un ottimo lavoro per il nostro paese, auguri per il suo compleanno.”
Un altro ragazzo si augura di non essere richiamato dall’esercito, va bene il riconoscimento per il paese ma fino ad un certo punto: “mi piace questa guerra? No. Se voglio partecipare? No, ho parenti in Ucraina. Se era necessario? Non lo so, non prendo decisioni, purtroppo.”
“E’ un disastro totale a dire il vero” racconta una ragazza “ma resisto, sostengo il mio paese e spero che la guerra finisca.”
Non a tutti piace la guerra: “Non voglio andare in guerra perché le persone muoiono sia da quella parte che da questa” dice un altro giovane “La questione con l’Ucraina andrebbe risolta alla russa, a cazzotti. Bastano 20 o 30 persone, senza esercito” aggiunge un altro.


A Mosca il 30 settembre scorso mentre nel palazzo presidenziale Putin proclamava l’annessione delle 4 regioni ucraine (a seguito del referendum farsa), nella piazza rossa si raccolgono i suoi sostenitori: un fiume di persone si accalca sotto le mura del Cremlino, davanti a decine di schermi giganti, ad ascoltare la voce della propaganda. “Diversi fratelli separati dal nostro paese per 30 anni stanno tornando in Russia, finalmente siamo insieme, siamo la Russia..”
In piazza le persone intervistate da Report sono felici di questa annessione, esprimono disappunto e stupore per le sanzioni contro la Russia, “siamo stati calunniati”.

Il messaggio è semplice: quello è territorio russo, che appartiene a noi e poi viva Putin che ha risollevato il paese, dopo il declino iniziato con Gorbaciov. Tanto patriottismo, che fa sempre bene in Russia (coi ricordi della seconda guerra mondiale) come negli altri paesi a trazione sovranista.
Patria, libertà, Putin – sono le parole gridate dalle persone in piazza: “la verità è con noi, Dio è con noi (ma non erano i nazisti ad avere questo motto)” dice un’altra voce dai maxischermi. La propaganda arriva fin nelle scuole: come aveva raccontato nella scorsa stagione un servizio di Presadiretta, Putin sta formando una nuova generazione di russi a cui vengono raccontate le gesta dei grandi della patria. In piazza è presente anche un’insegnante che alle telecamere dice “crediamo che il nostro presidente risolverà tutto e lo sosteniamo”.

E le proteste contro la guerra che ci sono state a Mosca? “Non sapevo che ci fossero state, forse sono traditori.”
Chi non sostiene Putin, chi non sostiene questa guerra, è un traditore della patria.

La scheda del servizio: LA BATTAGLIA DI MOSCA di Manuele Bonaccorsi

Collaborazione Federico Marconi

Le telecamere di Report sono andate a Mosca, per provare a capire se il potere di Putin, con il difficile andamento della guerra in Ucraina e le durissime sanzioni decise dai Paesi Occidentali, è davvero in crisi. Report ha solcato le piazze delle manifestazioni di sostegno alla guerra organizzate dal regime, ha intervistato politici e intellettuali e ha parlato con la gente comune, coi giovani e coi militari, con avvocati per i diritti umani e dissidenti, proprio nelle settimane in cui la mobilitazione parziale invocata dal presidente russo era al suo culmine.

Con le ritirate di questo autunno dalla regione di Kharkov e da Kherson, nell’establishment moscovita cresce l’influenza dei falchi, che chiedono una ulteriore escalation militare. L’opinione pubblica, dove è ancora forte la retorica nazionalista, forgiata anche da notissimi influencer pro guerra, si schiera passivamente col presidente. I più moderati sono messi all’angolo, per il fallimento delle ipotesi di trattativa legate agli accordi di Minsk. Mentre l’opposizione liberale è ormai ridotta ai minimi termini, falciata da multe, fermi e arresti, ma specialmente dalla fuga di oltre 100mila cittadini russi, riparati all’estero per sottrarsi alle cartoline di precetto.

Le sanzioni economiche non mordono. L’economia russa regge, e non è difficile trovare beni alimentari e di lusso provenienti dall’Europa. Ma la vera sfida, per l’industria, è fare a meno delle tecnologie occidentali.

Una scommessa non si rifiuta mai


A Kiev la vita non si è mai fermata nonostante la guerra e le bombe russe che cadono in pieno centro colpendo obiettivi civili e persino un parco giochi. Il popolo ucraino – racconta il servizio di Lorenzo Vendemiale, allena la sua resilienza anche col calcio: interrotto a febbraio a causa dell’invasione, il campionato ucraino è ripreso in autunno, per desiderio per presidente Zelenky – racconta a Report il vicepresidente della Federcalcio ucraina – questo serviva “a ridare morale al nostro popolo”.

Ma parlare di normalità è impossibile: le partite sono giocate quasi tutte a Kiev, gli stadi sono blindati perché riempirli di spettatori sarebbe troppo pericoloso, ogni impianto deve essere dotato di un rifugio contro le bombe.
“Giocare in queste condizioni è molto difficile” spiega l’allenatore del Kryvbas “siamo lontani da casa e senza i nostri tifosi, gli allenamenti vengono continuamente interrotti dagli allarmi antiaereo. Dopo le gare anziché riposare siamo costretti a lunghe trasferte in pullman, ma siamo comunque dei privilegiati.”
A parlare così è Jurij Vernydub che un anno fa allenava in Moldavia ed era diventato famoso per aver battuto il Real Madrid: quando è scoppiata la guerra non ci ha pensato un secondo a mollare tutto: “dovevo tornare, il resto non aveva senso. Nei primi mesi ho combattuto con la 152 esima divisione, ora sono di nuovo in panchina, spero di regalare un sorriso ai tifosi che sono al fronte.”

Ma il cuore del servizio riguarda la 1XBet società di scommesse online: sul Fatto Quotidiano del 24 dicembre è uscita una anticipazione del servizio

Mercoledì 4 gennaio, quando la Serie A ripartirà e i fari saranno puntati su Inter-Napoli che può riaprire il campionato, i tifosi che guarderanno il match dall’estero potranno notare a bordocampo una piccola scritta cui forse non hanno mai fatto caso, ma che procura al nostro calcio un bel po’ di soldi e nemmeno un pizzico di disagio: 1XBet, noto (e chiacchierato) bookmaker online. Uno degli sponsor “occulti” (nel senso che nel nostro Paese non è visibile), ennesima ipocrisia del pallone italiano, che da una parte manifesta solidarietà all’Ucraina, dall’altra fa pubblicità ad aziende con legami più o meno diretti con la Russia, nonostante il decreto Dignità vieti gli spot del gioco d’azzardo: solo in Italia, però, all’estero si può. È uno degli argomenti della puntata di Report in onda su Rai3 lunedì 26 dicembre.

L’inchiesta ricostruisce chi si nasconde dietro 1XBet, colosso da un milione di scommettitori in tutto il mondo, di cui non è mai stata chiarita la reale proprietà. Quelli che secondo un’inchiesta giudiziaria sarebbero i beneficiari – tre imprenditori russi a Cipro, Roman Semiokhin, Dmitri Kazorin e Sergey Karshkov – lo paragonano al “Mc Donald’s delle scommesse”: una specie di franchise, dato in gestione in Paesi diversi ad aziende diverse. In realtà somiglia più a una matrioska: un insieme di scatole societarie che si snodano tra Curacao, paradiso delle scommesse online dove prende la licenza, e Cipro, sede dei servizi operativi del gruppo.

La scheda del servizio: LA MATRIOSKA DELLE SCOMMESSE di Lorenzo Vendemiale

La squadra di Report è stata a Kyiv nei giorni dell’attacco russo al centro della Capitale per raccontare la resistenza del calcio ucraino sotto le bombe e chi prova a speculare. L'inchiesta fa luce su 1XBet, colosso delle scommesse online con origini russe, che ha provato ad aprire un business in Ucraina in piena guerra. Il misterioso bookmaker intanto è riuscito a sbarcare anche nel nostro Paese, grazie a un sito con dominio italiano, ma già da anni si era infiltrato in Italia attraverso il calcio. Report ha scoperto i dettagli dell’accordo che lega la Serie A a 1XBet. Mentre alcuni club si fanno sponsorizzare anche da Liga Stavok, bookmaker ufficiale di Mosca: l’inchiesta svela quali sono le squadre che incassano soldi da questo contratto.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

25 dicembre 2022

Pare che in questo paese.. (buon Natale)

Pare che in questo paese non si possa fare impresa senza dover fare un pochetto di nero. Perché mica possiamo tracciare tutti i pagamenti, cos'è questo stato impiccione dei nostri affari?

E pare anche che oltre al nero, non si possa fare sviluppo senza devastare l'ambiente, cementificare montagne e fiumi. E piangere lacrime di coccodrillo dopo le sciagure che costano morti.

Che non si possa creare lavoro che non sia povero, che non sia sottopagato, sfruttando le persone. Anzi, ti dicono, dovrebbe essere il lavoratore a pagare il padrone.

Pare anche che in questo paese non si possano fare le indagini contro la corruzione, specie quella dei colletti bianchi, perché è un abominio. E nemmeno la lotta alla mafia che deve essere combattuta coi vecchi metodi. Forse perché, come era già stato detto, dobbiamo iniziare a convivere con le mafie.

Oltre a questo, pare che le forze dell'ordine non possano fare il loro lavoro se non ricorrendo ad un po' di tortura. L'operatore non deve sentirsi bloccato dalle leggi che gli impediscono di fare quello che deve fare (non lo dico io, la Meloni).

E i giovani? Diversamente dal resto del mondo civile, pare che qui da noi se ti laurei, se studi, se ti impegni non devi pretendere un lavoro in linea con le tue competenze. Devi adattarti. Come cameriere, come raccoglitore di pomodori. O al limite, se proprio, come sottosegretario al lavoro.

Strano paese questo, che ha votato in maggioranza relativa per un partito che oggi governa che sta portando il paese in un viaggio indietro nel tempo. 
Tutti cattolici, ma anche a favore delle armi (ancora non hanno ritirato fuori la legittima difesa ma dategli tempo), perché si vis pacem ..

Sarà la passione per il presepe, per le cose belle di una volta, quando qui era tutta campagna, i treni arrivavano in orario ed era tutto ordine e disciplina. E nessuno disturbava chi governa.

Oggi, dovesse ridiscendere a salvare il mondo, Gesù e famiglia si beccherebbero il foglio di via. Strano paese: tutti cattolici, tutti difensori dei valori cristiani, tutti pro vita .. avranno mai letto il Vangelo (quel libro in cui la vita del bambinello costituisce solo una minima parte, leggetevi l'articolo di Michela Murgia). 

20 dicembre 2022

La giustizia non è una pallottola di Fulvio Ervas


Metà giugno

Una notizia strepitosa era giunta alla Questura di Treviso. Una di quelle notizie che fanno tremare le valvole cardiache anche ai poliziotti più esperti. Dapprima avevano pensato ad un errore di battitura, un numero 12 che poteva sembrare la grandezza di un'epurazione, perché il contenuto della notizia riguardava l'arrivo di nuovi agenti e dodici nuovi colleghi erano davvero troppi per una provincia non proprio capofila della criminalità, e rischiava, semmai, di rivelarsi un giudizio d'inadeguatezza, di scarsa efficienza.

Non sono tanti gli scrittori che hanno saputo raccontare l’altro lato del Veneto, la regione benestante e placida, dove la criminalità sembra non esserci, dove le dolci colline, i filari di viti a produrre il famoso prosecco fanno pensare più ad un piccolo paradiso in terra che non ad una terra violentata e saccheggiata. C’è riuscito Massimo Carlotto, con le storie dell’Alligatore, l’investigatore privato che ha raccontato il Veneto patria di una criminalità di confine, che qui trova terreno fertile perché c’è il denaro, c’è la voglia di spenderlo.
E c’è riuscito, secondo me, anche Fulvio Ervas col suo ispettore Stucky, padre veneziano e madre iraniana, un "foresto", che col suo lavoro nella marca trevigiana ci racconta anche lui l’altro Veneto. Quello che viene fuori quando le bollicine nel bicchiere sono tutte svanite.
Lo incontriamo subito in questo racconto (nono e forse ultimo della serie), quando si scontra con lo zio Cyrus, scappato dall’Iran dopo la rivoluzione contro lo Scià: qualcuno ha calpestato il suo orto, forse un ladro, dobbiamo armarci per difenderci. Lo dice proprio al nipote, poliziotto nella Questura di Treviso.

«Ma da dove ti viene tutta questa smania?» lo interruppe Stucky.

«Non li leggi i giornali? Non vedi quanti, di fronte alla delinquenza, si fanno giustizia da soli e sono addirittura portati in palmo di mano.»

La giustizia non è una pallottola, mormorò Stucky e poi lo ripetè a voce alta, guardando lo zio dritto negli occhi.

Vedeva la paura nel vecchio combattente, del nomade, dell'espatriato: anche questa corazzata cedeva alle rughe dell'esistenza.

La giustizia non è una pallottola, non è prendersi un’arma e sparare a qualunque estraneo si avvicini a casa. La giustizia è fatta da quelle leggi che comminano la punizione ai torti subiti, che cercano di riparare ad un danno senza voler creare un danno maggiore.
Strano concetto della giustizia, o forse della vendetta, in quel Veneto reduce, tra le altre cose, dallo scandalo del Mose, dall’inquinamento del PFAS o dal crac delle banche popolari.

Perché non capiva le proporzioni. Potevi farti fregare migliaia di euro da una banca, che ti concedeva un prestito in cambio delle sue azioni, sfruttando l'attrazione erotica delle baciate, ma se qualcuno ti entra nell'orto, se qualcuno osa rubarti il tagliaerba o la motosega, allora spiani il Magnum calibro12 a pompa.
Il nostro ispettore Stucky è un poliziotto strano: non sposato ma nemmeno solitario, uno zio e due amiche che vivono nello stesso vicolo. L’autore non ci racconta molto di lui, di com’è fisicamente, non ci parla del suo passato (e questo rende un pochetto ostico avvicinarsi per la prima volta al personaggio). Ma Stucky è una persona che ama la sua città, tranquilla, dove ci si può ancora permettere il lusso di conoscersi, dove non c’è la pressione per quei reati che fanno rumore. Ama la sua città e ama il suo lavoro, il voler riparare ai torti e assicurare alla giustizia gli assassini, che considera come un virus contro la comunità.

«Luca, ogni volta che sono di fronte ad un delitto mi motiva l'idea che sto togliendo dalla comunità umana una mutazione tossica, una particella virale pericolosa. Ho scelto questa professione spinto dall'avversione per i ladri di vita»

Un poliziotto strano dunque. Ma è strano anche il caso che gli si presenta: un imprenditore famoso, Alessandro Giustinian, denuncia un tentato furto nella sua villa in collina. La guardia armata che sorveglia la villa ha visto dei ladri allontanarsi e ha esploso dei colpi.
Troppo poco per avviare un’indagine, ma abbastanza per far nascere una certa simpatia per l’ispettore e questo imprenditore colto, uno che ha voluto circondarsi di belle cose, come libri antichi, come quella affascinante signora di colore che ospita nella villa, Nina si chiama e che suona il pianoforte per lui.
Dopo qualche giorno però il morto, la mutazione tossica dentro la società, arriva: la guardia giurata è stata uccisa da un colpo di pistola. Ad ucciderla, dopo un litigio causato proprio da Nina, è stato il signor Giustinian. Un movente, anche se poco solido, una confessione.
Ma Stucky non è convinto e riesce a far sorgere dei dubbi anche al suo superiore, il commissario Montini che incarna il prototipo del poliziotto meno idealista.
Bisogna scavare nella vita della guardia, che nasconde qualche altarino dentro la sua abitazione. E anche nel passato dell’imprenditore e della sua amica, o compagna forse, Nina Bosh. Bella e misteriosa.

Ma ci sono altre questioni che attirano l’attenzione di Stucky: i frati della chiesa di San Francesco iniziano a ricevere delle strane lettere, dove li si minaccia di venirsi a prendere le tombe di Francesca Petrarca e Pietro Alighieri, i figli di due dei maggiori poeti italiani.
Chi c’è dietro questa minaccia? Cosa vogliono ottenere con queste lettere? Mica è facile portarsi via una tomba..
Ancora più strano la scoperta, in campi di frumento fuori città, di spaventapasseri issati su pali e sporchi di sangue. Sangue di pollo inizialmente.
Una setta? Un messaggio per qualcuno? O forse solo una bischerata?

«.. siamo di fronte a sollecitazioni per spingerci ad indagare su qualcosa. Le tombe sono un fattore di pressione. Ma gli spaventapasseri sporchi di sangue evocano un crimine da qualche parte sotto il frumento. Qualcosa che ha a che vedere con un figlio...»
Ovviamente ha ragione l’ispettore Stucky a voler andare oltre la prima impressione, su tutti e tre i casi, il morto, le minacce ai frati e gli strani spaventapasseri, che sono un vero e proprio messaggio lanciato agli investigatori affinché facciano il loro mestiere, indagare, svelare i misteri, per far sì che i torti siano riparati e si dia giustizia. Anche a qualche morto del passato, fatto passare per un morto accidentale, perché “una morte non chiarita è essa stessa un delitto”.

Al centro del romanzo c’è lo scontro tra due visioni imprenditoriali, quella delle persone come Giustinian che lasciano qualcosa al territorio dove sono cresciuti, una persona che si è barricato dentro la sua villa circondato da bellezze, che si fa difendere da una guardia giurata che però lo coinvolge in un brutta storia. Dall'altra parte un altro imprenditore, il cui legame con Giustinian verrà fuori proprio alla fine del racconto, che si è mangiato il territorio, letteralmente mangiato per le cave, che sono la base per il settore delle costruzioni.
È proprio in una di queste cave tanti anni fa è avvenuta una di quelle “morti non chiarite” su cui Stucky, con l’aiuto dei colleghi, cercherà di far luce, riaprendo una vecchia indagine di 13 anni che tocca uno di questi imprenditori - squali, quelli che pensano di poter mangiare e cementificare il loro territorio.

Del legame tra l'ambiente e il territorio dove siamo nati, che ci ha fatto diventare quello che siamo oggi, ne ha parlato l’autore nel corso della sua presentazione a La Passione per il delitto, la rassegna di letteratura gialla a Monticello Brianza, dove è stato ospite quest’anno. Ne parla anche nella presentazione fatta sul sito di Rai cultura: “il territorio è la nave su cui navighiamo sul mare della vita: se si buca, se si danneggia la nave, si va a fondo, dobbiamo rispettare il territorio per rispettare il futuro”.

Uno dei passaggi più importanti del libro:

Nel Veneto succede di tutto. Qui puoi dare da bere i PFAS ai bambini e che tanto semo forti, qui puoi sfruttare i tuoi lavoratori pakistani che tanto chi se ne frega dei pakistani che non sappiamo nemmeno dov'è il Pakistan, e puoi farti fregare dalla tua banca sotto casa che tanto i soldi non ti mancano e mica l'hanno fatto apposta, come se uno sorridesse allo stupratore, puoi seppellire sotto le strade tutta la merda che vuoi che tanto qua siamo seri e non ti controlla nessuno e quando non la seppellisci riempi un vecchio capannone. E poi ci dai fuoco. Qua semo el Veneto, no se fermemo mai, caro poissiotto...

La scheda del libro sul sito di Marcos Y Marcos

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Report – la pandemia silenziosa, i rincari del gas e le auto a guida autonoma

Mentre il covid guadagnava le prime pagine sui giornali nel mondo c’era un’altra pandemia che causava 1,2 ml di morti e che si espandeva in modo silenzioso. Pandemia silenziosa che poi si è combinata col covid.
Poi un servizio sulle auto che si guidano da sole.
Nell’anteprima un servizio sul gas, sugli aumenti causati dalla guerra e dalla speculazione, di chi non riesce a pagare le bollette e delle forme di solidarietà

LA GUERRA DEL GAS di Edoardo Garibaldi e Walter Molino, con la collaborazione Goffredo De Pascale

Il gas costa e così le persone portano i cibi da cuocere nel forno del signor Claudio, perché tanto è sempre accesso ed è a disposizione di tutti.
Il costo della guerra in Ucraina lo stiamo pagando anche noi, privati e aziende: così le persone si aiutano l’un contro l’altro come a Bracciano, la solidarietà aiuta a combattere il caso gas.
Le grandi aziende oggi temono che le persone non possano più pagare le bollette e così chiedono ai fornitori di pagare prima. E se uno non riesce a pagare? Si rischia di finire sulle rete di emergenza.
La guerra in Ucraina è passata anche attraverso il sabotaggio del North Stream II, un attacco ventilato da Biden a febbraio, un episodio su cui oggi c’è un rimpallo di responsabilità. La Germania oggi dipende dal gas liquefatto fornito anche dagli Stati Uniti.
La crisi del ga è iniziata prima della guerra, racconta Matteo Villa dell’Ispi: Gazprom prima dell’invasione ha ridotto i volumi per far crescere il prezzo.
Solo dopo la guerra abbiamo diversificato le fonti del gas, eravamo arrivati a dipendere dalla Russia per quei 30 miliardi di gas (oggi siamo a 8 miliardi di metri cubi): una dipendenza causata dalle scelte dei governi passati tra cui quelli Berlusconi.

Rischiamo poi che il gas che arriva ancora venga bloccato alla frontiera dall’Austria ad esempio.
L’Europa rischia il caos: al Tarvisio deve continuare ad arrivare il gas russo per evitare altri problemi ma al momento il primo effetto è l’aumento delle bollette.

Prima della guerra noi avevamo una morosità media del 15%, al 20% massima” racconta a Report Francesco Burrelli – presidente nazionale dell’associazione amministratori di condominio “oggi con la % di morosità siamo intorno al 60-70%”.
Ma non è solo Milano, oggi il mercato è strano, prima consumo e poi pago, dunque il prezzo di quanto ho consumato lo saprò solo alla fine.
Report è andata a Milano, perché anche nella capitale economica chi amministra i condomini con centinaia di famiglie è in trincea fin dalla scorsa estate: “la situazione a Milano è drammatica” racconta un’amministratrice al giornalista “e secondo me i condomini non hanno ancora la percezione di quello che sarà un lungo inverno. Io ho avuto gestioni 2020/21 in cui si spendevano 25mila euro di gas e mi hanno preventivato per la stagione 2022/23 112mila euro. Soltanto a me, alla fine del mese di agosto hanno chiuso un paio di contatori di acqua calda centralizzata .. un condominio da 70 famiglie, un altro condominio da 30 famiglie, bambini piccoli, persone anziane.”
Anche nel cuore di Milano, nel quadrilatero della moda ci sono situazioni di morosità: “è un problema che riguarda tutti, chi ha fatto un investimento, acquisiscono diversi immobili per poi metterli a reddito ..”

All’amministratrice arrivano messaggi di gente arrabbiata che nel 2022 ha dovuto spendere 500 euro in più di gas per il riscaldamento.

A Nettuno, provincia di Roma in una palazzina di edilizia popolare l’Eni ha staccato la luce negli spazi comuni: l’Ater non ha pagato la bolletta e così è stata staccata la luce nelle scale.
Secondo il presidente dell’associazione degli amministratori almeno il 20% delle palazzine potrebbe subire distacchi: il mercato oggi pretende forti garanzie dai fornitori, gli importatori richiedono ai resellers verso gli utenti finali una fideiussione per garantire un eventuale aumento dei prezzi.
A Civita Castellana, nel distretto della ceramica sanitaria, una cinquantina di aziende stanno stringendo i denti per andare avanti, le bollette sono salite da 20mila a 110mila euro (il fornitore era Eni, che aveva chiesto una fideiussione per poter continuare l’erogazione del servizio).
Cosa succede se un fornitore non riesce a pagare Eni o Snam? Si rischia di finire nel sistema del fornitore di ultima istanza – FUI, un ente che ha preso il posto dello Stato con la liberalizzazione del mercato.
Oggi il FUI, una rete di emergenza, non è in grado di garantire un servizio a tutti, ma a che prezzo?
Arera, l’ente regolatore, potrebbe regolare il mercato? Il direttore Massimo Ricci ha spiegato che oggi le bollette arrivano ogni mese per essere consapevole dei consumi.
Solo oggi l’Europa (dopo 9 mesi) ha trovato un accordo sul price cap, che scatta dopo tre giorni di tetto massimo nel TTF di Amsterdam.
Ma come siamo messi sullo stoccaggio del gas? Potremmo dover intaccare le nostre riserve, per la prima volta.
Le grandi compagnie continuano a staccare dividendi, mentre a noi aumentano le bollette.
Il problema è che noi abbiamo venduto il gas in eccesso verso la Germania che ce lo pagava bene e ne aveva bisogno: sono le stesse aziende del gas che continuano a fare profitti, senza preoccuparsi dei problemi degli Stati.
Gli utili record delle compagnie energetiche sono un dato strutturale, anche in Italia: il gas russo importato è indicizzato al valore del petrolio, una scommessa che ha fatto fare extraprofitti alle aziende.
I bilanci delle compagnie italiane, da Hera a Eni sono cresciuti ma non siamo riusciti a tassare i loro extra profitti, ai tempi del governo Draghi per un problema della legge.
Le imprese si sono rivolte al TAR per non pagare, ma gli è andata male: vedremo se oggi il governo Meloni riuscirà a prendere altri soldi da queste aziende, al momento hanno versato allo stato solo 2 ml di euro, in Italia, mentre hanno guadagnato 200 miliardi di euro.

LA PANDEMIA SILENZIOSA di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella, con la collaborazione di Norma Ferrara

Mentre la pandemia del covid riempiva la pagine dei giornali, un’altra uccideva 1,2 ml di persona: era la pandemia dei batteri antibiotico-resistenti che, ad un certo punto, si è incrociata col covid.

Il servizio di Valesini e Ciccolella comincia con la vicenda dell’ex carabiniere Pasquale Letizia, ricoverato per Covid nell’ospedale di Camposampiero nel novembre 2020: viene “sovrainfettato” da sei- sette batteri, in un mese di ricovero nel reparto di ospedale dove era ricoverato , che lo portano alla morte. Morto per covid per una polmonite, sta scritto nel referto, e anche per shock settico: ma trovare le cause è complicato, nelle 400 e passa pagine lasciate al figlio dalla struttura ospedaliera. Nella pagine del referto lasciato dall’ospedale è presente anche un tampone negativo, dunque il covid era l’ultimo dei problemi, lo ha indebolito a tal punto che poi i batteri hanno fatto il resto. Il signor Letizia è morto per covid, così dice il rapporto dell’ospedale all’Istat, ma il dubbio, che nasce da questa storia, è che se abbiamo avuto numeri così alti per il covid è perché la pandemia si è incrociata con i superbatteri.

Elena Tacconelli, direttrice dell’ASL Roma racconta che è calata l’attenzione alla trasmissione delle infezioni ospedaliere, “perché il medico era bardato, ma i pazienti erano confinati anche in stanze con un piccolissimo spazio l’uno dall’altro”. Si sono rafforzati solo i protocolli per la trasmissione del virus per via aerea, “ma quelli che più ci preoccupano per l’antibiotico- resistenza sono quelli da contatto”. Ogni medico avrebbe dovuto cambiare la tuta da astronauta ad ogni paziente, una cosa impensabile ad inizio pandemia.

È la tempesta perfetta – racconta il giornalista di Report – si sommano due pandemie, quella del covid e quella sommersa causata dai batteri antibiotico-resistenti per la quale l’Italia detiene il record di decessi in Europa, con 15 mila morti l’anno, secondo le stime ufficiali, ma sono sicuramente di più.
All’ospedale di Terni hanno messo a confronto i numeri dei batteri prima e dopo il Covid: prima della pandemia i numeri erano del 5-6%
dei casi l’anno (di colonizzazione dei batteri), col covid sono passati al 50%, perché – come ha spiegato un altro medico della struttura di Lipsia – i pazienti col covid stavano in ospedale più a lungo e la degenza si complica se nell’ospedale c’è un problema di resistenza agli antibiotici.
I medici dovevano spronare e muovere i pazienti, il paziente pronato aveva il doppio della possibilità di colonizzare i batteri rispetto ad un paziente non pronato.

In Italia non si sono fatte autopsie sui morti per Covid, ora l’ha anche confermato l’Istituto Superiore della Sanità, che ha mandato a Report un rapporto che potrebbe riscrivere la storia della pandemia in Italia. Su un campione di 157 pazienti morti con Covid e batteri tra il 2020 e il 2021 ben l’88% aveva delle infezioni batteriche dopo il ricovero in ospedale, con punte del 95% di resistenza agli antibiotici. Erano infezioni incurabili e adesso arrivano le prime conferme ufficiali: lo conferma Claudio D’Amario, direttore generale della prevenzione del ministero della salute fino al 2020.
Un alto indice di morti legato ai batteri dunque: dovremo riscrivere la storia della pandemia, mettendo assieme tutti i fattori, il personale non formato, pazienti lasciati a pancia in giù e manipolati da medici che non si cambiavano i camici. Dovremmo andare a vedere dentro ogni cartella clinica, secondo Report il 40% dei morti per Covid potrebbe essere morto per la proliferazione dei batteri.

Gli antibiotici hanno permesso di curarci dalle infezioni dei batteri, ma con la proliferazione di questi abbiamo rotto un equilibrio, anche nella natura.

Al laboratorio di microbiologia di Rimini arrivano i campioni dei pazienti ricoverati dell’Azienda Sanitaria Romagna, sono oltre 250mila piastrine analizzate in un anno.
Un medico del laboratorio mostra ai giornalisti un campione contenente una colonia di enterococco, che nel corso degli anni ha “imparato” a diventare resistente agli antibiotici: il direttore del laboratorio parla di una rincorsa senza fine, alla fine vinceranno loro, i batteri, se non cambiamo modello di uso degli antibiotici. Questi batteri che hanno imparato a resistere sono la causa di 1,2 ml di morti l’anno, secondo lo studio guidato dall’economista John O’Neill si stimano 10ml di morti entro il 2050.
Senza antibiotici efficaci diventano impossibili anche le operazioni più semplici, anche un’operazione ai denti:
i dati sui batteri resistenti agli antibiotici confermano oggi questa tendenza, siamo di fronte ad uno tsunami, potremmo arrivare ad una situazione in cui le chemioterapie non avranno più effetto, perché il paziente avrà debellato il tumore ma morirà post chemioterapia o post trapianto per una infezione resistente agli antibiotici, spiega a Giulio Valesini la direttrice del reparto malattie infettive dell’azienda ospedaliera di Roma Evelina Tacconelli.

Un problema globale, che in Italia è fuori controllo, secondo il rapporto di ACDC, chiesto nel 2016 dal ministero della salute. Le conclusioni di ACDC sull’Italia sono impietose: la situazione nel nostro paese rappresenta una grave minaccia alla salute pubblica del paese e il disastro è accettato da medici e funzionari del sistema sanitario italiano come se fosse inevitabile.

A quei tempi il ministro Beatrice Lorenzin aveva fatto un bel Piano nazionale di contrasto dell’antimicrobico-resistenza (Pncar) che prevedeva una serie di misure, dalla prescrizione più appropriata alla diagnostica passando per monitoraggio e igiene clinica. Ma è rimasto in un cassetto, proprio come il Piano pandemico nel 2020.
Ci so
no regioni che non inviano i dati al ministero sulle infezioni negli ospedali, rendendo impossibile fare uno screening delle infezioni. In Puglia ad esempio non inviano proprio i dati, per questo hanno nella mappa un valore basse: manca il personale, mancano gli infettivologi.
In Sicilia il
report racconta di batteri che resistono a tutti gli antibiotici: un salto nel passato o forse nel futuro che ci aspetta.
Si dovrebbe fare diagnostica subito, prescrivere antibiotici in modo mirato, controllare l’infezione negli ospedali in tempo reale, aumentare le risorse contro questa pandemia silenziosa in modo da aumentare l’igiene dai batteri. La regione Sicilia non ha avuto risorse in più per il PNCAR, così come anche altre regioni.

Siamo al rischio della fine della medicina moderna: potremmo curarci dal tumore ma morire poi per i batteri presi nell’ospedale. Ancora oggi ci sono regioni che non comunicano i dati, dal Molise alla Campania, nessuno nel ministero paga per questo problema: quest’ultimo aveva messo a bilancio 40ml per il PNCAR ma non sono mai stati erogati alla fine. Sono rimasti bloccati all’interno del ministero della Salute, in una guerra tra gli uffici, prevenzione e programmazione.
Da maggio 2020 l’ex ministro Speranza ha messo a capo della prevenzione Gianni Rezza: l’intesa tra ministero e regioni è stata scritta male, racconta oggi Rezza, dando la colpa ai dirigenti del ministero e alle regioni. Forse il capo di Gabinetto di Speranza suggerisce Rezza.

A giugno è nato anche il piano per l’antibiotico resistenza: le regioni aspettano i soldi, ma non sanno quanti soldi sono sul piatto e nemmeno come verranno spesi.
Ogni ospedale dovrebbe aver un team dedicato all’antibiotico resistenza e alle infezioni: senza investimenti (e senza volontà politica) non si può fare nulla.
Nella ASL Emilia Romagna hanno usato fondi regionali per fare prevenzione sulle infezioni: all’ospedale di Rimini hanno assunto sei infermiere che sorvegliano i reparti e sono in contatto con infettivologi per comunicare la situazione delle infezioni, comunicano quali dispositivi usare per l’assistenza. Sono le infermiere sentinella: controllano anche che il personale si lavi semplicemente le mani (cosa non scontata).

Così oggi O’Neill lancia un nuovo appello: “basta politici, smettere di twittare, via da Facebook, fate qualcosa di concreto, il mio appello al governo italiano e a tutti i membri del G20 è che è arrivato il momento di trattare questo argomento con più serietà. Altrimenti da qui al 2050 quello che è successo con il covid vi sembrerà una festa in giardino.”

Se
condo l’OCSE curare un paziente che ha contratto batteri resistenti costa 11 miliardi euro tra qui e il 2050, chiede ai paesi maggiore igiene negli ospedali e l’uso più mirato di antibiotici. Con queste misure di prevenzione eviteremmo 8-9mila morti l’anno.

Avevamo un piano per combattere i super batteri, ma non è mai stato applicato: il piano aveva dei problemi, per esempio mancavano i limiti negli scarichi dei residui degli antibiotici nei fiumi.

Come lo Zitromax che si è usato anche per il Covid, prescritto per un virus: una cosa che dovrebbe scandalizzare i medici di base.
Come dovrebbe scandalizzare la scoperta dei residui di Zitromax nelle acque del fiume Sava, vicino ad un laboratorio di medicine in Croazia.
Ma la stessa situazione si rileva nelle acque del Po, dove si raccolgono gli scarichi industriali della Lombardia, anche i residui delle aziende farmaceutiche.
L’istituto Mario Negri ha analizzato le acque del Po: ci sono antibiotici sia da uso umano che da veterinario, un campanello di allarme perché significa che in queste acque si “allenano” colonie di batteri sempre più
resistenti.
È la storia di quanto accaduto in India: le acque sversate dalle aziende farmaceutiche hanno inquinato le acque di fiumi e laghi.
Ce ne siamo accorti quando un turista svedese, di ritorno dall’India, ha infettato una parte della Toscana, col batterio New Delhi.
Ma una cosa del genere potrebbe succedere anche da noi, nelle acque del Po e anche nelle acque del Lago Maggiore: per colpa dell’uso improprio degli antibiotici come lo Zitromax si sono registrati un maggior numero di casi di an
tibiotico resistenza.
Perché si prescrivono così tanti antibiotici?
Secondo
il direttore dell’Aifa è colpa di una cattiva cultura, dando la colpa ai medici di base: in modo preventivo danno l’antibiotico, non sapendo se il problema ha una origine virale o batterica.
Ma l’industria influenza la scelta dei medici, facendo pressioni o con una cattiva formazione, come racconta Silvio Garattini dell’Istituto Mario Negri: “L’industria è logico che abbia l’interesse ad aumentare le sue vendite. Quello che a noi manca in Italia è un’informazione indipendente che dovrebbe essere invocata da tutti gli Ordini dei medici. Perché dovrebbero essere i medici a dire non possiamo essere schiavi della informazione di parte”.

M
a tra le più influenti società di formazione c’è la Metis, ma è sponsorizzata da aziende farmaceutiche, ovvero le aziende che fanno i medicinali sponsorizzano la formazione degli stessi. La comunità europea sta sviluppando un incentivo per sviluppare nuovi farmaci: ma la grande industria farmaceutica non sta più sviluppando nuovi antibiotici, così oggi sono le piccole aziende, come la Antabio, che stanno sviluppando nuove molecole, come racconta Marco Lemonnier.

Le aziende stanno aspettando gli incentivi dalla commissione europea, su cui si sta combattendo una guerra tra aziende e governi.
Le aziende farmaceutiche stanno aspettando la pandemia, per poterci speculare sopra?

La commissione europea non ha accesso ai dati reali sui costi per i farmaci, così si rischia di ripagare con extra profitti alle aziende per antibiotici la cui efficacia non è nota a priori.
A fare que
ste trattative è Efpia che propone un modello a voucher (un incentivo che consentirà di incassare a prescindere dal tempo in cui starà sul mercato), con un fondo comune, Action Fund, che ha uno sponsor imporante nell’Oms.
L
a Commissione Ue ha avviato un bando per un importante e costoso studio sull’antibiotico-resistenza e lo ha affidato a una società che fa anche lobbying per le case farmaceutiche, PWC, ma la società di consulenza è stata partner di Efpia, la società che fa lobbying per le aziende farmaceutiche e consulenza per svariate big pharma.

AUTO CHE SI GUIDANO DA SOLE di Michele Buono, in collaborazione con Edoardo Garibaldi

La storia di Vislab, spin off dell’Università di Parma, è una storia italiana che abbiamo perso: la società è stata acquistata dalla multinazionale americana Ambarella. In America produrranno macchine senza guidatore con l’ingegneria italiana.

Noi siamo quelli che puntano alle trivelle, al carbone, all’industria senza ricerca a basso valore.